Da Reset-Dialogues on Civilizations
Il gas val bene un accordo. Il presidente turco Erdogan ha messo fine a cinque anni di congelamento di relazioni diplomatiche con Israele in nome delle risorse energetiche. Dall’aggressione alla nave turca Mavi Marmara, il 30 maggio 2010, quando le unità speciali israeliane presero d’assalto gli attivisti diretti a Gaza in acque internazionali, uccidendo 10 cittadini turchi, tra Ankara e Tel Aviv – almeno ufficialmente – i rapporti erano sospesi. I turchi avevano posto tre precondizioni per riallacciare le relazioni con Israele: scuse ufficiali per la Marmara; risarcimento alle famiglie delle vittime; fine dell’assedio di Gaza.
La scorsa settimana Erdogan è passato sopra a tutto, gettando le basi per l’accordo che sarà definitivamente siglato a gennaio: Ankara e Tel Aviv tornano buoni amici in cambio di 20 milioni di dollari che Israele verserà in un fondo a favore delle famiglie delle vittime del 30 maggio 2010. In cambio Ankara rinuncerà a promuovere azioni legali contro i soldati e gli ufficiali responsabili dell’assalto, rimuoverà il comandante di Hamas Saleh al-Aruri e limiterà le attività del movimento palestinese nel proprio territorio.
Pace fatta per uscire dal pericoloso isolamento a cui l’intervento russo in Siria sta costringendo Ankara. A riavvicinare i due nemici-amici è il gas naturale, in un periodo di reciproca crisi. Israele ha subito un duro colpo dopo la scoperta di un enorme giacimento di gas lungo le coste egiziane da parte dell’Eni: dopo aver lanciato in pompa magna il bacino del Leviatano, nei mari di fronte ad Haifa, Israele era convinto di poter diventare leader dell’esportazione di gas naturale in Medio Oriente. Pensava di dettare prezzi e regolare la produzione. Immaginava gli affari d’oro da stipulare con il vicino egiziano, affamato di risorse energetiche con cui far risalire un’economia in crisi.
I sogni di gloria sono stati ben presto frantumati dalla recente scoperta della compagnia italiana: lungo le coste egiziane è stato individuato un giacimento di gas da 5,5 miliardi di barili, sufficiente a coprire il fabbisogno interno per almeno 10 anni. Non solo: per altri due giacimenti (uno nel deserto occidentale e uno nel Golfo di Suez) Il Cairo ha appena siglato due contratti di esplorazione ed estrazione con compagnie locali e straniere. Il valore totale – sommato ad altri 62 precedenti contratti – ammonta a 14,3 miliardi di dollari di appalti per 268 pozzi. Un duro colpo per Israele che ha visto affossate in poche settimane le proprie ambizioni energetiche.
Dall’altra parte sta la Turchia alle prese con una grave crisi politica ed economica: la guerra fredda in corso con Mosca e alimentata dalla Nato non ha solo indebolito la posizione di Ankara nella guerra civile siriana, ma mette in serio pericolo l’approvvigionamento di gas dalla Russia. Mosca ha imposto una serie di sanzioni commerciali su Ankara, che copre il 65% del proprio fabbisogno energetico acquistando gas dalla Russia, e cancellato il progetto di costruzione di un gasdotto sul territorio turco.
Senza Mosca la Turchia si bloccherebbe. Guarda caso pochi giorni dopo è arrivato l’accordo con Israele con il quale, da anni, è in ballo la costruzione congiunta di un gasdotto lungo 550 km che parta dalle coste israeliane e, via Turchia, arrivi in Europa. Un progetto da 2,5 miliardi di dollari a cui andranno aggiunti i proventi della vendita di gas all’assetato mercato europeo post-crisi ucraina. Secondo il quotidiano turco Haberturk, si potrebbe cominciare da subito: 30 miliardi di metri cubi di gas l’anno saranno inviati verso l’Europa, di cui 10 miliardi saranno destinati alla Turchia.
L’occasione è di quelle da non lasciarsi scappare, deve aver pensato il novello sultano Erdogan che in un colpo solo ha cancellato e calpestato le giuste rivendicazioni sia di chi ha subito le conseguenze del brutale assalto alla Mavi Marmara sia del popolo palestinese di Gaza. Ankara sventola da sempre la bandiera palestinese, fingendosi paladina di una popolazione sotto assedio, ma nel concreto nulla fa per alleviarne le sofferenze. L’accordo appena siglato ne è un esempio lampante: la fine dell’assedio della Striscia, precondizione “irrinunciabile” fino a pochi mesi fa, è stato accantonato senza troppi rimpianti.
Un duro colpo lo subisce anche l’amicizia con Hamas, braccio palestinese dei Fratelli Musulmani come l’Akp di Erdogan lo è in Turchia: ieri il presidente Erdogan ha incontrato Khaled Meshaal, leader del politburo di Hamas per rassicurarlo in merito al riavvicinamento a Israele. Ma da rassicurare c’è ben poco, l’accordo parla chiaro: il movimento palestinese è la vittima sacrificale.
Chi applaude per la ritrovata amicizia sono gli Stati Uniti, che con Ankara e Tel Aviv intessono relazioni speciali. L’accordo aiuterà a cementare il fronte delle alleanze mediorientali di Washington che da tempo lavora (con successo) per inserire Israele nella propria rete di amicizie arabe, dall’Arabia Saudita alla Giordania all’Egitto. Anche in chiave anti-sciita e anti-Damasco: la Turchia – dicono fonti interne – potrebbe cominciare a fornire a Israele informazioni di intelligence sui movimenti di Hezbollah in Siria e sulla presenza iraniana nel paese. Una presenza che preoccupa sia Ankara che Tel Aviv, timorosi che l’eventuale soluzione della crisi siriana via Mosca possa rafforzare ulteriormente il ruolo politico iraniano nell’intera regione.
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