Da Reset-Dialogues on Civilizations
Dal New York Times al Washington Post, dallo Spiegel a Le Nouvel Observateur, le più prestigiose riviste internazionali la chiamano “la svolta”: stiamo parlando dell’approvazione da parte della cancelliera tedesca Angela Merkel di un piano straordinario per l’accoglienza di migliaia di profughi siriani (si parla di oltre ottocentomila rifugiati, secondo le stime di Bloomberg, per questo 2015) fermi alle porte dell’Unione Europea mentre fuggono dalla tremenda situazione data dall’escalation della guerra civile siriana, in un territorio vieppiù sotto il controllo del Califfato islamico. È questa svolta nella politica tedesca (criticata tanto sul fronte delle destre populiste quanto dalla bavarese CSU, il partito corrispondente al partito della cancelliera, la CDU, in Baviera) che sembra disegnare una nuova immagine dell’Unione Europea, ora all’insegna della memoria e della speranza, dopo oltre un quinquennio dominato dall’austerity sul fronte dei conti.
Il commento dell’ex ministro degli affari esteri tedesco (1998-2005), il verde Joschka Fischer, consegnato alle colonne della rivista Project Syndicate, appare, infatti, tutto incentrato intorno al richiamo alla stessa storia dell’Europa. Nel suo Europe’s Migration Paralysis (24 agosto), infatti, Fischer rammenta come per molti secoli l’Europa sia stata un continente piagato da guerre, povertà e carestie, in cui milioni di persone erano costrette a lasciare il proprio paese di provenienza alla ricerca di una vita migliore per se stessi e per i propri figli. Dai porti europei le destinazioni erano le più varie e lontane: dagli Stati Uniti all’America Latina, sino addirittura, oltre il Pacifico, alle terre australiane. A dire di Fischer, i governi europei hanno oggi il dovere morale di tenere a mente questa condizione storica e di agire con decisione sulla questione della migrazione per cui in caso di politiche a macchia di leopardo o di decisioni prese a “geometria variabile” si porrebbe un rischio serio per la stessa tenuta delle istituzioni comunitarie. Lo sforzo delle istituzioni europee, nel ricordo della storia comune del passato, dovrà piuttosto apparire orientato ad implementare politiche di welfare e di accoglienza in grado di dare ospitalità a chi si trova nelle situazioni di più grave sofferenza. Scrive Fischer: «Vi sono almeno tre cause distinte che concorrono a spiegare l’attuale situazione: stiamo parlando del malessere economico che si respira nell’Europa orientale, dei continui sommovimenti politici in Medio Oriente e delle guerre civili che colpiscono l’Africa a sud del Sahara. Se pensiamo anche alla situazione ucraina, percepiamo immediatamente anche un quarto motivo di crisi. Le molteplici ondate migratorie che insistono sui confini europei dipendono quindi dalle diverse crisi nelle regioni più vicine al vecchio continente».
Già il 24 agosto, pertanto, Fischer non dimenticava le molteplici motivazioni che concorrono a spiegare i flussi migratori provenienti sia dalle regioni mediorientali sia dalla Libia che dall’Africa Sub-Sahariana. In quell’occasione, l’ex ministro on aveva mancato inoltre di prendere in considerazione le diverse risposte che i governi europei hanno sinora offerto sulla questione, con i paesi mediterranei (con in testa l’Italia e la Grecia) maggiormente interessati dai flussi via mare e l’Europa centrale ed i Balcani caratterizzati dalle ondate via terra (cui l’Ungheria di Orban sta rispondendo con un volto particolarmente aggressivo, che il capo del governo ungherese giustifica in nome dei problemi interni sul fronte economico e della già ingente presenza di minoranze etniche a partire dai Rom).
Uno dei più importanti filosofi politici contemporanei, Michael Walzer, professore emerito all’Università di Princeton, ha scritto un lungo contributo per Dissent. A magazine of politics and culture (The European Crisis, 11 settembre), in cui lamenta la difficoltà degli Stati europei nel trovare una soluzione adeguata alla crisi dei migranti, per esempio stabilendo di assegnare una quota di rifugiati da ospitare suddivisa per ogni singolo Stato membro, così come richiesto dalla stessa Merkel che ha invitato i partner a riunirsi al più presto in un summit straordinario sulla questione prima della fine della prossima settimana, vale a dire entro il 27 settembre. Ma Walzer si sofferma anche sulla mancanza di volontà dei governi europei di dare una mano a quei paesi che, nello stesso Medio Oriente, stanno cercando di fornire una prima accoglienza ai migranti, come la Giordania ed il Libano: «L’immenso costo di fornire assistenza di breve periodo è ricaduto su paesi quali la Giordania, il Libano e la Turchia, dove alcuni milioni di rifugiati sono ora accampati con ripari di fortuna, cibo, igiene ed assistenza sanitaria di scarsa qualità. Anche se i paesi più ricchi non vogliono che queste persone raggiungano i loro confini, non hanno fatto nulla per aiutarli nei paesi in cui si trovano adesso o non hanno sicuramente fatto abbastanza» sostiene Walzer.
D’altro canto, questa contrarietà della comunità internazionale a fornire una soluzione sta conducendo a un aumento dei racket illeciti che si occupano di traffico di esseri umani, inaccettabili dal punto di vista delle obbligazioni morali verso il rispetto della vita umana quale primo diritto. Aggiunge Michael Walzer: «I passaggi illegali sono ora un grande affare che, così come tutto quello che riguarda l’economia nel nostro mondo neo-liberale producono molti problemi. Si sentono ogni giorno di più storie di ferimenti e atrocità commesse dai trafficanti, anche se questi episodi sembrano non suscitare uno sdegno sufficiente. Senz’altro i flussi migratori non si fermeranno e questa ragione dovrebbe bastare per rendere legali i passaggi di frontiera e per fornire un’assistenza confacente a seconda della ricchezza dei diversi Stati interessati dal fenomeno».
Se quest’ultima opinione non sembra troppo distante dalla presa di posizione della Merkel, invece la soluzione proposta da Walzer appare molto diversa, nel momento in cui egli si sofferma sul rifiuto di differenziare i migranti provenienti dalla Siria o dalla Libia da quelli che provengono dall’Africa sub sahariana, giacché, a dire di Walzer, occorrerebbe un sistema di protettorato internazionale (il filosofo newyorkese parla eloquentemente di un «trusteeship system» in lingua inglese) guidato dalle Nazioni Unite per tutti quei paesi che sembrano al momento incapaci di governarsi da soli. Questo sistema di tutela, nell’ottica di Walzer, dovrebbe apparire non troppo dissimile dalla Società delle Nazioni dell’inizio del secolo scorso o dal protettorato de facto della NATO sul Kosovo: un sistema che, se certamente non sarà capace da solo di fermare i flussi migratori, si proponga almeno di preservare vite umane e di colpire le attività criminali dei cosiddetti “viaggi della disperazione”.
Judy Dempsey, ricercatrice associata della Carnegie Europe Foundation, si concentra sulla svolta di Angela Merkel riguardo alla questione dei rifugiati nel suo articolo Merkel’s refugee crisis scritto per la stessa fondazione di ricerca (14 settembre), ponendo in relazione la recente svolta sui migranti al cambio di rotta che la Merkel decise nel 2011 subito dopo l’incidente nucleare di Fukushima, in Giappone, quando la cancelliera tedesca annunciò che la Germania avrebbe smesso di produrre energia nucleare. Secondo la Dempsey, questi improvvisi cambi di direzione sembrano rendere la Merkel in qualche modo una leader “emotiva” capace di provare sdegno per le più attuali questioni internazionali nel momento in cui esse raggiungono l’apice della crisi: «Merkel era sconvolta da quello che successe a Fukushima. La sua decisione in quella occasione sembra confermare un impeto repentino ed era una decisione molto rischiosa in quanto essa appariva particolarmente diversa rispetto alla reputazione consueta di Angela Merkel incentrata sull’estrema cautela. Possiamo dire lo stesso oggi, riguardo alla sua decisione di aprire le porte della Germania ai rifugiati. Questa non è una decisione tattica, lo testimonia il fatto che è stata accolta in maniera critica anche nello stesso blocco conservatore. Dopotutto la Germania non era affatto preparata a gestire un numero così alto di ingressi e non sembra pronta ad integrare decine di migliaia di nuovi arrivati. Inoltre Merkel non ha informato i propri partner europei: è stata una decisione unilaterale molto simile alla drastica decisione di interrompere la produzione di energia nucleare. Perché allora l’ha fatto? Per compassione» conclude la Dempsey.
Non sembra invece particolarmente influenzato dalle emozioni personali della cancelliera Merkel sulla questione dei rifugiati Geir Moulson nel suo editoriale per il Washington Post Migrant crisis adjusts Merkel’s image, but style unchanged (13 settembre), in cui anche il giornalista si concentra sulla svolta della Merkel da “custode” dell’austerità nel caso della crisi debitoria della Grecia a “eroina” dell’accoglienza. A dire di Moulson, l’intento principale della cancelliera è quello di riaffermare continuamente la propria leadership politica con scelte coraggiose anche quando vanno controcorrente, ma fondate unicamente «su quanto deve essere fatto sia sotto il profilo morale sia sotto quello legale, niente di più e niente di meno» come la stessa Angela Merkel ha recentemente puntualizzato. Nella visione di Moulson, pertanto, le decisioni della Merkel vengono prese sempre dopo aver messo sotto attento scrutinio tutte le opinioni emerse nel dibattito interno all’opinione pubblica tedesca e sempre in seguito ad un periodo di meticolosa riflessione a riprova dello stile politico cauto della cancelliera: «All’inizio pareva che la Merkel fosse recalcitrante ad affrontare la questione dei migranti, mentre molti cittadini tedeschi si davano da fare per fornire una prima accoglienza ai rifugiati. Sembrava che la Merkel se ne stesse in disparte in questa questione scivolosa, ma in realtà stava semplicemente cercando di capire quale fosse il clima politico» scrive Moulson.
Senz’altro la scelta tedesca ha scavato una breccia nel muro di gomma di un’Europa che sembra non vedere quanto la crisi dei migranti abbia radici antiche (specialmente in relazione ai progressi dell’ISIS nel controllo territoriale della Siria e dell’Iraq e nella rimozione del regime di Gheddafi durante la Guerra in Libia, nel 2011): questo porta anche gli altri paesi occidentali a sottoporre ad una nuova critica anche le proprie politiche di accoglienza nei confronti dei migranti. In questo contesto, un commento particolarmente sorprendente proviene dalle pagine di New Republic dove, nel suo articolo America Should Not Help Europe with the Migrant Crisis, Elaine Teng si limita ad osservare come gli Stati Uniti abbiano già speso più del resto del mondo nell’assistenza umanitaria ai cittadini siriani e agli Stati confinanti con la Siria ed auspicando che gli Stati Uniti continuino ad ospitare soltanto i rifugiati con documenti d’identità validi, che in qualche modo possano assicurare che essi non abbiano alcuna affiliazione con i gruppi terroristici come l’ISIS, così come a preferire di rilasciare il permesso di soggiorno a coloro che provengono dall’Estremo Oriente, come nel caso dei cittadini birmani e del Buhutan.
La stampa francese sembra di un avviso più positivo, con lo storico Michel Franza per Le Nouvel Observateur (Crise des migrants: l’Allemagne a retrouvé son autorité, dell’11 settembre) che osserva come, con la propria decisione, la cancelliera Angela Merkel stia confermando l’autorità politica della Germania esattamente nel momento in cui essa converte il volto monetarista dell’Unione Europea, fondato in maniera significativa sulla ‘esclusione’, nel ritorno ad una politica inclusiva fondata invece sulla ‘solidarietà’. Inoltre, Franza aggiunge in maniera polemica come sia ancora la Germania a condurre i giochi della diplomazia europea attraverso la decisione del suo governo nella questione dei migranti e come, al contrario, la Francia sembri lasciata da parte nelle mosse del concerto internazionale. Per questa ragione Franza ritiene necessaria una nuova visione condivisa delle politiche di asilo nell’intera Unione Europea: «L’asse dell’Europa si è già spostato da alcuni anni da Parigi a Berlino e la questione dei rifugiati apre una nuova era per la Germania nell’arena internazionale, dove la Francia sembra rimanere residuale in una gestione sempre meno negoziabile. Il futuro dell’Europa è ad un bivio, ma questa sfida di portata storica richiede delle leader e dei leader politici che abbiano una visione condivisa della storia» nota Franza.
Le Monde appare ancora più incisivo con il suo editoriale La France est-elle toujours une terre d’acqueil? (14 settembre) della giornalista Maryline Baumard che sottolinea come, dopo la storica decisione di Angela Merkel, quest’anno i richiedenti asilo preferiranno fare domanda per un permesso di soggiorno tedesco piuttosto che per uno francese (circa 60.000 migranti arriveranno in Francia contro i circa 800.000 destinati in Germania). Dal punto di vista economico, secondo Baumard, questo è dovuto in larga misura alla percezione della stabilità economica tedesca ed alla sua probabile richiesta di mano d’opera nei decenni a venire, dovuta in gran parte al declino dei tassi di crescita demografica: sono queste le ragioni chiave che, secondo Baumard, animano persone ben educate e che desiderano integrarsi velocemente, come coloro che stanno lasciando la Siria.
Dal punto di vista dell’osservatorio italiano, se il professor Manlio Graziano (Università Sorbona Paris IV) su La Voce di New York nel suo articolo Merkel “la buona” ha capito, l’Europa ha bisogno dei migranti (7 settembre) è d’accordo nel ritrarre la cancelliera Merkel come «l’indiscussa protagonista politica di questa estate 2015» con il suo messaggio teso a riproporre l’idea di un’Europa quale comunità di Stati fondata “sul diritto” (e ricordiamo che il significato della parola “diritto” non è molto diverso ed anzi include la parola “regole”), d’altro canto, Ernesto Galli Della Loggia dalle colonne del Corriere della Sera, nel suo roboante editoriale La memoria tedesca e la svolta di Angela Merkel (7 settembre), giudica la svolta della Merkel come una prosecuzione dell’emblematico gesto del cancelliere Willy Brandt quando, nel dicembre 1970, si inginocchiò davanti al Memoriale delle vittime del ghetto di Varsavia: «Il gesto [della Merkel] chiude il cerchio – osserva Galli Della Loggia – dopo il perdono chiesto allora agli ebrei, alle sue vittime per antonomasia, la Germania oggi addirittura apre le braccia ai reietti della terra, diviene lei una novella Sion per i nuovi perseguitati».
Ma, al di là del punto di vista umanitario, i commenti delle analisi economico-finanziarie, come quelle di Bloomberg o del Financial Times, hanno cominciato ad analizzare la questione dei migranti anche in termini economici, sottolineando come i flussi migratori possano aiutare l’Europa e specialmente la Germania a trasformare questa crisi in una opportunità di sviluppo economico, invertendo il declino demografico e contribuendo a risollevare l’economia con nuove forze di lavoro capaci sul lungo periodo di andare a coprire gli alti costi dei sistemi di welfare europei (si pensi per esempio ai servizi sanitari nazionali e a quelli previdenziali): «I problemi di breve periodo possono trasformarsi in benefici di lungo termine» osserva Pimm Fox giornalista di Bloomberg Business.
L’Europa occidentale rimane un miraggio per molti, affascinati dalle politiche pubbliche fondate sullo stato sociale che i governi europei sono stati capaci di assicurare dopo il Secondo Dopoguerra. Mantenere il rigore sul piano finanziario, da un lato, e rendere ciascun paese responsabile della salvaguardia della vita umana, dall’altro, sembrano nondimeno due facce della stessa medaglia in una Germania intenzionata a preservare il proprio sinora incontrastato primato in Europa, ma attenta al contempo a non negare le lezioni della sua storia.
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