Da Reset-Dialogues on Civilizations
Nel pomeriggio del 29 Giugno, mentre il Consiglio Supremo della Difesa turco si riuniva sotto la Presidenza del Presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan, i carri armati turchi si schieravano al confine di Oncupinar e Cilevgozu, lo spazio aereo di confine posto sotto costante monitoraggio, l’esercito messo nello stato di massima allerta. Ad appena due giorni di distanza il contingente ha ricevuto rinforzi, aumentando notevolmente il proprio numero di unità; ad entrare in azione 2 diverse brigate di terra a Urfa e Gaziantep con un supporto aereo decollato da Diyarbakir.
Prende sempre più corpo in Turchia l’ipotesi di un piano per penetrare il territorio siriano, obiettivo dichiarato del quale sarebbe la creazione di una‘buffer zone’ lunga 100 e larga tra i 10 e i 15 chilometri. Una zona che permetterebbe, secondo Ankara, non solo di isolare la Turchia da pericoli legati all’avanzata del califfato, ma anche di andare incontro alle enorme crisi umanitaria legata al flusso di rifugiati dalla Siria. Flusso che negli ultimi 4 anni ha portato il numero di siriani attualmente in Turchia a circa 2 milioni.
D’altro canto non può essere certamente un caso che l’escalation che fino ad ora ha spinto Ankara a prendere determinate decisioni sia iniziato all’indomani della battaglia di Tel Abyad, alla fine della quale, lo scorso 16 giugno, le forze curde del Ypg, braccio militare del partito curdo siriano Pyd, hanno sconfitto l’Isis e preso pieno controllo della città.
L’esito della battaglia, sul quale ha certamente pesato il sostegno aereo dato dagli americani, ha scatenato una serie di reazioni da parte di Ankara, che attraverso la bocca di Erdogan ha prima accusato i curdi di “pulizia etnica” nei confronti degli abitanti arabi e turcomanni della provincia di Tel Abyad, definendo poi i combattenti dell’Ypg “veri e propri terroristi” anche perché affiliati ai separatisti curdi del Pkk, in guerra con Ankara dal 1984.
Pochi giorni dopo, lo stesso presidente turco sentenziava che “mai e poi mai avrebbe permesso la creazione di uno stato curdo al confine sud della Turchia”, prospettiva in grado di rinvigorire le istanze indipendentiste dei circa 20 milioni di curdi turchi e spaventare non poco Ankara, nel cui Parlamento i curdi si sono insediati meno di un mese fa. Il partito del popolo e della democrazia, Hdp, considerato l’evoluzione politica del Pkk, ha infatti superato la soglia di sbarramento del 10% e con il 13% dei voti ha ottenuto 80 dei 550 seggi che compongono l’unica camera del Parlamento turco.
L’area eletta da Ankara a teatro delle operazioni militari in corso è quella di Oncupinar/Bab al Hawa e Cilevgozu/Bab al Salam, con una penetrazione da parte dei tank turchi che finirebbe con il ricomprendere un’area che va da Kobane a Jarablus, l’unica provincia a maggioranza araba nella striscia di terra che dalle montagne del Kandil irachene arriva fino ad Afrin rompendo di fatto quello che altrimenti sarebbe un continuum curdo. Da lì in poi uno sbocco sul Mediterraneo, distante poco più di 100 chilometri, costituisce la massima aspirazione cui i curdi possono ambire nella prospettiva di ottenere finalmente la tanto agognata indipendenza.
Se l’esercito turco dovesse occupare realmente la fascia di terra che va da Kobane a Jarablus chiudendo il corridoio che porta ad Afrin, l’idea di creare un continuum tra le aree a maggioranza curda di Iraq e Siria con uno sbocco sul mare, a sud del confine turco rimarrebbe inevitabilmente frustrata.
Ad essere poco entusiasti della prospettiva di un intervento militare dell’esercito turco in Siria sono gli Stati Uniti, consapevoli che frustrerebbe le ambizioni dei curdi, con i quali nel recente passato hanno cooperato a Kobane, Tel Abyad e nel nord ovest dell’Iraq. Ankara, dal canto suo, teme un accordo tra Washington e Damasco per porre fine all’avventura del califfato e stabilire un piano di divisione del territorio siriano che prevederebbe un ‘amministrazione del Pyd nell’area curdo-siriana e presupporrebbe ad una fusione con il Kurdistan iracheno (Krg).
I curdi dal canto loro non possono non considerare gli eventi in corso come la loro grande occasione per fondare uno stato indipendente e dalla loro hanno alcuni dati importanti. Sia nell’Iraq del post Saddam che nella Siria del post Assad, ormai sindaco di Damasco e poco più, hanno dimostrato di essere in grado di garantire stabilità e sicurezza nelle regioni da loro governate. Dall’avvento dell’Isis in poi sono stati capaci di infliggere ai miliziani sonore sconfitte, seppur con l’aiuto dei raid aerei degli alleati americani.
Le motivazioni che risiedono alla base del piano di invasione da parte di Ankara si scontrano però con la riluttanza dei militari, dubbiosi rispetto alla prospettiva di mettere i piedi nel pantano siriano. Più che i tank ad Ankara in questo momento manca una saldatura tra politica, esercito e diplomazia tale da mettere il Paese al riparo dalle numerose incognite che una operazione del genere presuppone, considerando che oltre agli Usa sono in gioco interessi (e armi) di Iran e Russia. Ankara insomma, se davvero dovesse muovere le sue truppe all’interno del confine siriano si assumerebbe una quantità enorme di rischi in nome di una scelta in fin dei conti politica.
L’elezione dello speaker del Parlamento turco del 1 luglio, terminata alla quarta sessione, è stata caratterizzata dall’impossibilità di trovare una qualsiasi forma di accordo, con i partiti compatti fino all’ultimo al fianco dei propri candidati e votazioni che si sono discostate poco o nulla dalla composizione parlamentare come risultata dalle elezioni dello scorso 7 giugno. La difficoltà a dialogare per la ricerca di una sintesi politica, stride con i 45 giorni che la Costituzione turca prevede per la formazione di una coalizione di governo che eviterebbe il ritorno alle urne.
Erdogan ha visto il suo partito perdere la maggioranza assoluta dei seggi per la prima volta in 13 anni, i curdi entrare in Parlamento e di conseguenza sfumare la possibilità di realizzare il proprio progetto presidenzialista che gli avrebbe consentito di svincolarsi da poteri protocollari acquisendo poteri e competenze di carattere esecutivo.
In questo momento Ankara si trova tra due fuochi, e decisive saranno le prossime tre settimane. Da un lato ci sono i timori legati alla prospettiva della nascita di un’entità statale curda, dall’altro l’assenza di un governo capace di assumere su di se le responsabilità di una scelta destinata a pesare sulla già incerta sorte del conflitto in quella che una volta si chiamava Siria.
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