Da Reset-Dialogues on Civilizations
Un rifugio nato su un campo di internamento costruito da Saddam Hussein per rinchiudere 8mila sostenitori del leader kurdo Barzani alla fine degli anni ‘80: era questo Qushtapa. Oggi è un campo profughi che ospita 6.600 rifugiati siriani, in fuga dalla guerra civile e dalle brutalità dello Stato Islamico: arrivano da Kobane, Hasakah, Qamishli, Diralok, nel nord della Siria.
Famiglie che vivono in tende o case mobili, arredate al meglio con tendaggi e tappeti per rendere più confortevoli gli anni trascorsi da profughi. Lungo le vie del campo, tra il fango per le recenti piogge, alle tende si aggiungono i negozi: un altro tentativo di aggrapparsi alla quotidianità dei gesti e di racimolare qualcosa per far fronte ai bisogni della propria famiglia. Un negozio di scarpe, uno di vestiti, un piccolo market e un rivenditore di custodie per lo smartphone. All’ingresso a vigilare su chi entra e chi esce c’è l’Asayish, corpo a metà tra la polizia politica e i servizi segreti.
Le necessità dei profughi di Qushtapa sono le stesse dei due milioni di rifugiati e sfollati interni che da da un anno affollano il Kurdistan iracheno: un tetto, coperte, cibo, acqua potabile, elettricità, scuole. Ma anche qualcosa di invisibile: assistenza psicologica per affrontare i traumi subiti a causa della guerra, dello sfollamento, della perdita della propria vita quotidiana e della propria rete sociale, della dipendenza dall’aiuto esterno.
Per l’Iraq e il Kurdistan si tratta di una sfida: la salute mentale non è una priorità, spesso nascosta, vissuta come uno stigma. Di strutture adeguate a trattare casi simili, dai più gravi ai più lievi, non ce ne sono. A Qushtapa e in altri campi a Erbil e Dohuk l’organizzazione italiana “Un Ponte Per” tampona l’emergenza da due anni: «Il sentimento di vergogna che accompagna il problema mentale ha un effetto doppio – ci spiega Giacomo Cuscunà, responsabile del progetto di salute mentale nel Kurdistan iracheno – Da una parte viene rigettato dall’individuo, che rifiuta l’esistenza di un problema e quindi eventuali cure; dall’altra non viene accolto e compreso dalla società fuori».
«Qui a Qushtapa lavoriamo con cinque psicologi, cinque psichiatri e assistenti sociali Gli assistenti sociali sono il primo filtro: incontrano le famiglie, tenda per tenda, e individuano così i casi che meritano una consulenza specialistica». Zardesh Mohammed Abdulrahma è uno di loro: rifugiato lui stesso, fuggito dalla Siria due anni fa e residente a Qushtapa, si è trasformato da insegnante di inglese in assistente sociale per “Un Ponte Per”.
Ci accompagna a visitare due famiglie, nel tradizionale giro nelle tende: incontra i rifugiati, parla con loro, cerca di individuare indizi di un disordine dovuto alle condizioni di vita in cui sono costretti da anni. Una donna ci accoglie con la figlia, un neonato dorme in una culla. Zardesh domanda, discute, scrive il necessario nel questionario che ha portato con sé. Un approccio, dice, che permette di avvicinarsi alle persone senza aggressività, nella privacy confortevole che la tenda in parte garantisce.
«I casi più comuni non sono disturbi gravi – ci spiega – Depressione, tendenza alla rabbia, ansia, nervosismo. Con i bambini è diverso: molti di loro vivono in un costante stato di paura, tendono ad abbandonare la scuola, a isolarsi, fanno la pipì a letto, non riescono a relazionarsi con gli altri bambini, a socializzare. Le reazioni cambiano sempre: c’è chi si fida della nostra riservatezza e si apre, quasi contento di discutere di quello che sente dentro; altri provano vergogna e si chiudono. Dipende anche dalla zona di provenienza: chi è scappato prima che gli scontri cominciassero o l’Isis arrivasse tende a soffrire di depressione; chi arriva da Aleppo o Kobane, dove il livello di violenza era terrificante, può presentare sintomi di disturbi da stress post-traumatico».
Ogni mese i casi registrati sono tra i 50 e i 60, tra nuovi pazienti e pazienti già seguiti. Che, una volta incontrato l’assistente sociale, vengono indirizzati alla clinica del campo dove uno dei container ospita il progetto di “Un Ponte Per”. Qui incontriamo il dottor Mahmoud Kassem Mahmoud, uno degli psicologi dell’organizzazione. Ha appena salutato i genitori di una bambina con difficoltà a scuola a causa di iperattività e basso livello di apprendimento.
«Quando abbiamo iniziato ci aspettavamo di ricevere casi di persone affette da post-trauma. E invece no: il problema più comune tra gli adulti è la depressione. Una vita interrotta a metà, la perdita della casa e del proprio ambiente sociale, la dipendenza dagli aiuti internazionali, il non poter decidere per il proprio futuro: un ciclo che spinge molti verso la depressione, sia uomini che donne, seppur in parte per ragioni diverse. Le donne tendono a soffrirne perché si ritrovano a passare molto tempo nelle tende, senza fare molto, lontane dalla propria rete sociale e familiare. Gli uomini perché hanno difficoltà a trovare un lavoro e a sostenere la propria famiglia».
La terapia migliore è sicuramente il gruppo di supporto: dopo le terapie individuali con il medico, i pazienti che soffrono di problemi simili hanno la possibilità di prendere parte a incontri di gruppo per condividere esperienze, discutere, comprendere che non si è un caso isolato. «La terapia migliore», sentenzia il dottor Mahmoud. Soprattutto per le donne.
I risultati, dice, ci sono e sono positivi, in attesa del ritorno a casa: «Una volta che la guerra finirà, che i loro villaggi saranno liberati – conclude il medico – torneranno nel loro paese, distrutto dalla guerra. L’impatto sarà fortissimo. Ma a questo si preparano da soli: i rifugiati sono in contatto continuo con amici o parenti rimasti in Siria, sanno cosa succede, se la loro casa è ancora in piedi oppure no. Andranno comunque preparati a livello psicologico: vedere il proprio paese ridotto in macerie è un’esperienza devastante».
Le foto sono di Chiara Cruciati
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