Da Reset-Dialogues on Civilizations
Quarant’anni dopo, l’Argentina ricorda il tragico tunnel della dittatura dei generali. Iniziata con quel golpe del 24 marzo 1976 contro Isabelita Peron, da due anni successa al mitico marito (brevemente tornato al potere, un po’ come Napoleone dall’ Elba, nel ’73- ’74), che aveva posto fine sia alla democrazia (per quanto “pilotata” e oscillante) che allo storico sogno peronista d’una società diversa, d’una “Terza via” tra capitalismo e collettivismo sovietico, realizzata però a destra.
Da questo tunnel, l’Argentina sarebbe uscita solo sette anni dopo, nel 1983. In quegli anni (1976- ’83), quasi 40.000 persone (operai, studenti, docenti universitari, sindacalisti, giornalisti, attivisti politici, operatori umanitari, religiosi terzomondisti e madri alla ricerca dei figli scomparsi; 30.000 solo sotto il primo dittatore, Videla, sino al 1981) furono rapite, torturate e assassinate dopo sommari processi (la maggior parte di esse sono tuttora scomparse, “desaparecidos”). Mentre altre 50.000 trascorsero anni nei circa 600 centri di detenzione illegale e tortura (dall’ ESMA, la “Scuola di Meccanica” dell’ Esercito, nel centro di Buenos Aires, al famigerato “Garage Olimpo”, ispiratore, poi, dell’omonimo film del 1999).
Tutto questo dopo un golpe ampiamente appoggiato (come già per quello cileno) dagli USA di Kissinger, e finanziato in buona parte dalla P2 (almeno due membri di spicco della Giunta, l’ammiraglio Massera e il generale Suarez Mason, erano del resto iscritti all’ organizzazione di Licio Gelli). Motivato, ufficialmente, con la necessità di stroncare un “pericolo comunista” in realtà inesistente (il PC argentino era da sempre tollerato, e gli oppositori erano soprattutto peronisti di sinistra, i celebri “Montoneros”, socialisti e democratici), con un fantomatico piano sovietico di penetrazione geopolitica nel “Cono sud” dell’ America Latina; e di riportare l’ordine in un Paese scosso dal terrorismo.
L’ Argentina ricorda, dicevamo. Ma a farlo, non è tanto quella ufficiale: l’ambasciata a Roma, ad esempio, il 23 marzo scorso ha organizzato una semplice commemorazione del 24 marzo 1976 all’ Istituto Italo-Latino Americano, con l’intervento dell’ incaricato d’affari, e responsabile per i Diritti Umani, Carlos Cherniak, e la partecipazione anche di altre rappresentanze diplomatiche latino-americane. Il nuovo governo di Mauricio Macri, Presidente, da dicembre 2015, su posizioni fortemente liberiste e filostatunitensi (emerse ad esempio, al di là dell’ufficialità, nella visita di febbraio scorso a Papa Bergoglio), non sembra, invece, troppo motivato a ricordare gli anni della dittatura. L’iniziativa, specie in Italia, è stata presa soprattutto dalle varie realtà dell’associazionismo argentino all’estero: come il Grupo de argentinos por la Memoria, Verdad y Justicia (che da anni s’impegna su temi essenziali della vita argentina, spesso riguardanti anche il nostro Paese) , e l’associazione 24 Marzo Onlus, che vuole “contribuire al rispetto dei diritti umani fondamentali, della dignità e del valore della persona, anche mediante tutela giudiziale”, in un contesto di libertà dei popoli. Quest’ultima ha organizzato il 23 marzo, insieme alla storica “Fondazione Basso” nella sede di Via della Dogana Vecchia, un pomeriggio di ricordo e di riflessione sul 24 marzo, data cruciale per il Sudamerica tanto nel 1976, giorno del golpe argentino, quanto nel 1980, giorno dell’assassinio, nella cattedrale di San Salvador, di mons. Oscar Arnulfo Romero.
Nel 1983, anno chiave per l’ Argentina contemporanea, i militari, sconfitti nella guerra con l’ Inghilterra per le Isole Falkland/Malvinas, risultata fatale per loro come già, nove anni prima, quella per Cipro ai colonnelli greci, si facevan da parte, e il nuovo presidente, il radicale Raul Alfonsin, democraticamente eletto il 6 dicembre, da un lato metteva fuorilegge sia l’ERP, le formazioni rivoluzionarie di stampo marxista, che i Montoneros; dall’altro promuoveva la creazione della Comision Nacional sobre la Desaparecion de Personas (CONADEP), Commissione d’inchiesta sui crimini della dittatura, che avrebbe portato in tribunale i membri della Giunta.
In Argentina si contarono oltre duemila processi, che portarono all’ ergastolo i responsabili: gli stessi generali Videla, Massera, Viola e Bignone (ultimo capo della Giunta, nel 1982- ’83), per crimini contro l’umanità. Ma nel 1986- ’87, dopo nuovi tentativi di golpe, da parte soprattutto di giovani ufficiali, Alfonsin sarebbe sceso a patti con le Forze Armate: facendo approvare le leggi De Obediencia Debida e De Punto Final (che, in sostanza, tranquillizzavano militari colpevoli e loro complici, rispolverando il logoro ritornello nazista della non punibilità causa “Obbedienza assoluta, pena la morte”).
Risultato sarebbe stato, nel 1990, l’indulto per i colpevoli della dittatura varato da Carlos Menem, nuovo presidente, peronista di destra; tra il 2004 e il 2010. Tuttavia, Nestor Kirchner e poi la moglie Cristina, successagli nel 2007 alla Presidenza ( ambedue peronisti di sinistra, richiamantisi maggiormente alla politica sociale del “Generalissimo”), avrebbero cambiato nuovamente registro, rimandando in carcere vari responsabili dei massacri ancora in vita, e facendo riprendere alla Magistratura le indagini.
«Ora – sottolinea Diana Caggiano, portavoce del Grupo – siamo molto scontenti dell’andazzo che si sta creando nell’ Argentina di Macri, preoccupata solo d’entrare il più possibile nei business internazionali della globalizzazione: a Buenos Aires, però, il 24 marzo, una folla imponente ha chiesto la piena verità sugli anni della dittatura».
Tra i manifestanti, anche molte delle storiche Madri di Plaza de Mayo, attive sin dal ’77 nel chiedere notizie dei figli desaparecidos, ora in gran parte divenute tuttavia “Abuelas”, ovverosia “nonne”: che insieme alle organizzazioni per i diritti umani, da tempo indagano anche su un’altra atrocità di quegli anni. L’affidamento forzato di figli di oppositori, presi in tenera età, a famiglie vicine invece ai persecutori.
«Siamo altresì contrari – prosegue la Caggiano – ad un allargamento, qui in Italia, del Processo Condor ad altri imputati: come proposto dall’ associazione 24 Marzo, recentemente».
Il Processo Condor, aperto a febbraio 2015 su iniziativa del GUP della Procura di Roma Alessandro Arturi, contro nove ex esponenti della “Junta” argentina, indiziati per l’assassinio di italo-argentini non residenti nel Paese sudamericano, rappresenta il “ramo italiano” del più generale giudizio contro i responsabili dell’Operazione Condor; che negli anni Settanta, col pieno sostegno della CIA, vide i servizi segreti di ben sette Paesi latino-americani (Argentina, Brasile, Bolivia, Cile, Paraguay, Perù e Uruguay), collaborare in un gigantesco piano di sterminio degli oppositori, spesso gettati vivi in mare da aerei militari.
«Ci opponiamo ad un allargamento di questo processo – precisa dunque la Caggiano – perché una condanna di altri imputati, in questo giudizio italiano, renderebbe più difficile la loro estradizione in Argentina. Che è, invece, la sede di giudizio più giusta. Tuttora, il nostro è l’unico, dei 7 Paesi coinvolti nell’Operazione Condor, ad aver istruito un processo, contro i responsabili, sul proprio suolo».
«Sempre per quanto riguarda l’Italia – sostiene Claudio Tognonato, italo-argentino, docente di Sociologia all’ Università Roma Tre (che il 19 aprile organizzerà un grande seminario di riflessione sull’Argentina a Quarant’anni dal golpe) – ricordiamo che, nel 2014, la Corte di Cassazione negò l’estradizione di Franco Reverberi Boschi, sacerdote italo-argentino che durante la dittatura ricopriva il ruolo di assistente cappellano dell’VIII Battaglione di San Rafael. Diversi testimoni l’ accusano d’ aver assistito, Bibbia alla mano, alle sessioni di tortura dei prigionieri. Consapevole del rischio che in Argentina correva, il 10 maggio 2011, poco prima dell’udienza che avrebbe causato la sua detenzione, Reverberi lasciava il Paese per raggiungere appunto l’Italia: dove, almeno sino a un anno e mezzo fa, risultava esercitare le sue funzioni religiose presso una parrocchia di Sorbolo, in provincia di Parma (città dov’ è nato il 24 dicembre 1937). Una volta accertata dall’ Interpol la sua presenza in Italia, il governo argentino di Cristina Kirchner sollecitava l’estradizione: che invece, a causa di questa sentenza,è stata definitivamente negata dall’ Italia. Casi come questo sembrano rinviare a un vecchio problema mai risolto, tra Italia e Argentina: la forte presenza di membri della Loggia P2 nelle vicende della dittatura del 1976- ’83, e l’esistenza tra i due Paesi, perdurante tuttora, di un’ incredibile rete di modello piduista d’ interessi e complicità. Abbiamo raccontato questa “storia” in una lettera aperta del Grupo all’allora Presidente della Repubblica Napolitano, ai Presidenti del Senato e della Camera, Pietro Grasso e Laura Boldrini, e al Presidente del Consiglio Matteo Renzi. Era il dicembre 2014».
Ancora in occasione del quarantesimo anniversario del golpe di Buenos Aires, infine, la Biblioteca “Marie Anne Erize” (intitolata alla memoria d’una giovane modella franco-argentina, attivista per i diritti umani, trucidata nel 1976), che è ospitata all’interno dell’ omonimo centro antiviolenza nel quartiere periferico romano di Tor Bellamonaca, e ha il patrocinio delle ambasciate argentina e francese, ha organizzato un incontro, aperto al pubblico, proprio coi familiari di Marie-Anne, l’anziana madre e i fratelli, Marie-Noelle e Marco, temporaneamente a Roma.
«Poco tempo dopo il golpe – ha ricordato Marie-Noelle Erize – mia sorella aveva preferito lasciare Buenos Aires, rifugiandosi, col suo compagno Daniel, montonero, a San Juan, 1000 km. in linea retta verso occidente, ai confini col Cile. Ma il 15 ottobre del 1976 riuscirono ad arrestarla mentre andava a ritirare la bicicletta, portata ad aggiustare. Giorni dopo, una breve telefonata anonima ci confermò la notizia del suo sequestro: da allora non abbiamo saputo più nulla di mia sorella, e il suo corpo non è stato mai ritrovato».
Marie Anne è stata una dei diciotto franco-argentini sequestrati in quegli anni; su ognuno di loro, un avvocato ha fatto poi pazienti ricerche, appoggiato dal governo di Francois Mitterrand. Molti anni dopo, il 6 agosto 2000, proprio il maggiore Jorge Olivera – che 24 anni prima aveva arrestato e personalmente violentato Marie Anne Erize – si trovava all’aeroporto di Fiumicino, reduce da Londra . L’ Interpol lo bloccò, su imputazione della magistratura francese appunto per il caso di Marie Anne, con un mandato di cattura internazionale per sparizione e tortura. L’uomo starà nel carcere di Regina Coeli solo poche settimane, prima di ricevere un nulla osta al ritorno in Argentina: il suo legale Augusto Sinagra, lo stesso avvocato di Licio Gelli, farà immediatamente ricorso contro la richiesta francese d’estradizione, inviando, per fax (!), un falso certificato di morte.
«La verità – aggiunge Marco, fratello di Marie Anne – rende sempre liberi, ed è sempre rivoluzionaria: è positivo che questo centro romano porti avanti quegli stessi valori di amore, compassione, giustizia che erano cari a mia sorella».
«Oggi, molti luoghi di detenzione arbitraria della dittatura (tra cui anche la famigerata ESMA di Buenos Aires) – precisa Stefania Catallo, responsabile della Biblioteca e presidente del Centro antiviolenza di Tor Bellamonaca, – sono stati trasformati in “Centri di vita”, con asili, ludoteche, e spazi per iniziative culturali. Mentre qui a Roma, come Grupo, abbiamo chiesto l’intitolazione d’una strada appunto a Marie-Anne Erize; e recentemente siamo riusciti a far impiantare, in sua memoria, un ulivo nel cortile del Liceo scientifico “Edoardo Amaldi”, proprio qui a Tor Bellamonaca. In questo stesso liceo, dal prossimo anno entrerà in funzione, su nostra iniziativa, una borsa di studio riservata ai giovani studenti, per ricerche sul tema dei diritti umani».
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