Da Reset-Dialogues on Civilizations
C’è anche un po’ di continente africano e Medio Oriente al Festival di Cannes 2016, al via il prossimo 11 maggio con una carrellata di volti noti e alcune sorprese, concentrate soprattutto nelle sezioni Un certain regard e Séance de minuit.
Ecco dunque l’egiziano Eshtebak (Scontro) di Mohammed Diab selezionato per partecipare alla prestigiosa rassegna. Una pellicola realizzata quest’anno, ma che guarda ai fatti del luglio 2013, quelle manifestazioni che condussero – con l’intervento determinante delle Forze armate guidate dal generale Abdel Fattah al-Sisi – alla destituzione del presidente islamista Mohammed Morsi. L’obiettivo del regista, anche sceneggiatore, era quello di evidenziare tanto le ferite che segnano il corpo sociale egiziano quanto la drammaticità di un’epoca che tira fuori il meglio e il peggio di ogni essere umano. I pro-Morsi e gli anti-Morsi sono ancora lì, sfondo tormentato di una dittatura che, tre anni dopo la propria epifania, sta mostrando la faccia nascosta.
Mohammed Diab è una firma collaudata della cinematografia egiziana (si ricordino Gezira 1 e 2): la notizia della sua partecipazione è stata accolta con soddisfazione dalla stampa nazionale, provata da un clima oscurantista e diffidente.
Altrettanto drammatico – e inserito fra le pellicole di Un certain regard – è anche l’iraniano Varoonegi (Inversione), di Behnam Behzadi. Un regista già “laureato” (a Nantes), che ha mostrato le sue potenzialità con Piegando le regole, nel 2013. Il film, interpretato da Ali Mosaffa e Sahar Dowlatshahi, racconta la storia di tre fratelli che si occupano dell’inquinamento dell’aria nella capitale iraniana, megalopoli formicolante di vita, sogni, arretratezza e modernità.
Ma il Festival mette in mostra due pellicole israeliane. La prima segna il ritorno di Eran Kolirin, apprezzato regista di La Banda (Bikur Hatizmoret): come dimenticare quel surreale racconto del viaggio di una banda egiziana che si ritrova bloccata in mezzo al deserto israeliano, nella cittadina di Bet Hatikva? Ora Kolirin, dopo qualche altro film meno fortunato, ritorna per presentare Oltre le montagne e le colline (Me’ever laharim vehagvaot): per il momento, si sa poco della sua ultima creatura. In sintesi, un veterano dell’esercito israeliano non riesce più a riconoscere il proprio Paese e, quindi, a condividerne il progetto. Indiscrezioni danno per entusiasmante la musica, in cui spiccano artisti israeliani come Arik Einstein, Yarkon Trio e Shlomo Artzi. Anche ne La Banda, Kolirin aveva stregato tutti proprio con l’elemento musicale, insignito del premio Fipresci (la Federazione dei critici cinematografici) a Cannes (e svariati Oscar israeliani). Oltre le montagne e le colline potrebbe stupire, per impegno politico e civico.
Quanto a Maha Haj, regista e film si presentano accompagnati da critiche e dibattiti: la cristiana, scrittrice e giornalista, Haj si considera palestinese e non è per niente turbata dal fatto di presentare il suo film come israeliano. Pressoché una bestemmia per alcuni colleghi e intellettuali in patria. «Sono palestinese e questo è un film israeliano, finanziato con fondi di Israele. Non vedo dove sta il problema», ha dichiarato recentemente. E c’è già chi vede in lei – o spera – il simbolo di una futura identità riconciliata e pacificata.
Poi, però, nello scorrere la lista aggiornata di tutti i film iscritti all’edizione numero 69 del Festival, non può sfuggire il nome di Mahamat-Saleh Haroun, premiato nel 1999 a Venezia con il suo lungometraggio Bye Bye Africa, quale migliore opera prima.
Poi, è stato trionfo ancora in laguna con Daratt (2006), Premio speciale della giuria. Nel 2010, il regista ciadiano è stato in concorso al Festival di Cannes con Un homme qui crie, insignito del Gran Premio della Giuria.
Quest’anno Haroum porta Hissène Habré, une tragédie tchadienne, nella Séance de minuit. Uno spaccato di storia attualissima per il Ciad, ma non solo: Habré, uomo politico e dittatore, detestato o osannato a seconda della prospettiva di osservazione, ha tessuto nel tempo forti legami con la Libia di Muammar Gheddafi e il Senegal, Paese in cui vive scudato dai mandati internazionali spiccati nei suoi confronti. Nel frattempo ‘Ndjamena lo ha condannato a morte 8 anni fa per crimini contro l’umanità commessi fra il 1982 e il 1990.
Aggredito dal fondamentalismo islamico dei Boko Haram, alla ricerca di un rilancio economico e di effettiva autonomia dalla Francia, il Ciad stenta a dimenticare quel decennio orribile. Il film è anche la storia, dunque, delle varie anime di un Paese che tentano di perdonarsi reciprocamente.
Ecco insomma una piccola squadra di pellicole dotate tutte di un certo sguardo, spaccato prezioso di mondi lontani eppure così vicini.
Nella foto di copertina: l’attrice Lupita Nyong’o sfila sulla croisette nell’edizione 2015 del Festival
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