La crisi dei rifugiati e un nuovo muro
allontanano Israele dall’Europa

Da Reset-Dialogues on Civilizations

Nel mondo ci sono più di 60 milioni di rifugiati e – come anche emerge dal rapporto UNHCR – il quadro delle emergenze umanitarie del 2015 è catastrofico: più di 4 milioni di tali rifugiati provengono dal Medio Oriente, ed in particolare da Siria ed Iraq, al centro di recenti conflitti. Altro flusso maggioritario in direzione dell’Europa è quello dei migranti del Mediterraneo: in 500.000 hanno tentato di attraversare il mare nella speranza di ottenere l’asilo politico, nel solo biennio 2014-2015.

Mentre l’Unione Europea si dibatte nel problema delle quote sostenibilmente assorbili da ogni Paese europeo e Libano, Turchia e Giordania si riempiono di rifugiati in cerca di assistenza e di lavoro, Israele – “unica democrazia del Medio Oriente”, per autodefinizione – si chiama del tutto fuori dallo sforzo congiunto portato avanti dalla comunità internazionale di accoglienza dei migranti. Israele condivide la “maglia nera” con gli Stati del Golfo, l’Iran e la Russia, che non si ritengono direttamente coinvolti dall’emergenza umanitaria in corso: la posizione del governo Netanyahu è quella di un ostinato ed esplicito rifiuto di farsi carico di un problema che lo Stato ebraico non ha contribuito a creare e che potrebbe potenzialmente costituire una minaccia destabilizzante per l’intera regione.

Il dibattito israeliano sull’accoglienza

Nonostante il rifiuto di chiamarsi parte in causa, il dibattito sui rifugiati è piuttosto acceso in Israele. Le posizioni assunte dalla leadership del paese sono sostanzialmente convergenti, seppur differenti nei toni, confermando una sostanziale unità d’intenti tra i maggiori partiti e schieramenti israeliani sull’interesse nazionale. Netanyahu, i partiti nazionalisti, quelli religiosi e l’élite economica del paese (vicina al quotidiano Globes) attribuiscono la causa della crisi umanitaria in Iraq e Siria all’insorgenza di un Islam politico militante e sanguinario, che non risparmia nemmeno i musulmani. Ovviamente tale Islam politico costituisce innanzitutto una minaccia per lo stato ebraico, che non può permettersi di accogliere all’interno dei propri confini i rifugiati che potrebbero rivelarsi dei miliziani dell’ISIS e futuri attentatori suicidi. Se queste considerazioni di sicurezza strategica non fossero di per sé sufficienti a giustificare la posizione israeliana agli occhi della diaspora ebreo-americana, il governo Netanyahu si trincera anche dietro la mancanza di spazio fisico per accogliere i rifugiati, in un Paese dalle dimensioni geograficamente ridotte come Israele. Se esistono, infatti, ancora zone del Paese poco densamente popolate – come il deserto del Negev – è perché quest’ultime attendono ancora di raggiungere un grado sufficiente di sviluppo, economico ed industriale, tale da accogliere i potenziali ebrei occidentali che potrebbero dover farvi ritorno, qualora nuove minacce tornassero a pesare sulle comunità della diaspora ebraica nell’immediato futuro. Israele, in altre parole, strizza l’occhio agli ebrei americani – che in parte rimproverano il suo marcato disinteresse nei confronti della sorte dei rifugiati e il dovere di assistenza umanitaria dettato dalla religione ebraica – sostenendo la tesi che lo spazio che occuperebbero i rifugiati sarebbe eventualmente sottratto a possibili rifugiati ebrei.

L’ala moderata del Paese, che si identifica con il partito dell’Unione Sionista e la sua guida bicefala costituita da Isaac Herzog e Tzipi Livni, sottoscrive in modo sostanziale la posizione ufficiale del governo israeliano, sottolineando al contempo positivamente lo sforzo compiuto da piccoli paesi limitrofi come il Libano che, nonostante le ridotte dimensioni, ospita più di un milione di rifugiati siriani (pari ad un quinto della sua popolazione) ed ipotizzando cautamente che anche Israele possa accogliere una piccola quota di rifugiati, dopo i necessari controlli preliminari di sicurezza, richiamandosi al dovere etico ed umanitario di Israele di assistere i profughi che ricordano dolorosamente l’Olocausto. Il discorso rimane però assestato su un piano strettamente retorico e non politico: l’Unione Sionista non intende certo aprire una crisi interna sul problema dei rifugiati, con l’obiettivo malcelato di inviare un messaggio di conciliazione ad Europa e Stati Uniti – nonché alla diaspora ebraica negli USA con la quale il partito preferisce mantenere un canale aperto di comunicazione, evitando l’accentuato isolazionismo della destra.

Tuttavia Israele non è solo indifferente alla questione, ma è anche attivo alleato dell’Ungheria di Orban nel costruire nuovi muri: è, infatti, in via di realizzazione un muro ai confini con la Giordania per prevenire l’accesso e il transito sia di migranti economici – in provenienza dall’Africa nera (soprattutto Etiopia, Eritrea e Sudan) – sia di rifugiati politici – in provenienza da Siria e Iraq. Il nuovo muro si riallaccerà a quelli già alzati ai confini con l’Egitto e sulle alture del Golan, trincerando il Paese da ogni lato, come una fortezza con un unico sbocco sul mare.


[6 settembre 2015: Un tweet dell’account ufficiale del Ministero della Difesa Israeliano annuncia l’avvio dei lavori del muro lungo 30 km al confine con la Giordania]

Questa reazione ostile, completamente improntata a necessità di difesa, non stupisce, inserendosi in una tendenza di lungo periodo. Negli ultimi dieci anni Israele si è infatti sempre mostrato notoriamente duro nel trattamento dei richiedenti asilo, in particolare nei confronti dei 45.000 africani detenuti per legge come criminali comuni nel campo di Holot – dei quali solo una minima parte (lo 0,07%) ha ottenuto lo status di rifugiato. I dibattiti politici e la satira, come per esempio quella condotta dal quotidiano Makor Rishon (vicino al partito Likud), sono sempre più inclementi nei confronti dei rifugiati, spesso definiti “infiltrati” – sulla base della legge di “Prevenzione delle infiltrazioni”, originalmente pensata per contrastare il “ritorno” dei Palestinesi del 1948 ed ancora in vigore (seppur emendata) dal 1954 – o peggio, “un cancro” per la società. Una società che, almeno stando ai sondaggi (52%), approva a lieve maggioranza la posizione di “fermezza” assunta dal governo in materia di rifugiati.

Si discosta da questa immagine di sostegno corale e compatta al governo solo la piccola minoranza laica e di sinistra afferente al Meretz e al piccolo partito pacifista ebraico-arabo (ex Hadash), che ritiene invece che Israele debba assumere un ruolo più attivo nell’attuale situazione di crisi in cui versano Medio Oriente e Africa – e che occorra contrastare il linguaggio xenofobo imperversante adottato dai media ufficiali nei confronti dei rifugiati e denunciare le condizioni di discriminazione in cui sono tenuti i rifugiati africani nel campo di Holot. Tra le tante iniziative messe in campo da ONG israeliane, spicca quella dell’International Refugee Rights Initiative che racconta le storie individuali di 25 richiedenti asilo eritrei e sudanesi in Israele, rimpatriati “volontariamente” dal governo in paesi a rischio in aperta violazione della Convenzione di Ginevra, e successivamente, costretti a fuggire ancora. Fino al 2013, infatti, non esisteva in Israele nessuna procedura ufficiale per richiedere asilo e, ad oggi, solo 4 rifugiati africani beneficiano della protezione israeliana.

Il timore di un’Europa musulmana – e antisemita

Oltre al dibattito interno sull’accoglienza, è di particolare interesse quello che riguarda strettamente l’Europa e il suo destino, dibattuto dall’opinione pubblica israeliana alla stregua di una questione nazionale. Molti israeliani si rivelano più o meno sinceramente preoccupati delle conseguenze di lungo termine dell’esodo dei rifugiati verso l’Europa, temendo che questo afflusso di massa possa impattare profondamente sulla demografia e sulla qualità della democrazia del continente. Studiosi israeliani lamentano che il declino demografico europeo abbia attivamente contribuito a determinare le condizioni attuali, in cui una popolazione giovane ed aggressiva come quella dei rifugiati preme su un continente invecchiato e fiaccato, moralmente e demograficamente alla deriva. Chi condivide questa ipotesi è spaventato dalle politiche di governi e della Commissione Europea apparentemente incapaci d’affrontare la crisi, così come sostenuto dal Professor Arnon Soffer – a capo del dipartimento degli studi geo-strategici dell’Università di Haifa – il quale afferma che, a causa dei tassi di natalità sproporzionati tra Paesi in via di sviluppo e del vecchio Continente, l’Europa stia per compiere un vero e proprio suicidio, soprattutto avallando un esodo massiccio di musulmani tra i richiedenti asilo.

Sono in molti ad esprimere timore per la futura influenza dell’immigrazione musulmana sull’Europa. Oltre alla Francia, generalmente contestata dallo Stato di Israele per la sua politica laicista e socialista, tendenzialmente assimilazionista nei confronti delle minoranze islamiche – il tema che più infuoca il dibattito attualmente in Israele è l’atteggiamento improntato all’accoglienza adottato dalla Germania, e in particolare del Presidente Joachim Gauck, giudicato “troppo generoso” ed al limite con l’incoscienza. Gli israeliani temono, infatti, che le nuove generazioni musulmane europee, votando, avranno un peso preponderante nelle decisioni politiche del Vecchio Continente e che quest’ultimo assisterà a breve ad una nuova ventata di antisemitismo, rendendo l’Europa sempre più ostile alle minoranze ebraiche residenti sul suo territorio e verso Israele.

Una parte dell’opinione pubblica d’Israele, paese ossessionato dalla storia ed in parte eticamente tormentato dal problema dei rifugiati, traccia anche un parallelismo allarmante tra l’atteggiamento negazionista dei paesi dell’Europa dell’Est durante la Seconda Guerra Mondiale e l’attuale indifferenza rispetto alla sorte dei profughi siriani ammassati ai confini con l’Ungheria. Come il Prof. Jan Tomasz Gross ha dichiarato sulle colonne di uno dei maggiori quotidiani israeliani (Yediot Ahronot), paesi come l’Ungheria, la Slovacchia e la Polonia si ostinano a rifiutare i rifugiati perché sono ancora oggi incapaci di impegnarsi in una “coscienziosa autocritica della loro condotta durante la Seconda Guerra Mondiale”, contrariamente all’autoanalisi approfondita e al senso di colpa maturato dalla Repubblica federale tedesca.

Come cambierà il rapporto con l’Europa?

La maggioranza dell’opinione pubblica israeliana considera infatti che l’Europa – a differenza del loro paese – abbia pesanti responsabilità in Medio Oriente e nella creazione della questione rifugiati e che, come tale, debba farsene carico. Tuttavia la domanda che agita Israele nel profondo rimane sempre quella del legame tra continente europeo ed antisemitismo, così come formulata dall’Istituto di Studi strategici nazionali: il massiccio afflusso di profughi siriani ed mediorientali in provenienza da Paesi arabi tendenzialmente antiisraeliani e soggetti per anni ad indottrinamento antisemita, cambierà – come riconosce la stessa Merkel e come ventila il Premier ungherese Orban – il volto e la cultura dell’Europa? E se così fosse, come si modificherà l’eredità culturale e il legame morale dei cittadini europei con la Seconda guerra mondiale e la memoria dell’Olocausto? I nuovi cittadini saranno in grado di interiorizzarne la lezione storica universale della Shoah e farsi carico delle sue responsabilità storiche? L’impegno dell’Europa nei confronti di Israele e del popolo ebraico verrà inevitabilmente meno?

Israele, che da tempo si interroga sulla questione della centralità del suo legame morale con l’Europa e con l’Occidente, considera le recenti migrazioni un fattore di preoccupante accelerazione di scenari demografici e politici ad esso sfavorevoli. Il dibattito interno sull’emergenza dei rifugiati è viziato da molti limiti – tra cui quello che tra i recenti profughi della Siria vi siano molti palestinesi rifugiati di terza o quarta generazione – ma anche dalla preoccupazione che, nell’immediato futuro, il paese possa non trovare più nell’Europa un alleato sensibile alle sue ragioni, alle sue necessità di difesa ed attento al contrasto del fenomeno dell’antisemitismo.

Sicuramente, quindi, da un lato, la posizione di netto rifiuto di Israele mina il presupposto etico secondo cui una popolazione che ha sofferto da vicino il dramma della deportazione – come quella ebraica – sia più sensibile nei confronti di un nuovo esodo; dall’altro Israele si rende sempre più conto che le sue preoccupazioni e le sue ansie escatologiche non trovano né risposta né accoglienza in popolazioni e governi europei che, sempre di più, si riscoprono lontani e distaccati dal dramma solitario del popolo ebraico.

Non sorprende quindi che – per il momento – il governo affronti la questione rimandando ogni riflessione approfondita al futuro, esorcizzando le conseguenze reali e tangibili di cambiamenti lenti e graduali ma storicamente irreversibili con la costruzione dell’ennesimo muro.

[In evidenza, un’immagine della protesta degli immigrati africani a Tel Aviv, nel gennaio 2014]

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