Da Reset-Dialogues on Civilizations
Trent’anni fa, nella notte tra il 25 e il 26 aprile 1986, un gruppo di ingegneri al numero quattro del reattore della centrale nucleare “Lenin” di Chernobyl, nel nord dell’Ucraina, iniziava un fatidico esperimento: verificare il funzionamento della turbina in caso d’ improvvisa interruzione di corrente elettrica. Gli operatori avevano bisogno di ridurre la capacità d’alimentazione del reattore, ma il risultato, sia per errori di calcolo sia per l’arretratezza degli impianti, fu un arresto quasi completo. La decisione successiva, d’aumentare il livello di potenza, portò l’impianto a surriscaldarsi e, pochi secondi dopo, a due grandi esplosioni, che distrussero parzialmente il nocciolo del reattore e provocarono un incendio, che durò nove giorni.
Fuoriuscirono circa il 50% di iodio e il 30% di cesio della centrale nucleare, disperdendosi nell’atmosfera, con un’emanazione di radioattività tra i 50 e i 250 milioni di Curie, quantità circa cento volte maggiore rispetto a quella delle bombe americane su Hiroshima e Nagasaki del 1945. Sebbene il disastro giapponese di Fukushima del marzo 2011 abbia raggiunto lo stesso livello di classificazione, il settimo, sulla scala internazionale “Ines”, fissata dall’ Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (AIEA), l’incidente di Chernobyl è considerato tuttora dagli esperti quello più grave della storia in tempo di pace: per la velocità, l’entità della fuga di materiale radioattivo e gli effetti per salute ed ambiente non solo della zona, ma, in varia misura, anche di altre regioni dell’allora URSS come dei paesi europei, dalla Svezia alla stessa Italia.
Nell’aprile 1986, i quattro i reattori della centrale fornivano energia elettrica al 10% dell’Ucraina. A Chernobyl, si liberarono in aria gas radioattivi, “aerosol” e polveri: 190 tonnellate di materiale altamente radioattivo furono quindi espulsi nell’atmosfera, vaste aree stimate in 50.000 chilometri quadrati, principalmente nelle tre repubbliche, allora sovietiche, di Ucraina, Bielorussia e Russia, furono altamente contaminate dalle ricadute della fusione nucleare.
Le misure d’ evacuazione partirono, con un giorno di ritardo (di cui è difficile calcolare il peso negativo), solo il 27 aprile, e durarono 3 ore. Circa quarantamila persone residenti nella zona furono trasferite, a partire dagli abitanti di Pripyat, la cittadina a un passo da Chernoby (che oggi, completamente abbandonata, ha un aspetto davvero spettrale, a metà tra Hiroshima e le storiche “città fantasma” del West); altre 116.000 costrette a lasciare le aree limitrofe, mentre almeno seicentomila persone, provenienti da tutte le repubbliche sovietiche, furono assistite nell’evacuazione. Trentuno persone vennero segnalate come vittime nei momenti immediatamente successivi al disastro (salite poi, secondo i dati dell’ AIEA, a quattromila col passare delle ore e nei giorni seguenti); e, in totale, circa 8,4 milioni di cittadini di Bielorussia, Russia e Ucraina rimasero esposti a radiazioni. Secondo l'”Unione Chernobyl-Ucraina”, circa 9.000 “liquidatori” ( cioè operatori addetti allo spegnimento dell’incendio, durato parecchi giorni) russi morirono, e più di cinquantamila rimasero invalidi a seguito della tragedia. Negli anni seguenti si contarono poi almeno altre venticinquemila persone tra le c.d. “vittime collaterali” in Ucraina, Russia e Bielorussia, per malattie contratte in seguito alle radiazioni; cifre sempre non ufficiali indicano centomila casi di tumore alla tiroide nelle tre ex repubbliche sovietiche, tra i bambini ma anche tra adulti e anziani, e un numero imprecisato di casi di disturbi psicologici. Sempre secondo l’ AIEA, l’esplosione causò la contaminazione più elevata in un’area nel raggio di 100 km dalla centrale, con la maggior concentrazione di isotopi di stronzio, cesio e plutonio.
L’allarme in Europa giunse dalla Svezia il 28 aprile, quando nel Paese fu registrata radioattività anomala. Nei primi dieci giorni successivi alla catastrofe, elicotteri militari sovietici versarono oltre 1800 tonnellate di sabbia e 2400 di piombo sul reattore, ma solo il 6 maggio la situazione poté dirsi almeno “sotto controllo”. Da Mosca – con tanti saluti a glasnost e perestrojka – l’ammissione del disastro arrivo solo il 14 maggio, quasi tre settimane dopo, da parte dell’allora Segretario generale del PCUS, Mikhail Gorbaciov (da notare che quest’ultimo, nel pur onesto saggio autobiografico Il nuovo muro, uscito ultimamente in Italia con Sperling & Kupfer e dedicato appunto alla Russia dalla perestrojka a Putin, non accenna minimamente al dramma di Chernobyl, pur dedicando ampio spazio ai temi ambientali).
Il 7 luglio 1987, poco più di un anno dopo, sei ex funzionari e tecnici della centrale di Chernobyl finirono sotto processo (un processo particolarmente frettoloso, dominato dall’ansia di trovare al più presto dei colpevoli), con l’accusa di negligenza e violazione delle norme di sicurezza. Tre di loro, ovverosia Viktor Bruyihov, ex-direttore centrale di Chernobyl; Nilolai Fomin, ex -ingegnere capo; e Anatoly Dyatlov, ex-ingegnere vicecapo furono condannati a 10 anni di carcere ciascuno.
Molti ricordano personalmente l’atmosfera di preoccupazione, di ansia collettiva, creatasi in Europa nelle settimane successive all’incidente: nel timore, specialmente, non solo dell’arrivo dalla Russia di generi alimentari radioattivi, ma di contaminazioni degli stessi prodotti agricoli europei, per la diffusione delle polveri radioattive nel suolo e, quindi, nella catena alimentare. Le scene quasi di panico in vari mercati cittadini italiani, e il crollo verticale delle vendite di latte. In Italia, l’ondata di paura seguìta a Chernobyl fu senza dubbio una delle spiegazioni della rinuncia alla produzione di energia nucleare sancita dal referendum dell’ autunno 1987. Il “fattore Chernobyl”, seguìto, 25 anni dopo, dalla nuova ondata di preoccupazione generata dalle ondate di Fukushima (marzo 2011), ha pesato abbastanza anche nelle scelte della Germania: che oggi, guidata ancora dalla “Grande coalizione” CDU-SPD, conferma la decisione di fuoriuscire completamente dal nucleare, sia pur in modo graduale. Mentre in Giappone, dopo Fukushima il dibattito è ancora aperto.
E a Chernoby? Più di 200 tonnellate d’ uranio sono ancora sepolte sotto il vecchio reattore della centrale, mentre il nuovo “sarcofago” di cemento che dovrebbe impedire ulteriori contaminazioni (quello vecchio, realizzato appunto nel 1986 si è progressivamente deteriorato), dal 2010 non è stato ancora ultimato. La grave crisi politica ed economica ucraina ha ritardato i piani per la conclusione del progetto, prevista ora per il 2017: mentre la centrale (il cui ultimo reattore è stato chiuso dal governo nel 2000) sarà totalmente smantellata entro il 2065. Attualmente sono 158 le persone che, nonostante i divieti governativi, continuano a vivere nella cosiddetta “zona di esclusione”, nel raggio molto ravvicinato di soli 30 km dalla centrale: sono perlopiù anziani dal modesto tenore di vita, con poche possibilità di stabilirsi altrove. Nove milioni sono, secondo Greenpeace, coloro che risiedono in regioni comunque contaminate: mentre la zona proibita è divenuta, incredibilmente, meta per le gite delle agenzie, che cinicamente offrono ai turisti la possibilità d’ arrivare sin sotto il reattore n. 4 di Chernobyl, visitando poi la città fantasma di Pripyat. Ad aver ripopolato la zona, comunque, son stati soprattutto gli animali (lupi grigi, cinghiali selvatici, volpi rosse, procioni): poco influenzati, a quanto sembra, dalla presenza di radiazioni (anche se, secondo gli scienziati, servono maggiori approfondimenti per capire gli effetti della contaminazione sulla fauna).
Nelle sale italiane dovrebbe presto uscire Il complotto di Chernobyl (titolo originale The Russian Woodpecker, ovverosia nella traduzione letterale “Il picchio russo”: presentato in anteprima mondiale e Gran Prix della Giuria al Sundance Film Festival del 2015). Si tratta di un film documentario del 2015, diretto e prodotto da Chad Gracia (protagonista Fedor Alexandrovich, un artista ucraino), che ipotizza mandanti moscoviti all’origine dell’incidente dell’‘86 (forse, lo stesso Vasily Shamshin, ministro sovietico delle Comunicazioni dall’80 all’89, morto poi nel 2009): vòlti a disattivare, con l’esplosione, l’inefficiente e costosissimo radar “Duga”, costruito anni prima a scopi militari, nelle vicinanze dell’impianto, dal Governo sovietico.
Intanto, mentre la Russia di Putin, messo “in soffitta” il ricordo di Chernobyl, procede ulteriormente sulla via del nucleare civile, e l’Ucraina è stretta fra coscienza ambientalista e difficoltà – vista la tensione con Mosca, che periodicamente riduce le forniture di gas a Kiev – a trovare strade alternative alle centrali, alcuni ricercatori, studiando la contaminazione dei cibi prodotti in Ucraina e Russia (specie latte, carne, funghi), hanno scoperto che il livello degli isotopi radioattivi (come il famigerato Cesio-137) è tuttora significativamente più alto – in alcuni casi, fino a ben 16 volte – dei limiti previsti per il consumo umano (risultati dello studio, diffusi da un rapporto di Greenpeace di metà marzo scorso). I ricercatori affermano di non sapere ancora bene quale possa essere l’impatto a lungo termine dei disastri nucleari: ma che ci vorranno generazioni, perché questi radioisotopi siano resi nuovamente stabili. In tutto questo tempo, i sopravvissuti che vivono nella zona – e che, in gran parte, non hanno ricevuto il benché minimo indennizzo dal Governo sovietico e poi russo – vivranno per sempre inesorabilmente a rischio.
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