Da Reset-Dialogues on Civilizations
Il 4 febbraio a Colonia il carnevale più famoso della Germania festeggia, come ogni anno, la giornata dedicata alle donne. Quest’anno è una festa diversa, meno allegra e spensierata del solito. Donne di varie parti di Europa si danno appuntamento nella città renana per manifestare contro le violenze che, a Capodanno, hanno avuto come bersaglio un migliaio di loro. Succede. Succede periodicamente, a Colonia come in tutte le città europee, che le donne siano vittime di varie forme di violenza, dalla molestia per strada fino allo stupro. Un mese fa, tuttavia, siamo stati sbalorditi spettatori di un episodio di aggressione differente dagli altri. Per la sua modalità organizzata, lungo i canali interattivi di WhatsApp, per le caratteristiche degli aggressori, nordafricani e mediorientali nella grande maggioranza dei casi, per il senso di sfida che esso ha assunto nei riguardi delle donne (ma anche degli uomini) e dei princìpi che vi sono collegati.
Inizialmente nascosto dalla polizia, rallentato e tenuto in sordina dai media, minimizzato dai politici locali, l’evento – che ha registrato repliche minori in altre città della Germania come Bielefeld e fuori dagli stessi confini tedeschi – una volta conosciuto ha suscitato grande impressione. Il perché è semplice: a parità di aggressività maschile, che non manca occasione di mostrare odio e paura nei confronti del femminile, dalle violenze di Colonia emerge un quid in più rappresentato da una concezione discriminatoria della donna riconducibile alla cultura di provenienza degli aggressori.
«Quelle bestie non avevano alcuna cultura» ha affermato d’impulso la scrittrice Claudia Schreiber. Purtroppo per tutti, la cultura che trapela dai fatti di Colonia non ha nulla a che fare con l’istruzione, bensì è quella antropologica, cioè l’insieme di valori a partire dai quali gli individui poi decidono i propri atteggiamenti e comportamenti. In questo senso si è manifestata la differente concezione della donna prevalente nei paesi di origine degli aggressori. Elementi religiosi (da valutare dal punto di vista non teologico bensì dei comportamenti che possono influenzare) e, in misura anche maggiore, elementi sociali che affondano le radici nella tradizione, si mescolano tra loro dando vita a una visione del mondo condivisa dalla maggioranza degli uomini (e presumibilmente anche da molte donne). Una visione che, pianamente detto, considera la donna inferiore e dotata di minori diritti rispetto all’uomo. La classica argomentazione usata dal maschilismo in tutte le sedi – dai giornali conservatori alle aule dei tribunali passando per gli spogliatoi del calcetto – capovolge la logica della violenza per cui gli aggressori diventano vittime e le vittime diventano provocatrici. Come ha affermato un imam di Colonia, Sami Abu-Yusuf, la colpa è delle donne che «se ne vanno in giro mezze nude e profumate».
È difficile non dare ragione ad alcune intellettuali che, come Élisabeth Badinter in Francia, hanno criticato la reticenza della sinistra ad affrontare questi aspetti. È vero, quello che mette a confronto e, peggio, può mettere in contrapposizione tra loro due “differenze” rappresentate da un lato dagli immigrati (in questo caso gli immigrati musulmani), dall’altro le donne, è imbarazzante. Non si capisce perché Luca Ricolfi, che sul Sole 24 ore rivolge incalzanti obiezioni al pensiero progressista in materia, definisca un “totem” di quest’ultimo “la difesa delle minoranze”. La difesa delle minoranze non è un totem. È, da Voltaire in poi, un caposaldo del pensiero occidentale, né meraviglia che storicamente esista questa sensibilità in Europa e in Germania. È quindi legittimo preoccuparsi della possibilità che un evento, tanto più se grave come quello di Colonia, venga imbracciato dal razzismo per attaccare le minoranze, estendendo a milioni di persone la responsabilità degli atti di pochi. Va riconosciuto apertamente che, quando il dilemma è l’applicazione dello stesso valore (la difesa delle differenze) a due soggetti in momentanea contrapposizione, l’imbarazzo è giustificato. Di più: è giusto.
La questione, su cui devono finalmente misurarsi il pensiero femminista e quello di sinistra, è che non basta ammettere l’imbarazzo, è necessario anche superarlo prospettando delle soluzioni. A cominciare dal metodo, convenendo che, comunque, è inaccettabile arretrare in materia di diritti, tanto delle donne quanto degli immigrati. La soluzione non può che essere un contemperamento tra questi due beni comuni, entrambi importanti. Con altrettanta onestà è necessario ammettere che tradurre questo metodo in pratica non è facile. Paradossalmente, è più facile sul piano giuridico: dalle più semplici fattispecie civili in materia di diritto ereditario, a quelle più complesse di diritto di famiglia, fino a quelle estreme di natura penale come le mutilazioni genitali femminili. Lo dica la religione, lo dica la tradizione, lo dica il padre o il marito, c’è poco da discutere: determinati atti, leciti o tollerati in altri ordinamenti, in Italia e in Europa sono illegali, punto. Ben altrimenti aperta e liquida è la situazione in tema di comportamenti sociali. Qui si fanno avanti il buon senso (che è qualcosa di diverso dal senso comune), la sensibilità, l’empatia – doti non estranee alla cultura (antropologica) del nostro Paese. Altri popoli europei, eredi di tradizioni storiche tanto diverse quanto degne di rispetto, decidono di limitare per legge l’uso di alcuni simboli, ad esempio religiosi. Su questo l’atteggiamento italiano diverge: non solo non è un reato ma neppure è qualcosa che offenda la media sensibilità dei nostri concittadini portare il velo, così come non è necessaria una laurea in antropologia per astenersi dal baciare sulla guancia, ma anche dare la mano, a una donna musulmana. È evidente che in un ambito come i comportamenti sociali non si può normare tutto, piuttosto le situazioni vanno interpretate in sé e nel contesto, sulla base appunto del buon senso.
Dove il buon senso è la condizione necessaria ma non sufficiente è in tema di politiche pubbliche. Finora tutto il dibattito sull’immigrazione si è focalizzato su accoglienza sì/accoglienza no, inchiodato sulla dimensione emergenziale di questi anni critici. È arrivato il momento di passare alla fase 2, quella dell’inclusione. Un’inclusione istituzionale che finalmente realizzi, in un quadro europeo condiviso, adeguate policy di gestione dei flussi migratori e di efficiente e tempestivo riconoscimento degli aventi diritto alla protezione internazionale. Ma anche un’inclusione sociale e culturale, in grado di far aderire chi viene in Italia al rispetto dei princìpi del vivere comune (nostro, con la disponibilità ad accogliere in esso gli aspetti positivi degli altri).
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