Da Reset-Dialogues on Civilizations
Nell’ultima settimana le pagine di cronaca in Turchia hanno visto alternarsi avvenimenti in apparente contraddizione tra di loro. Lo scorso 14 dicembre è stato riaperto il capitolo negoziale riguardante le politiche economiche e monetarie per l’ingresso della Turchia nell’UE. Il processo di integrazione è stato riavviato con inaspettata rapidità, come parte dell’accordo per la gestione dei profughi siriani che porterà nelle casse di Ankara tre miliardi di dollari da utilizzare nella costruzione di campi che tengano i siriani lontani dall’UE. Il premier Ahmet Davutoglu si è detto fiducioso rispetto l’apertura di nuovi capitoli negoziali, annunciando l’inizio di “una nuova era nei rapporti con l’Europa”.
Con perfetto tempismo una corte di Istanbul ha respinto un’istanza di scarcerazione presentata dagli avvocati di Can Dundar ed Erdem Gul, rispettivamente direttore ed editore capo dello storico quotidiano Cumhuriyet,sulla base della “assenza di nuove prove che possano determinare la fine della detenzione”, iniziata lo scorso 25 novembre.
Il caso è scoppiato lo scorso 29 maggio, con la pubblicazione di immagini del gennaio 2014, relative il passaggio di tir carichi di armi, che con il benestare dei servizi segreti turchi (MIT), attraversavano il confine Sud in viaggio verso la Siria.
Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha così deciso di denunciare i due alla magistratura, poiché “la pubblicazione di materiale falso e informazioni distorte, contribuisce a creare la percezione che la Turchia sostenga organizzazioni terroriste”.
A una settimana dalle elezioni del 7 giugno era evidente il rischio che il caso si sarebbe potuto tramutare in un’emorragia di consensi; e infatti Erdogan tuonò “chi ha scritto questa storia pagherà un prezzo molto alto” e i suoi avvocati chiesero per Dundar la condanna a due ergastoli.
Intervista a Can Dundar
Ho intervistato il direttore di Cumhuriyet nel suo ufficio di Istanbul pochi giorni prima dell’udienza che ne ha determinato l’arresto: tra i diversi temi trattati, ovviamente la libertà di stampa in Turchia e il processo che lo vede imputato. Le sue parole e le sue preoccupazioni hanno acquistato forza e valore con gli eventi dell’ultimo mese.
“Sebbene questo non sia mai stato un paradiso per i giornalisti, stiamo vivendo forse il momento peggiore” mi ha rivelato subito Dundar.
Il motivo? “Erdogan sogna di diventare come Putin e non accetta che alcuni media e una parte della società civile non glielo consentano”. Secondo Dundar il presidente turco “non conosce la differenza tra critica e ingiuria, in base a questo meccanismo perverso tanti giornalisti sono finiti in tribunale”.
Alla base dell’aggressività da parte del presidente ci sarebbe la paura: “ha governato per tredici anni, si è assuefatto al potere,così la paura di perdere le elezioni di novembre lo ha portato ad agire in maniera disperata”.
Dundar mi ha fatto notare che all’indomani delle elezioni dello scorso 1 novembre il presidente si è “concentrato sulla riforma della costituzione per diventare il padrone del Paese”.
Alla domanda se quest’accanimento nei confronti dell’opposizione e dei media non possa ritorcerglisi contro, Dundar rispondeva che “il presidente non può rendersene conto, ma ha il 50% dei media dalla sua parte, punta su quelli e purtroppo temo che il peggio debba ancora venire”.
Ricordando la grande solidarietà che i media turchi e internazionali gli hanno tributato, Dundar mi ha ribadito di non essere affatto impaurito: “Non ho paura io e non ha paura la mia redazione, non sono il primo e non sarò l’ultimo a trovarsi in una situazione del genere. Il 50% dei media turchi è libero e indipendente e ha il dovere di andare avanti e portare il paese fuori da questa situazione”.
Sullo sfondo l’Europa, “che ha il dovere di fare pressioni sulla Turchia affinché le cose cambino”.
Ma forse l’UE non sente di avere alcun dovere se non quello di alleggerire la pressione dei profughi siriani che insistono sui suoi confini.
Botta e risposta
La carcerazione dei due giornalisti ha spinto organizzazioni come Reporter senza frontiere e la Federazione europea dei Giornalisti, a chiedere a Bruxelles di fare pressione sulla Turchia, perché tornasse sui propri passi. Il Consiglio d’Europa ha chiesto ad Ankara la scarcerazione dei due, salvo ottenere in risposta una lettera del ministero della giustizia.
“Obiettivo dell’indagine non è la libertà di stampa o dei media, diritti garantiti dalla costituzione, ma il sostegno che la pubblicazione di tali immagini ha fornito a organizzazioni terroristiche”.
Nella lettera si legge che “la massima attenzione è stata posta nel rispettare i diritti e le libertà degli arrestati, in linea con le leggi internazionali. Allo stesso tempo, leggi nazionali consentono ai sospettati di ricorrere in appello” (Due appelli sono stati poi respinti, ndr).
I due giornalisti si troverebbero in carcere perché “hanno volontariamente aiutato un’organizzazione armata senza esserne membri; utilizzato e diffuso informazioni coperte da segreto, a fini di spionaggio politico e militare; diffuso notizie concernenti questioni di sicurezza nazionale che sarebbero dovute rimanere segrete”.
Nella lettera vengono definite “insufficienti” le misure di controllo alternative alla detenzione, “in considerazione della natura dei reati dei quali i due sono accusati”.
Ancora Gülen?
Il carico, protetto da segreto, non sarebbe dovuto essere oggetto di perquisizione; da qui la deduzione del pubblico ministero, il quale ritiene che dietro il controllo e le foto scattate vi sia la regia dei curdi siriani del PYD, ma soprattutto quella di Fetullah Gülen, ideologo islamico e miliardario in esilio negli Usa, ex alleato e attualmente nemico giurato del presidente Recep Tayyip Erdogan.
Il punto è che negli anni dell’alleanza tra Erdogan e Gülen (2002-2012), i membri della confraternita del miliardario hanno occupato posizioni importanti nelle sfere della polizia, della magistratura e ora vengono silurati o incriminati alla prima occasione. Allo stesso tempo Gülen possiede scuole e asili privati, e ancora fondazioni, ma soprattutto televisioni e giornali. Una rete così radicata nel Paese che l’idea che esso affianchi un’organizzazione terroristica risulta controversa e non solo dal punto di vista giuridico.
Tuttavia Gülen è considerato dall’AKP il nemico numero 1 all’interno del Paese e la lotta contro i membri della sua organizzazione, siano essi reali o presunti, andrà avanti, grazie anche al sistema giudiziario turco, molti rappresentanti del quale vengono scelti dal governo e finiscono per agire in base alle esternazioni di quest’ultimo.
Un esempio evidente è rappresentato dalle vicende processuali relative alle proteste del 2013 a Gezi Park, in cui i manifestanti sono stati accusati di “terrorismo e sovversione” dopo che membri dell’esecutivo allora in carica iniziarono ad apostrofarli come “terroristi e sovversivi”.
Allo stesso modo il “terrorismo mediatico”, termine assai in voga presso quella parte dei media turchi fedele all’AKP del presidente, spiana di fatto la strada a inchieste giudiziarie che colpiscono i media di opposizione. È stato il caso di un altro quotidiano storico, Hürriyet, finito nel mirino della magistratura per aver pubblicato una foto di un attacco del PKK e quindi accusato di “propaganda a favore di organizzazione terroristica”. Inoltre prima delle elezioni di novembre due giornali e due canali televisivi sono stati posti in amministrazione controllata “per aver commesso crimini nello svolgimento delle proprie attività”. In questo caso, l’accusa è di propaganda a favore di Gülen: sorgono tuttavia dubbi sull’effettiva misura per cui l’impresario turco possa davvero rappresentare una concreta minaccia per l’esecutivo, fortemente ridimensionato com’è sul piano politico e piuttosto avanti negli anni.
La Turchia entra in Europa?
Noncurante di tutto questo l’Europa sta intanto riaprendo le proprie porte alla Turchia.
“Un momento cruciale” secondo il Ministro per i rapporti con l’UE Volkan Bozkir, nelle cui parole si consuma il paradosso.
Le preoccupazioni delle istituzioni comunitarie sono rivolte all’angoscia di ritrovarsi i profughi alle porte, questo ha fatto dimenticare che in Turchia ben quattordici giornalisti sono attualmente in prigione, uno scrittore, un conduttore tv e un giornalista sono stati oggetto di aggressioni negli ultimi mesi.
Il rapporto 2015 del Committee for Protection of Journalist (CPJ) pubblica la poco lusinghiera classifica dei paesi che detengono il maggior numero di giornalisti in carcere: al primo posto la Cina, seguita da Egitto, Iran ed Eritrea, Ankara si piazza al 5° posto.
“Le condizioni in cui operano i media in Turchia vanno peggiorando, considerando che il numero di giornalisti in carcere è raddoppiato rispetto al 2014” , si legge nel rapporto CPJ. “Dopo il rilascio di molti giornalisti nel 2014 la situazione era migliorata, considerando che per 2 anni consecutive la Turchia era in testa alla classifica (2012 e 2013), purtroppo invece il 2015 ha fatto registrare un nuovo incremento delle carcerazioni complici anche la crisi siriana, le molteplici elezioni e la ripresa del conflitto con il PKK”. Dai sette giornalisti in carcere nel 2014, si è infatti passati ai quattordici attuali.
Ammesso che la costruzione di nuovi campi possa davvero dissuadere i siriani da tentare il viaggio verso l’Europa, con l’accelerata data al processo di integrazione di Ankara, sorgono dubbi sulla partita che Bruxelles sta giocando.
Un’altra chiave di lettura…
L’UE potrebbe portare avanti il processo di integrazione, salvo poi stopparlo a emergenza finita, facendo valere ragioni facilmente deducibili dai fatti di cronaca sopra riportati, di per sé sufficienti a precludere ad Ankara l’ingresso nel club.
Se l’emergenza profughi continuasse o addirittura peggiorasse, invece, Bruxelles potrebbe chiudere un occhio (anzi entrambi) e portare avanti l’integrazione della Turchia. Due tra i valori fondanti dell’Unione, dopotutto, ovverosia la libertà e la solidarietà, sarebbero così irrimediabilmente traditi, la prima nei confronti dei giornalisti turchi che nello svolgere il proprio dovere vengono sbattuti in carcere, la seconda nei confronti di chi, in fuga dalla guerra, si ritrova la porta chiusa in faccia e nessun’altra scelta che passare la vita in un campo profughi.
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