Da Reset-Dialogues on Civilizations
Yarmouk dimenticato, Yarmouk sotto assedio, Yarmouk svuotato dalla fuga e dalla morte. Il campo profughi palestinese più grande della Siria, nel cuore di Damasco, simbolo della diaspora del popolo palestinese e della resistenza da fuori, è oggi un luogo di morte. Ad aprile tornò al centro delle cronache internazionali, dopo il tentativo dello Stato Islamico di assumerne il controllo. Oggi di Yarmouk non si parla, eppure la battaglia non cessa.
Venerdì 9 ottobre attivisti sul campo riportavano di rinnovati scontri tra l’esercito governativo e miliziani dell’Isis, ancora presenti in piccole sacche a sud del campo. Un luogo strategico, a soli 6 chilometri dal centro della capitale siriana, tanto da essere dal dicembre 2012 terreno di confronto tra opposizioni e governo. Prima a combattere Damasco erano i moderati, Esercito Libero Siriano in testa; poi l’avanzata dei gruppi islamisti, i qaedisti di al-Nusra e gli islamisti dell’Isis, hanno costretto in un angolo i ribelli moderati. Yarmouk non è un luogo a sé, separato dal resto: è parte del più ampio conflitto regionale, legato agli equilibri e i disequilibri mediorientali, dall’Iraq allo Yemen, per questo appetibile alle milizie islamiste sunnite.
La lunga battaglia ha svuotato il campo: casa a 160mila persone, per lo più rifugiati palestinesi discendenti dei profughi del 1948, ma anche cittadini siriani poveri, oggi ne ospita 15-16mila. La stragrande maggioranza è fuggita dal conflitto, verso altre comunità siriane o fuori, in Libano, Giordania, Europa. Una nuova Nakba, l’ha definiscono i profughi in fuga, rifugiati per la seconda volta.
Chi resta, muore di fame e di malattia. In questi 2 km quadrati di spazio, le condizioni di vita sono pessime: il cibo non entra e, se entra, viene spesso confiscato dai gruppi di opposizione e venduto a prezzi esorbitanti ai civili; di acqua potabile non se ne trova, tanto meno medicinali. Sono centinaia i morti per denutrizione e malattie: le foto che arrivano da Yarmouk parlano da sole, scheletri che camminano, fantasmi alla ricerca di cibo, di topi, di gatti, per sopravvivere.
Oggi alla piaga della guerra si aggiunge quella della febbre tifoide. Secondo l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, Unrwa, sarebbero quasi 100 i casi acclarati: «Non abbiamo accesso al campo di Yarmouk dal 28 marzo, qualche giorno prima l’ingresso dell’Isis, il primo aprile scorso – ci spiega al telefono Chris Gunness, storico portavoce dell’agenzia delle Nazioni Unite – È difficile sapere con certezza cosa succede al suo interno. Riusciamo ad incontrare alcuni civili quando vengono aperti corridoi umanitari, che sono però limitati alle zone esterne di Yarmouk. Negli ultimi due mesi abbiamo visitato persone che sono riuscite a raggiungere le postazioni Unrwa a Yalda, Babilla, Tadmon, e quello che abbiamo registrato è un aumento grave del livello di malnutrizione, soprattutto tra i bambini».
A ciò si aggiunge il diffondersi della febbre tifoide: «I nostri team medici hanno finora registrato 90 casi. Non ne siamo sorpresi: a Yarmouk manca l’acqua potabile, l’ultima rete idrica ha smesso di funzionare a settembre del 2014, un anno fa».
Una crisi aggravata dall’impossibilità per le agenzie umanitarie di entrare nel campo, a causa della presenza di gruppi islamisti. Gli interventi si fermano alla zona est, dove il controllo è ancora in mano al governo di Damasco: «Dottori, infermieri, staff umanitari riescono a visitare 300 persone in un giorno, quando il corridoio viene aperto – continua Gunness – Distruiscono cibo, acqua potabile e vitamine contro la malnutrizione. Operiamo ad est del campo, a Yalda, dove per arrivare abbiamo dovuto negoziare con diversi attori, governativi, religiosi, armati. Cerchiamo di guadagnare terreno, strada per strada, perché ogni quartiere o vicolo è controllato da forze diverse».
Una goccia nel mare: la popolazione è abbandonata a se stessa e chi può fugge. Poche settimane fa ad attirare la stampa è stata la storia del pianista Aheam Ahmad, giovane profugo che per anni ha continuato a suonare tra i vicoli del campo, nell’estremo tentativo di mantenere viva la speranza dei civili intrappolati. Miliziani dell’Isis hanno dato fuoco al suo pianoforte e, con moglie e figli, ha deciso di andarsene. Ora è in Europa, insieme a migliaia di profughi siriani.
E se gli Stati europei escogitano modi per affrontare la cosiddetta emergenza rifugiati, sul campo la comunità internazionale è quasi del tutto assente: «I donatori sono stati generosi ma non abbastanza – ci spiega Gunness – Il piano da 470 milioni di dollari per la crisi siriana è stato finanziato nel 2014 solo al 52%, siamo riusciti a coprire solo l’emergenza umanitaria. Abbiamo consegnato contanti ai civili e, quando parlo di contanti intendo 60 centesimi di dollari al giorno a persona, pochissimo. Quest’anno è ancora peggio perché le donazioni sono state minori. Con questi pochi soldi dobbiamo coprire non solo le necessità degli sfollati interni, palestinesi in Siria, ma anche dei rifugiati nella regione: 45mila palestinesi in Libano, 51mila in Giordania».
E Yarmouk resta nell’oblio, da anni sfruttato dai diversi attori del conflitto siriano. Da sempre considerato la capitale politica del movimento di resistenza palestinese, è stato la base degli uffici di tutti i partiti politici palestinesi, ognuno dei quali ha intessuto rapporti diversi con il governo di Damasco. Se il Fronte Popolare-General Command si è mantenuto vicino alla famiglia Assad, Fatah ha raffreddato i rapporti dagli anni ’90 e Hamas li ha definitivamente rotti con lo scoppio della guerra civile. E l’Olp, nonostante dichiarazioni di facciata, evita di intervenire per i cattivi rapporti che ha con Damasco, dovuti agli accordi di Oslo firmati con Israele nel 1993: a combattere le milizie estremiste all’interno del campo sono quello che resta dei gruppi armati palestinesi, non membri dell’Olp, Pflp-Gc, Fatah al-Intifada, As-sai’qa.
Sull sfondo il dramma lungo 67 anni di un popolo intero. «I rifugiati palestinesi vogliono dignità. Sì, chiedono cibo, acqua, educazione, sanità. Ma vogliono anche diritti politici, una dignità reale – conclude Gunness – E come tutti i rifugiati vogliono tornare in Palestina, alle loro case, il luogo che garantisca sicurezza e dignità, ovvero diritti politici, sociali, civili. E il rispetto del diritto al ritorno».
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