Il Corriere della sera: “Renzi attacca, poi l’apertura”. “Duro scontro con Grasso. Ma si profila l’accordo con la minoranza Pd”. “Il riferimento al ‘Tatarellum’ sul listino. Bersani: per noi è un passo significativo”. “Il cammino della riforma e i conflitti da superare” è il titolo di un commento di Francesco Verderami.
A centro pagina: “Crollo in Borsa, Volkswagen paga per i test truccati”.
A fondo pagina: “Il libro su Cameron che agita Londra. Le accuse di un lord conservatore (dopo una nomina negata): da giovane riti e droghe”.
L’editoriale è firmato da Paolo Mieli ed è dedicato al voto greco: “Lezione di realismo da Atene”.
Da segnalare anche – di spalla – un articolo di Beppe Severgnini: “Papa Francesco piacerà agli americani per cinque motivi”.
La Repubblica: “Pd, sì alle riforme, i ribelli non votano. Attacco a Grasso”, “Approvata all’unanimità la relazione di Renzi. Bersani: sul Senato un’apertura importante”.
In prima anche i “dati truccati sulle emissioni diesel” della Wolkswagen: “L’eco-truffa travolge Wolkswagen, crollo in Borsa, stop vendite in Usa”.
A centro pagina: “La mascherata di Grillo in rete: ‘È il 2042, governiamo noi’”.
A fondo pagina: “Il pm: otto mesi a Erri De Luca. Lo scrittore: ‘È una censura’”.
Sulla colonna a destra: “Scalfari, il diario per scrivere un altro futuro”, “Esce oggi il nuovo libro: uno zibaldone tra la memoria e il domani”. Di Simonetta Fiori e Nadia Fusini.
La Stampa: “Riforme, Renzi ‘avvisa’ Grasso”, “Il segretario: fatto inedito se riapre sull’eleggibilità dei senatori. E incassa il sì dalla direzione Pd”, “La minoranza non vota la relazione del leader. Bersani (assente): ci sono aperture significative. La trattativa continua”.
Sulla previdenza: “Pensioni, spuntano accordi di ‘part time agevolato’”, “Il progetto di governo: soluzioni a basso costo per anticipare l’uscita dal lavoro e sbloccare il ricambio”.
A centro pagina, con foto della cancelliera Merkel al volante di una Wolkswagen: “’Emissioni truccate’, scandalo Wolkswagen”, “Negli Usa saranno richiamate mezzo milione di auto: il titolo a Francoforte perde il 17,1%”.
Il Fatto: “Renzi minaccia, Grasso s’infuria: ‘Non temevo neppure la mafia’”, “Nella Direzione Dem il segretario offre a Bersani una mediazione sull’elezione dei senatori (ma lui non si fida e aspetta che sia scritta) e preme sul presidente di Palazzo Madama perché non metta al voto l’art. 2 della riforma”.
Su questo tema, intervista al professor Gianfranco Pasquino, che dice: “La proposta del leader Pd è chiara, sono altri nominati”.
A centro pagina: “Colosseo, Franceschini scheda i lavoratori: ‘Fuori i nomi’”, “Dopo l’assemblea di tre ore di sabato, comunicata e autorizzata con largo anticipo, e dopo il decreto del governo, il Soprintendente Francesco Prosperetti pretende che vengano comunicati i nomi di chi ha partecipato, pena il rischio di una sanzione disciplinare. Eppure fare assemblee sindacali è un diritto”.
Sul caso de Luca: “’Condannate a 8 mesi Erri De Luca’. I pareri di De Giovanni e Grosso”.
Il Giornale: “Audi e Volkswagen kaputt. La Germania ci ha imbrogliato. Hanno barato sui gas di scarico: l’America chiede 18 miliardi di dollari”. “Comprereste un’automobile dalla cancelliera Angela?” è il titolo dell’editoriale.
Di spalla: “Renzi ricatta Grasso. Ma un deputato Pd rivela: sta comprando senatori”.
A centro pagina, con foto di Carlo De Benedetti: “Crac veri e condanne nascoste. L’ingnegnere demolito dai giudici”. “Altro che diffamazione, Tronchetti Provera raccontò la verità sugli intrallazzi di De Benedetti. E pure la giustizia italiana finalmente se ne accorge”.
Il Sole 24 ore: “Scandalo Volkswagen, shock in Borsa”. “Ammessa la manipolazione dei dati sulle emissioni di 500 mila vetture: bloccate le vendite di diesel in Usa, avviata una indagine penale”. “Il titolo crolla (-18,6 per cento) sul rischio-multa da 18 miliardi. Le scuse del Ceo Winterkorn”.
Di spalla: “Pensioni, allo studio un anticipo con un taglio del 3-4 per cento annuo”. “Renzi: i conti non si toccano ma serve più flessibilità”. E poi, sulle riforme: “Sì unanime dal Pd: la minoranza non vota ma Bersani apre. Pressing di Renzi su Grasso: ‘Inedito se riapre sull’articolo 2”.
A centro pagina: “La Ue ad Atene: ora privatizzate”. “Dopo la vittoria alle elezioni Commissione ed Eurogruppo incalzano il premier greco”. “Borse positive: Piazza Affari recupera l’1,2, euro sotto quota 1,12”. L’editoriale, firmato da Adriana Cerretelli: “Cinque lezioni dal successo inatteso di Tsipras”.
Riforme, Senato, Pd
La Repubblica, pagina 2: “Il Pd dice sì al nuovo Senato. Renzi: ‘Avanti senza diktat’. Ancora scontro con Grasso”, “La sinistra non vota in direzione ma apre all’intesa. Il segretario propone: senatori designati dagli elettori. Attacco ai talk show”. La carta offerta dal segretario per risolvere il nodo dell’elettività dei senatori – scrive il quotidiano – è un meccanismo di indicazione sul modello della legge regionale Tatarella del 1995.
Nel “retroscena” di Goffredo De Marchis (“Il leader: ‘Ma sul lodo-Violante la sinistra non cambi idea’”) si legge che “alla fine l’apertura del premier-segretario è arrivata”, grazie ai colloqui con Vasco Errani, “esponente dell’ala bersaniana più trattativista”. Ma in realtà “i passaggi preparatori son stati parecchi”. Il “lodo Chiti”, uno dei senatori ribelli, con una proposta di un listino ad hoc per i senatori-consiglieri. L’articolo ospitato sei giorni fa sull’Unità ultrarenziana firmato da Luciano Violante “che prefigura un’elezione praticamente diretta dei nuovi senatori da ratificare poi nei consigli regionali. Ma non sarà la Costituzione a dirimere la vicenda. Nel comma 5 dell’articolo 2 verrà solo affermato il principio di un’indicazione diretta dei cittadini. Toccherà a una legge ordinaria fare un po’ di ordine nelle normative elettorali regionali che sono quasi tutte diverse. Per questo nelle trattative a Palazzo Madama la presidente della Commissione Affari costituzionali Anna Finocchiaro lascia intendere che la soluzione inevitabile, al termine dell’iter, sarà il listino proprio sul modello della legge Tatarella. Garantendo però la proporzionalità degli eletti, a differenza di quella norma che, attraverso una lista collegata al governatore di nomi dava il premio di maggioranza”.
A pagina 4, intervista a Pierluigi Bersani (che ieri non ha partecipato alla Direzione ed ha preferito chiudere la Festa dell’Unità a Modena): “Così a vincere è il metodo Mattarella e Verdini non serve”. Spiega l’ex segretario: “Se la proposta di Renzi è quella che ho capito io, per cui il popolo sceglie i senatori e i consiglieri regionali ratificano, allora sì, questo può essere il ritorno del metodo Mattarella”. E sulla stessa pagina Stefano Folli, nella sua rubrica “Il punto” scrive che la vecchia legge regionale del Tatarellum è stata riesumata “e diventa l’uovo di Colombo che ricompone le fratture nel Pd”.
La Stampa, pagina 2: “Renzi incassa il sì in Direzione. Verso l’accordo con la minoranza”, “Ma i bersaniani non votano. Il premier sfida Grasso: un fatto inedito riaprire tutto”. Il quotidiano intervista il senatore bersaniano Miguel Gotor: “Vogliamo capire se le parole di Renzi significano che i cittadini decidono chi sarà senatore e i consigli regionali ratificano volontà popolare. Magari prevedendo delle sanzioni per i consigli che non si attenessero al voto”. Di fianco, intervista al senatore renziano Andrea Marcucci: “Le dichiarazioni di Bersani e della minoranza sono di buon senso”. Ma Bersani ha pure detto che ora non c’è bisogno dei voti di Verdini. Marcucci risponde: “Mi pare che il senatore Verdini e non solo, mi riferisco a tutta Forza Italia, abbia votato il testo della riforma in prima lettura. Non vedo perché non dovrebbe votarlo di nuovo”. Renzi ha anche sostenuto che se il presidente del Senato Grasso aprisse alle modifiche all’articolo 2 già approvato da Camera e Senato sarebbe un fatto “inedito”, si tratta di pressione sulla seconda carica del Senato? Marcucci: “Nessuna pressione, nessun attacco. Non era questa l’intenzione di Renzi, che ha semplicemente fatto una constatazione dei precedenti: una norma approvata in doppia lettura conforme non è mai stata messa in discussione”.
A pagina 3 de La Stampa il “retroscena” di Fabio Martini: “Sfiorato lo scontro con Grasso. Il Presidente: rispetti le istituzioni”, “Renzi: ‘Se apre sull’art. 2, si convochino le Camere’. Poi si corregge”. La correzione è arrivata dallo stesso Renzi nel corso della riunione della direzione Pd: si trattava di convocazione dei gruppi parlamentari Pd: “nei poteri del premier non c’è il potere di convocare Camera e Senato”, ha detto lo stesso Renzi.
Sul Sole si spiega che “l’uovo di Colombo” è quello di “intervenire sull’unico comma dell’ormai famoso articolo 2 modificato alla Camera (il quinto)”. La modifica sarebbe sostenuta anche dai centristi, e si ricorda che fu l’ex minitro del Ncd Quagliariello il primo a proporre dei “listini” per “per legare in modo diretto futuri senatori ed elettori”. L’accordo parte dal “principio della doppia copia conforme”, ovvero che le parti approvate sia dal Senato che dalla Camera non possono essere ancora modificate. Dunque non si può intervenire sul secondo comma dell’articolo 2, quello che enuncia la norma sui consigli regionali che “eleggono, con metodo proporzionale”, i membri del futuro Senato.
Si potrà intervenire sull’unico comma dell’articolo 2 che è stato modificato in seconda lettura dalla Camera, ovvero quello che contiene oggi un “dai” al posto di “nei” consigli regionali, che riguarda il mandato dei futuri senatori. “A questo punto del comma si può aggiungere ‘sulla base della designazione degli elettori secondo quanto stabilito dalla legge della Repubblica di cui all’articolo 122′”. Sarà poi una legge ordinaria che disciplinerà il modo in cui sarà eletto il nuovo Senato.
Sul Corriere viene intervistato l’ex capogruppo Roberto Speranza: “È caduto un totem. Così a scegliere saranno i cittadini”. Dopo mesi passati a dire “non si tocca nulla”, dice Speranza, il fatto che si intervenga sancendo il principio della “elezione diretta che noi chiediamo” è l’abbattimento del totem. Ma aggiunge di voler “prima vedere bene i testi”.
Ancora dal Corriere: “Il richiamo al ‘Tatarellum’ e quelle 15 parole decisive. Per il segretario diranno no al massimo cinque dissidenti”.
E un altro articolo: “Mossa di Renzi, intesa vicina sul nuovo Senato. Ma scoppia un nuovo caso Grasso”.
Il Fatto, pagina 2: “Renzi minaccia il Senato. I ribelli temporeggiano”, “Tregua armata. La direzione dem approva all’unanimità la proposta del segretario, ma i dissidenti non partecipano al voto. L’accordo ancora non c’è, tutto rimandato all’Aula”. Scrive Vanda Marra che, proponendo la “designazione” dei senatori Renzi ha offerto la mediazione: “la minoranza reagisce divisa e confusa. E alla fine temporeggia: esce, senza votare. L’accordo è a un passo da giorni, ma non c’è. Tutto rimandato in Aula. L’ago della bilancia resta il presidente del Senato” e non a caso è lui l’obiettivo frontale del presidente del Consiglio.
A pagina 3: “Grasso: ‘Nemmeno la mafia mi fermò’”, “L’ex pm resiste al premier: ‘Moderi i toni, non è una guerra’”.
La Repubblica, pagina 3: “L’ira del presidente: ‘Quelle della mafia erano minacce, lui non fa paura’”.
Sul Corriere, Francesco Verderami scrive che “non c’è un solo motivo, politico o istituzionale, che giustifichi l’attacco pubblico di Renzi a Grasso”. “Ragioni di convenienza politica” ma anche di “sensibilità istituzionale” avrebbero dovuto indurre il presidente del consiglio a “non formalizzare un contrasto peraltro già evidente”, tanto più che l’accordo politico nel Pd non lo rendeva più necessario.
Sul Giornale si spiega il timore di Renzi con le parole pronunciate in Direzione: “‘Se il presidente del Senato applica la Costituzione e il regolamento senza stravolgimenti, la soluzione tecnica su come si scelgono i senatori la troviamo in dieci secondi netti. Ma se apre l’articolo 2 anche nelle parti già votate in doppia conforme sarà un fatto inedito, e sarà necessaria una convocazione di Camera e Senato’. Nella foga, gli scappa il lapsus, e pochi minuti dopo (mentre fuori si scatena una burrasca, Vendola lo accusa di pressioni al presidente del Senato, Grasso fa trapelare di essere infuriato e pure dal Quirinale si invita ad evitare scontri frontali), Renzi corregge”.
Su La Stampa, in prima, l’editoriale di Federico Geremicca: “Rimandato lo scontro nel partito” (“in conclusione, al momento del voto, tutti fuori dalla sala senza dire né sì né no”).
Il Fatto intervista Gianfranco Pasquino, professore emerito di Scienza politica all’Università di Bologna: “Renzi parla come un capetto. Vuole un Senato di nominati”. Chiede Luca De Carolis: Renzi ha detto no all’elezione diretta dei senatori, aprendo invece a una designazione come nella legge Tatarella del 1995, che intendeva? “Credo si riferisse al 20 per cento dei consiglieri regionali votati tramite un listino. Ossia a quei candidati che i partiti mettono in una lista bloccata del presidente, perché non li ritengono capaci di raccogliere preferenze. Di fatto, dei nominati. I cittadini dovrebbero solo ratificarne la scelta”.
Su Il Sole Lina Palmerini ricorda che lo scontro al Senato “si fa sul serio” perché “i numeri sono risicati e basta poco per far finire la legislatura e mandare a casa il Governo. In sostanza, a Palazzo Madama si fa sul serio e lo scontro – se tale deve essere – rischia di diventare fatale. E infatti i disgelo è arrivato in serata, dopo la direzione disertata dall’ex segretario Bersani che – però – ha fatto sapere di aver trovato aperture nel discorso di Renzi”. Si legge anche che “la sinistra Pd per poter reggere uno scontro con quello che è ancora il segretario del loro partito nonché premier, dovevano mettere sul tavolo carattere e argomentazioni. E invece ieri la cosa che più è saltata agli occhi è stata l’assenza di Bersani. Sarà pure vero che la direzione del Pd non conta nulla, che il voto era scontato perché la maggioranza ce l’ha Renzi, ma quando si vuole dare battaglia si sta nell’arena”
Pensioni
Sul Sole si ricorda che dopodomani i ministri Padoan e Poletti verranno ascoltati dalle commissioni bilancio e lavoro di Camera e Senato sul tema degli “esodati”. Scrive Il Sole che “a quanto sembra le intenzioni del Governo sono di uscire dalla teoria delle salvaguardie annuali e dare invece una soluzione strutturale, di impatto il più possibile limitato sul disavanzo”. Secondo Il Sole “la dote massima dell’intervento non dovrebbe superare il miliardo (cui va aggiunto il mezzo miliardo già prenotato per la perequazione degli assegni a seguito della sentenza 70/2015 della Consulta), l’anticipo non dovrebbe superare i 3-4 anni rispetto ai requisiti di vecchiaia (66 anni e 7 mesi per gli uomini e 65 e 7 mesi per le lavoratrici dipendenti del settore privato) e infine la penalizzazione non dovrebbe essere inferiore al 3-4% l’anno per ogni anno di anticipo”. Secondo Il Sole la prima possibilità è una riscrittura della cosiddetta opzione donna, la norma in vigore da diversi anni che consente alle donne di andare in pensione in anticipo, se hanno almeno 35 anni di contributi, ma con il calcolo interamente contributivo dell’assegno. La penalizzazione nella ipotesi di modifica sarebbe inferiore, il 3,3 per cento all’anno per tre anni al massimo, ma appunto non sarebbe consentito – come è oggi – andare in pensione anche a 57 o 58 anni. Lo stesso si starebbe pensando per gli uomini.
Anche sul Corriere si parla di un “piano” per alcune modifiche alla legge Fornero e si citano le parole di Renzi ieri alla Direzione Pd: “‘Noi abbiamo bisogno di dire con chiarezza che i conti pensionistici per quello che riguarda il nostro Paese non si toccano. Ma se esiste la possibilità, e stiamo studiando il modo, per cui in cambio di un accordo si possano consentire forme di flessibilità in uscita, se esistono le condizioni per farlo, sarebbe un gesto di buona volontà'”. “In cambio di un accordo” vuol dire – spiega il quotidiano – che deve essere un meccanismo che vale solo per i dipendenti anziani, con più di 62 o 63 anni (considerando che dal prossimo anno l’età per la pensione di vecchiaia sarà 66 anni e 7 mesi) e che non riescono a trovare un altro lavoro. “A loro potrebbe essere data la possibilità di accedere a un pensionamento anticipato con l’importo della pensione più basso perché ricalcolato alla luce del fatto che verrebbe pagato per più anni. Ci si perderebbe in media il 3-3,5% per ogni anno di anticipo”. Secondo il Corriere però anche l’azienda che manda in pensione il lavoratore dovrebbe “accollarsi parte dei costi”, “magari versando, come propone l’ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, contributi esentasse per il raggiungimento della pensione”.
Grecia
La Stampa: “Tsipras giura da primo ministro. La prossima sfida è sulle banche”, “Confermata l’alleanza anti-austerity con i nazionalisti di destra di Kammenos ma l’Ue vuole vincolare alle riforme gli aiuti agli istituti di credito vicini al collasso”. A scriverne è Tonia Mastrobuoni, inviata ad Atene: “a Berlino, Parigi e Bruxelles storcono il naso da gennaio perché il leader di Syriza non vuole fare coalizioni con i socialisti di Pasok o con il partito fondato dall’ex giornalista televisivo Theodorakis, To Potami, che agli occhi delle cancellerie europee sembrano più affini e liberali della destra ultra ortodossa e reazionaria degli Indipendenti greci. Ma non capiscono che Kammenos (che potrebbe essere riconfermato ministro della Difesa) è per Tsipras una potente bandiera dell’anti austerità. Agli occhi dell’elettorato, che ha mandato un chiaro segnale sulla volontà di pensionare i vecchi partiti e gli esponenti del vecchio establishment, dettaglio molto più importante del fatto che sia dal lato opposto dello spettro politico”. Quanto al calendario delle riforme attese dalla Ue, Mastrobuoni sottolinea che ad Atene sanno che le capitali europee possiedono “un’arma fine di mondo”: si tratta delle banche, poiché da gennaio 2016 entreranno in vigore le nuove regole europee sui fallimenti bancari. Prevedono, tra l’altro, che i depositi non assicurati sopra i 100 mila euro vengano coinvolti negli eventuali salvataggi. In Grecia significa che se fallissero le banche verrebbero coinvolti anche una miriade di piccoli imprenditori. In Grecia i quattro principali istituti di credito, dopo l’emorragia di depositi della prima metà dell’anno sono sull’orlo del collasso e gli accordi di luglio con la troika prevedono che Atene benefici di 25 miliardi di euro di aiuti per ricapitalizzarle: “in Europa sono dunque fiduciosi che legando l’erogazione delle risorse per la ricapitalizzazione delle banche all’implementazione delle riforme, potranno imporre una rapida tabella di marcia ai greci”.
Su La Repubblica: “Grecia, Tsipras giura, oggi il nuovo governo. ‘Adesso serve stabilità’”, “Il premier prepara l’esecutivo, la Merkel si congratula ma Schulz attacca: errore stare con la destra di Anel”. Schulz, presidente socialdemocratico del Parlamento europeo, in un’intervista alla radio France Inter, ha detto: “Ho chiesto a Tsipras perché continui a governare con questo partito di destra, ma di fatto non mi ha risposto”. Ma la discriminante -ricordano dalla sede di Syriza- è la politica economica, poiché i “Greci indipendenti” hanno sempre rigettato le misure di austerità dei precedenti governi (“A parte quello di Tsipras”, sottolinea l’inviato Matteo Pucciarelli).
Sulla stessa pagina, “lo scenario” tracciato da Ettore Livini: “Alexis, la prova del fuoco, ora 127 misure di austerità da far digerire al Paese”. La prossima settimana arriverà nelle case dei greci la bolletta della nuova tassa sulla casa, la temutissima “Enfia”, molto cresciuta rispetto allo scorso anno. Entro fine ottobre il governo dovrà mettere in cantiere una finanziaria supplementare per il 2015 per rispettare gli obiettivo di bilancio e approvare il budget preventivo lacrime e sangue. Il Parlamento dovrà poi varare la riforma fiscale che colpirà in particolare gli agricoltori, completare il riordino del sistema previdenziale con l’addio alle baby-pensioni, varare il contestatissimo fondo per le privatizzazioni facendo partire subito quella del porto del Pireo e delle ferrovie.
Il Corriere intervista Panos Kammenos, leader di Anel, “ago della bilancia greca”. Dice che anche in Italia al governo c’è un partito di sinistra alleato con un piccolo partito di destra. Il Corriere ricorda il “curriculum” di Kammenos, in Nuova Democrazia fino al 2012, espulso perché contrario al secondo memorandum. “Spesso gli sono uscite di bocca frasi sull’Europa ‘governata dai neonazisti’ e sugli ‘ebrei greci che non pagano le tasse'”.
Sul Manifesto un articolo dal titolo “Dialogo con il ‘nuovo’ Pasok”. Si legge che Tsipras, prima del voto, aveva avviato un “discreto dialogo a distanza con il Partito socialista” nel timore – lo dicevano anche i sondaggi – di non poter contare sull’alleato Anel, dato sotto il 3 per cento. E anche oggi “il progetto di recupero del Pasok a posizioni meno appiattite sulla destra liberista non è stato abbandonato”. Il Pasok è cresciuto rispetto alle ultime elezioni e secondo il quotidiano comunista “non è improbabile” che nel governo che presenterà oggi Tsipras insersca anche “qualche tecnocrate di area socialista, ovviamente valido e incontaminato”.
Sul Corriere Paolo Mieli scrive “sul piano continentale, però, presto si capirà che le elezioni greche di domenica scorsa sono state vinte da Angela Merkel. È stata lei che ai primi di luglio ha preso per mano il leader di Syriza inducendolo a impiegare il successo conseguito al referendum in qualcosa di potenzialmente virtuoso per la Grecia e per l’Europa: l’accettazione delle dure condizioni per il terzo prestito europeo”. Mieli aggiunge che “la storia è piena di leader di sinistra che, giunti al potere, si rendono conto di non poter mantenere le promesse elettorali e si vedono costretti a scaricare i deputati irriducibili prima di affrontare con la necessaria energia i problemi che si pongono”, e cita Mitterand che – vinte le presidenziali francesi nel 1981 con i comunisti e li estromise dal governo nel 1984.
Sul Sole Adriana Cerretelli parla di “cinque lezioni” che la vittoria di Tsipras offre all’Europa. Tra l’altro: “se oggi Tsipras il ‘voltagabbana’ continua a vincere quando in Europa la sinistra continua a perdere è perché, piaccia o non piaccia, è stato capace di contraddirsi, di aggiornare le sue convinzioni e cogliere l’ineluttabilità, pena il disastro nazionale, della modernizzazione e del recupero di competitività dei sistema-paese nell’era globale”.
Volkswagen
La Repubblica: “Emissioni truccate, Volkswagen shock, il titolo crolla del 17%”, “Indagine penale Usa: violate le norme anti-smog, stop alla vendita dei modelli diesel. L’ad: ‘Chiedo scusa’”. A parte il tracollo in Borsa, Andrea Tarquini sottolinea come sia ancor più pesante per i bilanci dell’azienda la minaccia dell’annunciata multa-sanzione degli Usa: 18 miliardi di dollari. Tutto è cominciato dall’annuncio, lo scorso fine settimana, dei risultati dell’indagine Rpa, la potente authority Usa responsabile del controllo dell’inquinamento e in particolare delle emissioni delle auto. I suoi controlli hanno rivelato che diversi modello di Wolkswagen e del suo marchio premium, specie quelli equipaggiati con motori diesel a due litri, inquinano molto più del previsto. Quelle auto avrebbero a bordo centraline “furbette” in grado di ridurre le emissioni solo nei momenti in cui esse vengono controllate, e di lasciarle a livello “normale”, cioè ben superiore alle severe norme nordamericane, nell’uso quotidiano delle vetture. Si ricorda poi che l’amministratore delegato Martin Winterkorn era appena uscito vincente a fatica dal braccio di ferro con il “grande vecchio” del gruppo Ferdinand Piech, nipote del leggendario Ferdinand Porsche.
A pagina 8 de La Repubblica, un articolo di Paolo Griseri: “I tedeschi rischiano la leadership, adesso Toyota e Gm si giocano lo scettro”, “Stati Uniti e Cina terreni di scontro per i grandi produttori. La casa di Wolfsburg in difficoltà voleva riscattarsi con il nuovo motore diesel”, “la scarsa performance tra le cause del recente scontro tra Winterkorn e Ferdinand Piech”.
La Stampa: “Volkswagen travolta dallo scandalo emissioni”, “Violate le norme anti-smog negli Usa. In arrivo una multa da 18 miliardi. In Borsa il titolo perde il 17,1%. Saranno richiamate mezzo milione di auto”.
E dagli Usa l’articolo di Francesco Semprini: “Negli Usa scatta l’inchiesta penale e stop alle vendite del diesel”, “Golf e Audi nel mirino. Obama: preoccupati per l’ambiente”.
A pagina 9 il “retroscena” di Tonia Mastrobuoni: “Si incrina il mito dell’affidabilità tedesca. Adesso Winterkorn rischia il posto”, “L’ad si scusa: ‘Sono desolato, abbiamo tradito la fiducia dei nostri clienti’. Venerdì il consiglio del gruppo tedesco deciderà sul futuro del manager”.
Sul Giornale si legge che lo scandalo dei test sulle emissioni diesel Volkswagen truccate per le autorità Usa è divampato “in pieno Salone di Francoforte, lo stesso inaugurato la scorsa settimana dalla cancelliera Angela Merkel e che ha visto proprio il gruppo tedesco dettare le nuove regole sul presente e il futuro del settore, arriva anche a pochi mesi dalla consacrazione del colosso di Wolfsburg, scalzata Toyota, sul podio più alto del mondo. Un traguardo a lungo inseguito”. Si legge anche che proprio per questo si sospetta dei “rivali” Bmw o Daimler, o anche dell’ex presidente del consiglio di sorveglinza di Volkswagen, Ferdinand Piëch, estromesso dalla guida del gruppo a favore del suo ex delfino Martin Winterkorn.
“Colpo al cuore della Germania delle regole” è il titolo di un commento di Danilo Taino, sul Corriere. “Che il maggiore campione dell’industria nazionale, più volte sostenuto e protetto dal governo di Berlino proprio in tema di emissioni e di obblighi europei, abbia imbrogliato sulle regole fa vacillare la credibilità e la non negoziabilità dell’essere in toto e sempre in linea con le norme. L’accusa di essere rigidi con gli altri e furbi quando si viene ai propri comportamenti già sta circolando”.
Alessandro Merli, sul Sole 24 Ore, cita le parole dell’Amministratore delegato di Volkswagen (“Sono profondamente dispiaciuto che abbiamo infranto la fiducia dei nostri clienti e del pubblico”). Pubbliche scuse dopo lo scoppio dello scandalo sulla manipolazione dei dati di emissione dei motori diesel negli Usa. Scuse che “non basteranno probabilmente a evitare alla casa tedesca una multa plurimiliardaria, e forse nemmeno le dimissioni dello stesso capo del colosso di Wolfsburg”. “Ma il danno più grave è stato inferto alla reputazione di competenza e affidabilità della Volskwagen, soprattutto se l’inchiesta dovesse allargarsi, come sembra inevitabile, alla Germania e all’Europa”. “Il danno più grave, appunto, è quello reputazionale. Vw non è estranea a scandali clamorosi: dieci anni fa, il management venne implicato nella squallida vicenda di prostitute e vacanze pagate ai rappresentanti sindacali. Ma se la portata di quella storia rimase alla fine su scala soprattutto locale e quasi folkloristica, questa ha un respiro globale pesantissimo”. Inoltre, “a differenza degli scandali finanziari” non sarà facile per Vw “scaricare le colpe su singoli individui (gli ingegneri dell’auto non hanno certo lo stesso tipo di incentivi finanziari distorti dei trader delle banche), anche per una cultura di management che a Volkswagen, dove tra l’altro la tradizione è di avere al top della piramide gestionale uomini di prodotto, è altamente centralizzata”.
Papa
Il Giornale: “Il Papa rivoluzionario a Cuba: ‘Non si abusa del popolo’. Dopo l’incontro con Fidel il Pontefice ricorda i ‘duri sacrifici sopportati dal clero’ e dice: il Vangelo non è politicamente corretto, cambiare è possibile”.
Stasera il Papa arriverà negli Usa.
Sul Corriere una intervista a Jim Nicholson, che è stato ambasciatore Usa in Vaticano. “Il Papa stia attento a non farsi trascinare sul terreno dai politici”. Deve evitare – dice – di entrare “troppo in profondita” su temi che sono oggetto di dibattito politico acceso negli Stati Uniti, dall’accordo con l’Iran all’ambiente. Per esempio “grande rispetto per la grande preoccupazione che emerge dalla recente enciclica Laudato Sì”, ma “senza dimenticare tutto quello che è stato possibile fare negli ultimi secoli per alleviare la povertà grazie ai combustibili fossili”.
Ancora sul Corriere una intervista al “gesuita progressista” Thomas Reeese: “Su clima e migranti scuoterà l’America con i suoi simbolismi”. Reese è stato allontanato qualche anno fa dalla Congregazione per la dottrina nella fede per le sue posizioni su celibato dei preti e donne nella Chiesa. Quando ha letto le prime dichiarazioni di Bergoglio si è messo a ridere e piangere: “Diceva cose molto più radicali di quelle per cui io ero stato allontanato”.
Sul Foglio: “L’America sale sul carro del Papa dal lato sinistro (ma occhio alle sorprese)”. La Casa Bianca è “molto accorta” nel depoliticizzare la missione di Bergoglio, i liberal “saltano allegri sulla papamobile”.