L’intervento di Giancarlo Bosetti, direttore di Reset che qui pubblichiamo appare nel contesto della discussione sull’Enciclica di Papa Francesco Laudato si’ “sulla cura della casa comune” organizzata dal Fondo Ambiente Italiano, che ospita sul proprio sito le riflessioni, tra gli altri, di Salvatore Veca, Michele Salvati, Michelangelo Pistoletto, Lucetta Scaraffia, Giulia Maria Crespi, Andrea Carandini e Marco Vitale.
Sono molti i passaggi dell’Enciclica Laudato si’ dedicata da Papa Francesco ai temi dell’ambiente, dell’ecologia, della vivibilità del pianeta, in cui il Fai trova l’eco della sua missione. Due in particolare sono i paragrafi in cui il discorso papale trova corrispondenza nel lavoro del Fondo Ambiente Italiano: nel paragrafo 143 dove si va al di là dell’idea di «ambiente» inteso in senso strettamente naturalistico, quando si legge: «Insieme al patrimonio naturale, vi è un patrimonio storico, artistico e culturale, ugualmente minacciato. È parte dell’identità comune di un luogo (…) Bisogna integrare la storia, la cultura e l’architettura di un determinato luogo, salvaguardandone l’identità originale». Poi, il tema delle «associazioni» e della loro funzione sussidiaria, cioè di supporto alla società, è centrale nel paragrafo 232: «In seno alla società fiorisce una innumerevole varietà di associazioni che intervengono a favore del bene comune, difendendo l’ambiente naturale e urbano. Per esempio, si preoccupano di un luogo pubblico (un edificio, una fontana, un monumento abbandonato, un paesaggio, una piazza), per proteggere, risanare, migliorare o abbellire qualcosa che è di tutti. Intorno a loro si sviluppano o si recuperano legami e sorge un nuovo tessuto sociale locale».
È partendo da questa constatazione che il sito Fondo Ambiente Italiano ha pensato di aprire un approfondito dibattito culturale sui temi sollevati dalla Laudato Si’. La prima riflessione ci viene dal professor Marco Vitale, che fa parte del Consiglio di amministrazione della Fondazione, professore di economia di impresa, cattolico liberale, studioso delle «Encicliche sociali» della Chiesa. Poi c’è stato l’intervento del presidente del FAI, Andrea Carandini, che dell’Enciclica ha voluto dare una lettura laica e liberale. Sono poi seguite le riflessioni del presidente onorario del FAI, la fondatrice Giulia Maria Crespi, della storica Lucetta Scaraffia editorialista dell’Osservatore Romano, di un artista come Michelangelo Pistoletto, autore di un’opera intitolata Terzo Pardiso, del politologo Michele Salvati direttore della rivista Il Mulino, del Direttore di Reset Giancarlo Bosetti, del filosofo Salvatore Veca. Sono in preparazione gli interventi dello scrittore Pietro Citati, del giornalista Gad Lerner e del regista Wim Wenders. (P.C.)
Scienza e religione: una santa alleanza
di Giancarlo Bosetti
Le affinità evidenti, con la propria ispirazione, che il FAI trova nella Enciclica “Laudato Si’”, sono ben piantate nel documento pontificio, non riguardano solo alcuni aspetti della visione di Papa Francesco, ma la stessa base argomentativa, l’idea che “un vero approccio ecologico diventa sempre un approccio sociale” e che “insieme al patrimonio naturale, vi è un patrimonio storico, artistico e culturale, ugualmente minacciato”, per cui “l’ecologia richiede anche la cura delle ricchezze culturali dell’umanità nel loro significato più ampio”. Il riferimento alle “associazioni” che difendono “l’ambiente naturale e umano” (par. 232) non poteva essere più diretto e caratterizza l’impronta dialogica, collaborativa, aperta, che attraversa tutta l’Enciclica. La Chiesa cattolica si presenta qui come una voce desiderosa di contribuire, insieme ad altre, a risvegliare la coscienza del valore della Terra, del contesto naturale e storico-culturale in cui si colloca l’esistenza umana.
La voce del Papa sulla crisi ambientale, sul riscaldamento globale, sui rischi per la biosfera, era attesa non solo tra i credenti, ma nella comunità scientifica e nel mondo laico per una ragione precisa, tra le altre: l’evidenza delle scienze non basta a cambiare rotta all’economia e alla politica. La constatazione attraverso decenni di ricerca che i mutamenti nel clima sono un effetto indotto dalla attività umana sul pianeta, che essa è la “causa dominante del riscaldamento osservato dalla metà del ventesimo secolo”, ha raggiunto un livello di certezza valutato al 95% (Rapporto IPCC 2013). Eppure questo dato inequivocabile non appare sufficiente a indurre i cambiamenti che sono necessari e urgenti nelle politiche pubbliche, nello stile di vita, nelle scelte dei governanti e degli elettori, per contenere i danni e attivare rimedi.
Il dato “inequivocabile” per la comunità scientifica è che i cambiamenti avvenuti negli ultimi tre decenni sono senza precedenti: aumento della temperatura atmosferica e degli oceani, diminuzione della neve e del ghiaccio, aumento dei livelli del mare, crescente concentrazione di gas-serra. È stato osservato che nel caso di una grave malattia individuale un analogo livello di certezza è più che sufficiente a convincere, per esempio, un padre e una madre, della necessità di applicare una drastica terapia al proprio figlio. Ma nel caso del mondo intero da cui dipende la nostra vita, una simile razionalità non sembra bastare, non funziona altrettanto bene.
Il nesso attività umana-emissioni di Co2-riscaldamento globale è definito, è cosa che si sa, tra le persone informate, ma per diverse ragioni – ignoranza, pressioni lobbistiche, pregiudizi, inerzie di ogni genere, psicologiche, politiche, ideologiche, forme di cecità volontaria – questo messaggio scientifico sembra incapace di per sé di dare la sveglia. Da tempo anche gli scienziati più rigorosi e realisti sono giunti alla conclusione che per produrre la svolta necessaria nei comportamenti umani occorra una spinta morale. L’etica e la psicologia del global warming si sono sviluppate in questi anni alla ricerca di fonti normative capaci di vincere le resistenze e hanno spesso chiamato in causa, come possibili forze ausiliarie, le “divisioni” che in questa battaglia possono mettere in campo agenzie produttrici di simboli, di esempi, di spiritualità e anche di fede religiosa. L’enciclica di Francesco incorpora non solo buona parte delle evidenze scientifiche, ma anche questo bisogno di allargare il concorso di risorse utili allo scopo e infatti chiama in soccorso, a cooperare, anche l’arte, la poesia, la cultura dei popoli, e accanto ad esse offre il sostegno della spiritualità e della fede, beni sui quali la Chiesa ha qualche competenza.
Spaventerebbe forse Voltaire, da una parte, e Pio IX dall’altra, ma non deve spaventare noi questo modo pragmatico di accostare sacro e profano e di affrontare un problema concreto dell’umanità, in una situazione paradossale per cui vediamo non credenti, da una parte, che fanno appello alla forza persuasiva di una fede (e di una Chiesa) in cui non credono, e credenti, dall’altra, che offrono il loro aiuto a una scienza, che deve professionalmente fare a meno di Dio, ma che è a corto di capacità persuasiva.
I non credenti in questo modo si arrendono, per così dire, davanti alla constatazione della insufficienza delle risorse razionali per produrre una cambiamento importante e urgente nelle politiche e nei comportamenti diffusi e si dispongono dunque a concedere qualche cosa di rilevante ai religiosi, dal Dalai Lama ai vescovi cattolici, dai musulmani sufisti agli animisti dell’Amazzonia: accettarne l’influenza nella vita pubblica, come un fattore necessario per il bene comune. Almeno in questo caso. Potranno continuare a respingerla in tanti altri. Ma non si tratta in realtà di un passaggio così oneroso anche per il radicalismo anticlericale, se osserviamo che in questa auspicabile collaborazione il passo più lungo qui lo fa la Chiesa, con un notevole coraggio teologico, che conferma l’audacia di questo Papa.
L’Enciclica non si propone infatti con un messaggio di verità, abbandona esplicitamente il terreno dogmatico della predicazione esclusiva della salvezza cristiana (almeno quando si tratta della salvezza del pianeta non di quella dell’anima – due cose però che nella enciclica sono collegate) e offre il contributo della religione come parte di un desiderabile concerto umano, volto a risolvere un problema di dimensioni enormi, prima che precipitiamo nel baratro. Ecco che cosa dice il testo di Francesco: “Se teniamo conto della complessità della crisi ecologica e delle sue molteplici cause, dovremmo riconoscere che le soluzioni non possono venire da un unico modo di interpretare e trasformare la realtà. (….) Se si vuole veramente costruire un’ecologia che ci permetta di riparare tutto ciò che abbiamo distrutto, allora nessun ramo delle scienze e nessuna forma di saggezza può essere trascurata, nemmeno quella religiosa con il suo linguaggio proprio.” Nessuna forma di saggezza sia dunque esclusa: la Chiesa offre la sua, in quanto tale, con il suo proprio linguaggio, come complementare alle altre. Non una pretesa di verità, è bene ripetere, ma un’offerta di aiuto. Francesco sembra proprio qui tendere la mano alla filosofia postsecolare di Jürgen Habermas. E infatti aggiunge: “La Chiesa Cattolica è aperta al dialogo con il pensiero filosofico, e ciò le permette di produrre varie sintesi tra fede e ragione”. I principi etici cristiani non si presentano qui come discendenti da dogmi e come dotati di un valore prescrittivo astratto, ma vengono messi a disposizione della società per quello che sono, una forma di linguaggio che desidera collaborare e intendersi con altre forme. “Il fatto che appaiano con un linguaggio religioso non toglie loro alcun valore nel dibattito pubblico. I principi etici che la ragione è capace di percepire possono riapparire sempre sotto diverse vesti e venire espressi con linguaggi differenti, anche religiosi.”(par. 142)
L’offerta viene presentata con la modestia del costume francescano, ma si accompagna anche alla consapevolezza dichiarata che quella religiosa è una “forma di saggezza” inestinguibile della dimensione umana. Come dire: vedete voi tutti dunque che l’homo religiosus non è un residuo arcaico di epoche primitive, ma una condizione permanente e sempre riemergente, una inesauribile riserva semantica – direbbe il filosofo –, una fonte di significati e di risorse morali e spirituali (e di linguaggio) cui attingere in momenti difficili come questo? Vedete che da questa fonte anche il non credente può trovare di che reciprocamente apprendere, scovando quel che c’è di importante nel linguaggio religioso e contribuendo magari alla sua traduzione nella lingua della vita pubblica?
Dalle crude parole della sociologia abbiamo imparato, tutti noi, indipendentemente dall’essere o non essere credenti, che la religione è un deposito di tradizioni alle quali sono ancorati comportamenti che durano nel tempo, che essa alimenta la solidarietà e la coesione sociale dei gruppi umani, che rafforza al loro interno le norme di condotta, che ha una parte importante nel definire quello che è giusto e sbagliato per i fedeli, che definisce per loro un’etica delle relazioni, con Dio, con gli altri esseri umani, con il creato; essa influenza la politica e le relazioni internazionali e fornisce agli individui e ai gruppi motivazioni morali, sa elaborare prospettive di lungo termine. E sappiamo anche che la religione convalida e giustifica le sue prescrizioni con la rivelazione e i testi sacri, emettendo pareri con valore vincolante per i fedeli.
Queste caratteristiche ne fanno un alleato che può aver peso nella battaglia per fronteggiare il disastro ambientale prima che sia troppo tardi per uscirne. Alla luce di queste premesse – che l’enciclica stessa mette in chiaro – possiamo dunque tentare un giudizio sul contributo che la “Laudato si’” fornisce alla causa. Non si tratta di un documento politico o tanto meno scientifico, ma di un testo religioso, di cui valutare la portata dei passaggi che iscrivono la difesa della Terra e dell’umanità dentro un quadro teologico, destinato a diventare moralmente impegnativo per i cattolici e forse ad estendere l’area del suo influsso spirituale oltre i confini della fede.
Davanti agli effetti “distruttivi” dell’opera umana, il pontefice aveva in primo luogo il problema di rivisitare i passi del Genesi, in cui il testo sacro manda un messaggio inequivocabile di dominio antropocentrico: creati l’uomo e la donna, Dio disse loro: “Dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra”. Il messaggio viene reinterpretato non per cancellare o rovesciare il suo carattere antropocentrico, ma per respingere le conseguenze di un “antropocentrismo deviato” e “dispotico” nei confronti delle altre creature, e ancor di più nei confronti dei poveri, degli umili, degli esclusi. Dio ha affidato sì il mondo all’essere umano, ma non perché’ ne facesse un uso illimitato a suo comodo. Le deviazioni distruttive vanno messe nel conto della “ferita del peccato”, che si manifesta “anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi.” L’attuale sistema mondiale è insostenibile da diversi punti di vista, perché abbiamo smesso di pensare ai fini dell’agire umano. E qui Francesco riprende da Giovanni Paolo II la constatazione teologica che «l’umanità ha deluso l’attesa divina».[1] C’è dunque un male da rimuovere, una aberrazione da far recedere. La causa del benessere della biosfera è iscritta per sempre nella missione della Chiesa.
L’ermeneutica di Francesco rilegge la teologia della creazione allontanandola dal messaggio di soggiogamento e sfruttamento per proporre invece una riconciliazione con tutte le creature, con sorella e madre Terra e con lo stato originario di innocenza, sulle orme di San Bonaventura e San Francesco, e ne fa scaturire un invito a «coltivare e custodire» il giardino del mondo: proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. “Ciò implica una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura.” Per la quale Papa Francesco trae ispirazione anche dalle pagine di Paul Ricoeur e Romano Guardini. Dal filosofo francese assume l’idea che: “l’essere umano impara a riconoscere sé stesso in relazione alle altre creature: «Io mi esprimo esprimendo il mondo; io esploro la mia sacralità decifrando quella del mondo»”.[2] E dal teologo italo-tedesco la critica del dominio, “nel senso estremo della parola” della tecnica sullo spirito, una critica che cerca di cogliere l’unità della natura e della esistenza umana.[3]
È difficile immaginare che la cultura scientifica in generale possa trovarsi pienamente soddisfatta davanti a un documento teologico che tocca, anche con qualche ricchezza di dettagli argomenti del dibattito naturalistico, ambientale, climatologico. Il tema demografico viene aggirato dal Pontefice in modo elusivo e ne viene sottovaluta l’incidenza sull’ambiente; il tema dell’energia nucleare viene toccato in modo soltanto negativo, quando è indiscutibile il contributo che essa può dare alla riduzione delle emissioni; dell’aria condizionata e di vari aspetti del progresso tecnico e del consumismo si parla per rimarcare l’incidenza negativa sull’ambiente, mentre si trascura il contributo essenziale che danno alla condizione umana rimuovendo sofferenze e rendendo possibile lavorare e vivere in zone del mondo dal clima intollerabile.
Ma il documento non va giudicato come un contributo tecnico alla discussione generale, ma per la sua capacità di porre il peso della Chiesa a disposizione di una alleanza con la scienza per una radicale correzione nell’orientamento generale dell’opinione pubblica in tema di ambiente, per scuotere dall’indifferenza, dall’ignoranza e dall’inerzia, per trasmettere il senso dell’urgenza di una svolta. Per questo credo che la sua efficacia vada misurata con altri criteri, quelli teologici e filosofici che ho cercato di mettere in evidenza e che rappresentano significative innovazioni da parte della Chiesa.
L’enciclica incardina la sua missione per la salvezza di sorella terra e di tutte le sue creature nella reinterpretazione della teologia vetero- e neo-testamentaria, riscoprendo i passaggi che valorizzano il rispetto e l’ammirazione per la natura e la sua bellezza, sottolineando il valore della famiglia come luogo dove questi valori si trasmettono insieme alla cultura della vita e proponendo poi due temi fondamentali con una grande forza: 1) il pluralismo culturale e religioso come dato di fatto imprescindibile per qualunque ipotesi di intervento politico volto a produrre un cambiamento e 2) la necessità di interrompere la spirale autodistruttiva innescata da un sistema economico basato esclusivamente sulla massimizzazione del profitto a breve termine e sulla esclusione di una parte dell’umanità da ogni beneficio.[4]
L’ispirazione pluralista è molto chiara e, trattandosi di un documento religioso e teologico che proviene dalla massima autorità della Chiesa, ha un peso di estremo rilievo, specie quando fa propria l’idea che i processi che suppongono un cambiamento devono passare attraverso la rielaborazione “dall’interno” di ciascun gruppo culturale. Un processo storico, come quello che è in gioco quando si parla di qualità della vita, non può essere imposto dall’esterno, ma deve essere compreso “all’interno del mondo di simboli e consuetudini propri di ciascun gruppo umano”, richiede “il costante protagonismo degli attori sociali locali a partire dalla loro propria cultura.” Quando si parla di progetti che interessano gli spazi di popolazioni da sempre isolate, come gli indios, va tenuto presente che “per loro… la terra non è un bene economico, ma un dono di Dio e degli antenati che in essa riposano, uno spazio sacro con il quale hanno il bisogno di interagire per alimentare la loro identità e i loro valori.” È vero che l’interdipendenza ci costringe a pensare a un solo mondo e a un progetto comune, ma di questa unità fanno parte tante diverse culture e religioni, che devono essere rispettate in quanto diverse. Ciascuna di loro potrà rispondere “meglio alle necessità attuali”, proprio in quanto potrà ispirarsi ritornando alle “rispettive fonti”. La causa del bene della Terra richiede il concorso di tutti i fedeli, dei “credenti”, parola che ricorre molto spesso nella enciclica, ad indicare non solo i cattolici o cristiani, ma le “religioni al plurale”, cui è dedicato un capitolo: “La maggior parte degli abitanti del pianeta si dichiarano credenti, e questo dovrebbe spingere le religioni ad entrare in un dialogo tra loro orientato alla cura della natura, alla difesa dei poveri, alla costruzione di una rete di rispetto e di fraternità.”
La forza della ispirazione pluralista e della denuncia di una economia che alimenta esclusione ed ingiustizia sociale è in questa enciclica così forte che non è possibile non segnalare come essa si presenti anche come un documento di svolta rispetto al precedente pontificato. Francesco I usa rifarsi ai suoi predecessori, ma le differenze di tono, che di per sé già producono nuovo pensiero, si sommano a indiscutibili scelte di contenuto, di cui non si può non prendere atto. Quanto alle reazioni negative alla “Laudato si’”, di un corteo di avversari di questo Papa, irritate, grossolane, nostalgiche di un corso precedente, esse sono un indizio della sua efficacia, e sono significative almeno quanto gli apprezzamenti.
Articolo pubblicato sul sito del Fondo Ambiente Italiano nel dossier “Il dibattito sull’Enciclica di Francesco. Un confronto epocale tra scienza e religione“.
Note
[1] Catechesi (17 gennaio 2001), 3: Insegnamenti 24/1 (2001), 178.
[2] Paul Ricœur, Philosophie de la volonté. 2. Finitude et Culpabilité, Paris 2009, 216 (trad. it.: Finitudine e colpa, Bologna, 1970, 258).
[3] Romano Guardini, Das Ende der Neuzeit, 63-64 (ed. it.: La fine dell’epoca moderna, 58)
[4] Su questi due aspetti sono già qui intervenuti Andrea Carandini che ha bene individuato la critica del “monismo” che è implicata dalle parole di Francesco e Marco Vitale che ha opportunamente collegato la critica dell’economia alla dottrina sociale della Chiesa insistendo sul fatto che la battaglia contro il capitalismo finanziario e per una economia produttiva va in questa enciclica ben al di là della Caritas in Veritate di Benedetto XVI.
Avrei seri dubbi sul fatto che l’enciclica non si proponga come messaggio di verità e abbandoni il terreno dogmatico.
Non riesco a digerire il paragrafo 123, in cui tra l’altro si legge: “… Se non ci sono verità oggettive né princìpi stabili, al di fuori della soddisfazione delle proprie aspirazioni e delle necessità immediate, che limiti possono avere la tratta degli esseri umani, la criminalità organizzata, il narcotraffico, il commercio di diamanti insanguinati e di pelli di animali in via di estinzione? Non è la stessa logica relativista quella che giustifica l’acquisto di organi dei poveri allo scopo di venderli o di utilizzarli per la sperimentazione, o lo scarto di bambini perché non rispondono al desiderio dei loro genitori? …”
Triste visione quella di chi pensa che senza riferimenti assoluti l’uomo farebbe scelte di questo tipo. Come allora immaginare che, impegnato in tali attività, trovi il modo di riparare ai danni arrecati alla casa comune?
Non mi sento un laico radicale; mi sento solo offeso.
Caro Giancarlo, è sempre un piacere leggerti e trovare una forte condivisione col tuo pensiero.
Un caro abbraccio e complimenti sinceri per il tuo impegno costante sulle questioni internazionali, di tutti e dunque anche mie.
Silvana