Da Reset-Dialogues on Civilizations
La morte di Giulio Regeni ha fatto luce sullo scenario sempre più violento della politica egiziana. La repressione governativa volge verso tutte le opposizioni, laiche e islamiste, provocando dei radicali cambiamenti nel quadro politico e sociale egiziano. La più grande forza organizzata egiziana, la storica confraternita dei Fratelli Musulmani, affronta probabilmente la crisi più grave della sua lunga storia e lotta per la sua stessa esistenza. A seguito degli arresti in massa, in assenza delle guide storiche, recluse in prigione o in esilio, i giovani hanno preso in mano l’organizzazione.
Le elezioni interne del Febbraio 2014, tenutesi in Egitto, ma anche in Qatar, Turchia Malesia e Sudan, hanno sancito una nuova leadership, con la creazione di un “Comitato di gestione della crisi”. La nuova direzione egiziana, composta da oltre il 65% di giovani, guidata dal membro del Consiglio Direttivo Mohammad Kamal e dal controverso portavoce mediatico Mohammad Montasser, rivendica, nel suo approccio rivoluzionario islamico, l’uso della violenza nell’azione politica, oltre ad un processo decisionale dal basso in rottura con la tradizionale struttura piramidale della Fratellanza e che garantisca l’autonomia dai vecchi leader riparati all’estero. I rapporti con gli esponenti della leadership storica, guidati da Ibrahim Munir per l’organizzazione internazionale della Fratellanza e da Mahmud ‘Ezzat, latitante dal 2013 e vice della Guida Generale Mohammad Badie, si sono dunque presto deteriorati.
Nel mese di Dicembre 2015 la “vecchia guardia” ha ordinato la rimozione dall’incarico del portavoce mediatico Mohammad Montasser. Questa decisione, respinta nettamente, ha fatto esplodere le divergenze tra le due componenti. Le sezioni di Cairo, Giza, Alessandria, Qalubiya, Fayum hanno immediatamente denunciato l’ingerenza. L’ala egiziana fedele a Montasser ha disconosciuto quindi gli ordini e rilanciato la propria iniziativa, annunciando la creazione di una commissione di indagine sui fatti e sulle persone coinvolte, dentro e fuori Egitto: uno schiaffo a Mahmud ‘Ezzat, vice-Guida Suprema, a tutta la vecchia leadership. Di fatto il gruppo egiziano non riconosce più alcuna autorità, la Guida Generale è in prigione e mancano personalità che possano imporre autorevolmente una volontà unitaria.
Le due correnti si disputano anche il controllo dei mezzi di comunicazione: la vecchia guardia ha fondato un nuovo sito web, ikhwan.site, ed ha chiuso lo storico ikhwanonline che era finito sotto il controllo del gruppo dirigente egiziano. La rottura tra le parti si è palesata anche mediaticamente con uno scambio feroce di comunicati e reciproche sconfessioni. Il focus della controversia si è allargato dall’uso della violenza alle strategie più generali che devono guidare la Fratellanza. I giovani rivoluzionari chiedono un approccio organizzativo democratico, in cui la base guidi, invertendo il tradizionale modello piramidale dell’organizzazione. Il modello a cui si ispirano è simile a quello di Hamas, basato su cellule con ampia libertà di azione, senza l’obbligo del consenso dei livelli più alti della gerarchia, come invece è tradizionalmente avvenuto nei Fratelli. Inoltre i giovani imputano alla leadership storica la pessima situazione attuale, eredità dei fallimenti di Mursi, rivendicando cambiamenti radicali. Hanno allargato fortemente il loro raggio di azione alleandosi con circoli salafiti-movimentisti che non si sentono vincolati dai legami di obbedienza ai leader dell’organizzazione.
La questione della violenza è diventata dirimente, i giovani soggetti ad una feroce repressione non credono che il pacifismo sia la tattica adeguata, e reclamano libertà di iniziativa. La crescente crudeltà dei metodi repressivi, le carcerazioni, gli squadroni della morte governativi, le torture, la memoria della violenza dello sgombero di Rabaa al ‘Adawiyya (uno dei “miti fondanti” delle nuove generazioni della Fratellanza), hanno spinto gran parte dei giovani a giustificare l’uso della violenza, prima durante le manifestazioni sotto lo slogan “tutto eccetto i proiettili”, poi con operazioni armate mirate contro apparati dello Stato, membri delle forze di sicurezza, magistrati ecc. Una parte della gioventù ha dichiarato il jihad contro il regime di Al Sisi, bollato come anti-islamico e apostata. La narrativa del gruppo egiziano è intrisa di ardore religioso e Al-Sisi viene paragonato al Faraone, al taghut, l’oppressore da abbattere. In questa visione qutbista, l’assassinio del “Faraone” diventa perciò un dovere religioso e questo pensiero radicale sta conquistando internamente una certa egemonia, non limitandosi solo alle fasce giovanili.
In questo scenario il 10 Gennaio 2015 Salama Abdel Qawi, ex portavoce del Ministero degli Affari Religiosi con il governo di Mursi, ha emesso una fatwa affermando che “uccidere il presidente Al-Sisi o uno dei ‘leader criminali’ avvicina a Dio. E se una persona viene uccisa durante il tentativo di uccidere Al-Sisi, è martire”. La leadership storica, dopo aver tollerato inizialmente la situazione per mantenere l’unità e sperando di usarla come forza di pressione sui militari per ottenere concessioni, ora non tollera più tali posizioni che, oltre a confliggere con l’immagine dei Fratelli Musulmani, mettono in pericolo la sopravvivenza dell’organizzazione. Una mediazione è stata chiesta al noto Sheykh Al Qaradawi, senza esito poiché entrambe le parti sono rimaste sulle loro posizioni originarie. L’esito di questo scontro deciderà il futuro delle prossime generazioni di militanti islamisti e della Fratellanza stessa, in un momento in cui il “fascino” dell’opzione jihadista si fa sempre più forte, così come la sua propaganda.
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