Da Reset-Dialogues on Civilizations
“La crisi migratoria non riguarda luoghi lontani. Sta accadendo proprio davanti a noi. Questa non è una crisi austriaca, ungherese, italiana, francese, tedesca o greca. Si tratta di una crisi europea e richiede una risposta collettiva europea”. Nel commento di Dimitri Avramopolous, Commissario UE all’Immigrazione, al margine dell’agghiacciante ritrovamento di 71 migranti morti asfissiati mentre cercavano di raggiungere il nord Europa stipati in un camion abbandonato al confine tra Austria e Ungheria, marca l’epilogo dell’inconsistente new deal della politica migratoria europea annunciato lo scorso 20 luglio.
Esodo, emergenza, catastrofe, ecatombe. La ridda angosciosa delle parole circolate sulla stampa europea per definire l’ennesima fuga di richiedenti asilo verso l’Europa, restituisce solo in parte le proporzioni del fallimento consumato dalla politica migratoria comunitaria negli ultimi mesi. Dall’inizio di quest’anno il numero di migranti che ha provato a oltrepassare i confini dell’Unione ha superato i 300.000, di cui quasi 200.000 arrivati in Grecia e 110.000 in Italia. Un dato in crescita rispetto ai 219.000 arrivi complessivi registrati nel 2014 che fa luce sull’essenza di questi movimenti migratori. Un flusso composto principalmente da migranti titolari di protezione umanitaria in fuga da guerre, conflitti o persecuzioni. Secondo l’UNHCR, “la stragrande maggioranza degli uomini, donne e bambini che sono arrivati via mare in Italia o in Grecia provenivano dalla Siria, paese i cui cittadini sono quasi universalmente considerati rifugiati o beneficiari di altre forme di protezione. Il secondo e terzo dei principali paesi di provenienza sono l’Afghanistan e l’Eritrea. Anche in questo caso si tratta principalmente di potenziali rifugiati”.
Per capire la dimensione della “più grave crisi di rifugiati dalla seconda guerra mondiale” basta guardare a quanto sta accadendo lungo la rotta del Mediterraneo orientale: il percorso ad ostacoli battuto dai migranti che dalla Turchia sconfinano in Grecia e da qui, attraverso i Balcani, puntano al nord Europa. Nell’ultima settimana di agosto in più di 2.000 sono stati intercettati dalla polizia ungherese mentre attraversavano la frontiera con la Serbia. Arrivi che il 26 agosto, hanno toccato la quota record di 3.241 persone, tra cui 700 bambini, prevalentemente siriani e afghani.
Con numeri come questi non sorprende che il Summit dei Balcani occidentali fortemente voluto dalla cancelliera tedesca Angela Merkel per rilanciare il “processo di Berlino” avviato nel 2014 a sostegno della cooperazione regionale con i paesi balcanici, sia stato letteralmente monopolizzato dal confronto sull’emergenza immigrazione. Un terreno più che scivoloso per i governi est-europei che in coro hanno accusato l’Europa di aver scaricato su di loro l’emergenza umanitaria. In risposta, mentre i ventotto continuano ad arrancare sulla definizione comune di percorsi legali e sicuri verso l’Europa, come i Corridoi Umanitari e le Procedure di Ingresso Protetto, molte cancellerie est-europee hanno scelto di trincerarsi nel protezionismo.
Il muro costruito dall’Ungheria per bloccare i flussi in arrivo dalla Serbia è soltanto l’ultima delle militarizzazioni erette alle frontiere est dell’Unione. Fortificazioni simili esistono lungo il fiume Evros che separa la Grecia dalla Turchia e al confine tra Bulgaria e Turchia. Approccio riprodotto anche dalla Macedonia, che a fronte dei 2.000 ingressi al giorno registrati a Gevgelija, città al confine con la Grecia, il 20 agosto ha dichiarato lo stato d’emergenza e ha schierato l’esercito per fermare i migranti.
La recente sospensione dello stato d’emergenza in Macedonia, non ha, però, fatto rientrare l’allarme. La riapertura della frontiera con la Grecia ha innescato un effetto domino in tutta la regione che ha coinvolto in prima battuta la Serbia visto che per minimizzare i tempi di permanenza dei migranti in Macedonia, il governo ha organizzato il trasporto diretto al confine con autobus e minibus. A Preševo città serba a maggioranza albanese al confine con la Macedonia gli arrivi quotidiani si contano ormai a migliaia. Soltanto nell’ultimo weekend sono stati circa 10 mila i migranti approdati nei due campi profughi allestiti dal governo.
Mentre le cancellerie europee si arrovellano sulla possibilità di costruire nei Balcani un centro di smistamento dei migranti, la Russia, già da metà agosto, sta fornendo al governo serbo assistenza umanitaria tramite il Russian-Serbian Humanitarian Center (RSHC). Ingerenza sottile ma non irrilevante, visto che anche in Serbia – ad oggi il paese meno ostile nel garantire ai migranti in transito il passaggio protetto sul proprio territorio – cominciano a salire i malumori verso il mancato sostegno di Bruxelles. Una negligenza costata cara, visto che la Serbia per ora ha deciso di fare da sé concedendo ai migranti un permesso temporaneo di soggiorno di 72 ore che consente di proseguire verso l’Ungheria, quindi restituendo la pariglia all’Unione.
Come la rotta si modificherà adesso che l’Ungheria ha ultimato il muro di contenimento lungo la frontiera serba, lo si vedrà in un autunno che si annuncia infuocato al punto da spingere il Consiglio Giustizia e Affari Interni dell’Unione ad indire per il prossimo 14 settembre un vertice d’emergenza per discutere il da farsi così come sollecitato dalla cancelliera Merkel, icona del pugno duro, che, a sorpresa, ha rispolverato la clausola di sovranità per sospendere l’accordo di Dublino rinunciando a respingere i migranti siriani verso il paese europeo di primo approdo. Una mossa che ha fatto da apripista alla messa in discussione corale del sistema Dublino e che ha evidenziato, se mai fosse ancora necessario, il chi è dell’egemonia politica europea.
Enza Roberta Petrillo è ricercatrice post-doc presso l’Università La Sapienza di Roma, esperta di politica e geopolitica est-europea, si occupa dell’analisi dei flussi migratori con particolare attenzione al ruolo svolto dalla criminalità organizzata transnazionale nei traffici illeciti transfrontalieri.
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