Turchia: nuova ondata di terrore
ma Erdogan ce l’ha con gli accademici

Da Reset-Dialogues on Civilizations

La Turchia ha vissuto un’altra settimana difficile, l’ennesima da quando alla fine dello scorso luglio Ankara ha iniziato ad opporsi all’Isis e ha ripreso gli scontri con i ribelli separatisti curdi del PKK nel sud est del Paese.

La violenza raggiunta dal conflitto con il Partito Curdo dei Lavoratori, il durissimo coprifuoco imposto al quartiere Sur di Diyarbakir e alle cittadine di Silopi e Cizre, ha spinto ben 1128 accademici, tra cui Noam Chomsky, David Harvey e Immanuel Wallerstein, a firmare una lettera indirizzata al governo, con la quale si chiede l’immediato cessate il fuoco e il ritorno ai negoziati di pace. Quanto avviene nel Sud-est della Turchia viene definito senza mezzi termini “un massacro”da cui i firmatari dell’appello si dissociano e del quale “non vogliono assolutamente sentirsi complici”.

A meno di ventiquattr’ore di distanza dalla diffusione dell’appello, un kamikaze si è fatto esplodere a Sultanahmet, cuore turistico di Istanbul, uccidendo dieci turisti tedeschi e ferendone altri quattordici.

Non si tratta della prima azione riconducibile al califfato di Al-Baghdadi in territorio turco,sono tuttavia evidenti le differenze rispetto ai precedenti attacchi. Sebbene la modalità rimanga la stessa con la quale gli estremisti avevano colpito il 20 luglio a Suruc e il 10 ottobre ad Ankara, causando rispettivamente trentuno e centodue morti, per la prima volta a farsi esplodere tra la gente non è stato un cittadino turco,bensì un saudita trapiantato in Siria. L’uomo, Nabil Fadli, era giunto in Turchia passando il confine siriano solo pochi giorni prima. Non si tratta più di un’affiliazione su base ideologica, bensì di un’azione che trova la sua origine direttamente in territorio siriano. Una differenza che risalta anche rispetto al terrorista turco che pose la bomba di Diyarbakir, in seguito al quale morirono 5 persone lo scorso giugno al comizio del leader dell’HDP Selattin Demirtas, e all’arresto dei 2 cittadini turchi pronti a farsi esplodere ad Ankara a capodanno.

Altra differenza di rilievo sta nella scelta dell’obiettivo: la bomba di Diyarbakir, infatti, ha colpito il comizio del leader del partito filo curdo, il kamikaze di Suruc ha ucciso trentuno giovani attivisti radunatisi per la ricostruzione della città curda di Kobane, mentre i due boia di Ankara si sono fatti esplodere durante una marcia per la pace con il PKK, promossa dal medesimo partito HDP. A morire, fino ai tragici fatti di Sultanahmet, sono stati in pratica solo curdi e filo curdi, tanto da spingere il leader HDP Demirtas ad annullare tutti i comizi in programma prima delle elezioni di novembre. Il terrorismo trova la sua forza nella capacità di diffondere la paura di essere colpiti tra la gente. Gli attacchi di affiliati all’Isis su suolo turco erano stati così selettivi da far sorgere il dubbio vi fosse una strategia mirata ad avere una ricaduta in vista delle elezioni dello scorso Primo novembre. Le accuse di Selattin Demirtas in questo senso sono state pesanti. Il leader filo-curdo ha indicato il “derin devlet”, ovverosia lo stato profondo, come il mandante di attentati che hanno secondo lui preparato il terreno alla vittoria dell’AKP del presidente Recep Tayyip Erdogan alle scorse elezioni. Al di là delle teorie complottistiche e della bagarre politica in un Paese che in passato ha più volte vissuto epoche da “strategia della tensione”, i kamikaze di Suruc e Ankara hanno inevitabilmente, ma non sapremo mai quanto consapevolmente, influenzato il dibattito interno al Paese, finendo in qualche misura per avere ricadute sul voto di novembre.

A differenza dei precedenti, dall’attentato del 12 giugno a Sultanahmet non possono scaturire né teorie cospirazioniste né dibattiti politici. Per la prima volta l’Isis ha colpito Istanbul se è vero che di solito un attentato che si proponga di ottenere effetti all’interno del Paese avviene ad Ankara, mentre se l’obiettivo primario è quello di avere effetti all’estero avviene proprio nella metropoli sul Bosforo. In questo senso è facilmente prevedibile un crollo del turismo, per anni prima fonte di reddito, cui vanno aggiunte ricadute a livello di immagine, destinate a ripercuotersi sull’intero Paese. È in pratica fuori discussione che il kamikaze di Sultanahmet pur non avendo ucciso alcun cittadino turco ha colpito una nazione intera e un governo che ha fatto del pugno di ferro contro il “terrore” il proprio marchio di fabbrica.

Negli arresti seguiti all’attentato sono emersi i legami tra gli affiliati Isis turchi e il califfato di Raqqa. Un network di jihadisti provenienti da più Paesi che ha usato la Turchia come ponte di passaggio e rifugio, prima che Ankara iniziasse a opporsi a questo stato di cose attraverso indagini e retate, per poi scoprire che la metastasi era diffusa e lasciare con l’esplosione di Sultanahmet il dubbio che forse la situazione era andata fuori controllo.

Per il governo un nuovo nemico da combattere, dall’attacco di Istanbul in poi, l’Isis non è più fatto da turchi estremisti che in maniera più o meno violenta manifestano la propria vicinanza ideologica verso il Califfato, mentre è il Califfato stesso attraverso un suo kamikaze a mandare un messaggio nei confronti delle politiche di Erdogan, schieratosi apertamente contro al Baghdadi solo in seguito all’attentato di Ankara da quando sono iniziate le retate e il confine ha smesso di essere terra di transito per foreign fighters. In base a quanto dichiarato dal ministro degli interni Efkan Ala, sono ben 961 i jihadisti attualmente nelle carceri turche.

La linea del governo  è sempre stata quella di non fare alcuna distinzione nei confronti del terrore, di qualsiasi matrice esso fosse: separatista (PKK), islamista (Isis) o brigatista (Dhkp-c). Coerentemente con quanto avvenuto nei mesi scorsi la priorità è stata considerata la lotta al PKK, una circostanza che il governo è costretto, per sua stessa ammissione a rivedere, alla luce della dimensione che il fenomeno Isis in Turchia ha mostrato di aver raggiunto.

Linea ribadita quando, nella notte tra il 13 e il 14 Gennaio, appena 36 ore dopo l’esplosione di Istanbul, il PKK ha attaccato una stazione di polizia vicino Diyarbakir uccidendo un poliziotto e cinque civili, tra cui tre bambini.  L’occasione per Erdogan per rilanciare “la lotta al terrore senza distinzioni, Isis o PKK che sia”.

Non vi è dubbio che buona parte del Paese consideri il PKK peggio dell’Isis, ma Erdogan ha così  scatenato nei confronti degli accademici firmatari dell’appello per la pace quella che il quotidiano Hurriyet ha definito “una caccia alle streghe”. L’attacco che già riguardava giornalisti e intellettuali, è ora arrivato alle cattedre delle università.

In seguito alle parole del presidente, le procure di tutto il Paese hanno aperto indagini nei confronti di professori universitari e sono scattati i primi arresti nei confronti di quelli che Erdogan ha definito “sostenitori e complici dei terroristi”. Per fare un esempio, la tesi d’accusa della procura di Izmir ruota attorno alla presunta violazione dell’articolo 302 del Codice Penale Turco, previsto al fine di colpire la “messa in discussione dell’unità della nazione e dell’integrità territoriale del Paese”. Si tratta, del resto, del medesimo articolo sul quale è stata basata la condanna all’ergastolo del leader del PKK, Abdullah Ocalan. Il fascicolo contenente i nomi di 37 accademici è stato poi trasmesso alla procura di Istanbul.

Ad Ankara il pubblico ministero sta invece procedendo per la violazione del discusso articolo 301, la cui applicazione è stata condannata dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo nel 2006. L’articolo 301 fino alla riforma del 2008 puniva il “vilipendio alla turchicità”, poi riformato in “vilipendio della nazione turca e della Repubblica di Turchia”.

L’indagine va avanti in altre città del Paese, dove la tesi del procuratore ruota sempre attorno alla violazione dell’articolo 301 e all’accusa di “propaganda a favore di organizzazione terroristica”, la stessa usata in passato nei confronti di giornalisti e intellettuali. Al momento sono 1200 i nomi iscritti nel registro degli indagati e 18 i professori in carcere, mentre 16 sono stati arrestati e poi rilasciati.

In seguito ai primi arresti il numero dei firmatari è rapidamente salito da 1128 a 2000, mentre UE e Stati Uniti hanno invitato Ankara a tornare sui propri passi.

Gli accademici turchi hanno incassato la solidarietà di 351 professori delle università di tutto il mondo, che hanno firmato un appello affinché le indagini vengano archiviate e sia accolto il messaggio di pace che la lettera si proponeva di lanciare, ponendo fine alle violenze nel sud est del Paese. I firmatari si definiscono “sconcertati dal livello di persecuzione e repressione cui sono sottoposti gli accademici turchi per il solo fatto di aver firmato un appello a favore della pace nel Paese”.

A lasciare però più di tutto perplessi è la volontà di Erdogan di allargare lo scontro anche sul piano democratico e ideologico in un momento in cui il PKK continua i suoi attacchi e l’Isis ha mandato un segnale ad Ankara. Secondo Erdogan, invece, il PKK, l’Isis, il Dhkp-c  e la confraternita di Gulen sono organizzazioni terroristiche da combattere senza distinzioni.

La lotta al terrorismo assume però un significato politico nel momento in cui giornalisti, intellettuali e ora anche accademici, di volta in volta vengono ascritti alla sfera dei sostenitori del PKK o di Gulen, con il solo risultato di essere estromessi dalla propria posizione e dover affrontare indagini giudiziarie e processi, colpevoli di aver espresso un’opinione diversa da quella del presidente.

Nella foto di copertina: come denuncia il quotidiano inglese The Guardian, intimidazioni e minacce davanti agli uffici dei professori universitari “dissidenti”

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