Da Reset-Dialogues on Civilizations
In America, anche se non tutti i potenziali candidati sono scesi formalmente in campo, la campagna elettorale per le prossime presidenziali è di fatto già iniziata.
Sebbene tradizionalmente le biografie e l’aspetto dei candidati siano considerati più importanti della loro piattaforma politica, si parla anche di programmi, pur con tutte le reticenze e le ambiguità prodotte dalla necessità di ottenere la “nomination” del proprio partito facendo appello a un consenso ampio e quindi necessariamente generico.
Invece di sforzarsi di estrarre indicazioni politico-programmatiche da interventi quasi sempre caratterizzati da una poco illuminante cautela, sembra quindi forse molto più interessante capire quali siano gli umori di fondo dell’elettorato – umori di fondo ai quali i candidati, una volta ottenuta la nomina, dovrebbero cercare di rispondere.
Soprattutto ci si può chiedere fino a che punto, come effetto della lunga crisi economica (da cui l’America sta uscendo, ma in modo ancora parziale) si sia indebolita l’egemonia ideologica neoliberista, che nel Partito Repubblicano si è combinata con l’estrema radicalizzazione conservatrice del “Tea Party”. Una svolta di lunga durata, visto che se ne possono far risalire le origini al reaganismo, e che ha prodotto ormai da anni uno spostamento a destra del centro politico, tanto che non sono pochi, negli Stati Uniti, che considerano il progressista moderato Barack Obama come un pericoloso sinistrorso, e che la definizione di “liberal” viene attentamente evitata anche da chi lo è effettivamente.
Ebbene, a giudicare dai risultati di alcuni recenti sondaggi di opinione (effettuati congiuntamente da New York Times e CBS), risulterebbe che l’elettorato americano respinga maggioritariamente alcuni fra gli elementi più qualificanti dell’ideologia di radicalismo conservatore e neoliberista che ha affermato ormai da anni la propria egemonia nella politica americana.
Colpiscono, e fanno riflettere, risultati come i seguenti: il 61 per cento degli intervistati ritiene che in America il privilegio prevalga sulla meritocrazia e non vi sia mobilità sociale (i due dogmi fondamentali su cui si è sempre fondato il “sogno americano”); il 66 per cento che la ricchezza non sia giustamente distribuita; il 67 per cento che le disuguaglianze stiano aumentando; il 71 per cento che vada aumentato il salario minimo federale; il 68 per cento che si debbano aumentare le tasse a chi guadagna più di un milione di dollari l’anno. Vi è di più: un altro sondaggio fa emergere che l’84 per cento degli americani è convinto che il denaro abbia un’influenza eccessiva sulle elezioni, mentre il 54 per cento contesta l’interpretazione della Corte Suprema secondo cui non si potrebbero imporre limiti alle donazioni elettorali in quanto si tratterebbe di una forma di “libertà di parola” tutelata dalla Costituzione.
Risultati clamorosi, che farebbero immaginare che l’elettorato americano sarebbe pronto a salutare una svolta progressista ben più incisiva di quella del cauto Obama. Anzi, verrebbe da dire che gli americani erano di sinistra e non lo sapevano.
Invece è assai poco probabile che questo avvenga. I Repubblicani nomineranno probabilmente un Jeb Bush che sta cercando di correggere una reputazione (immeritata, va detto) di essere troppo moderato, e si impegna nel rafforzare le proprie credenziali conservatrici, e i Democratici non nomineranno certamente Bernie Sanders – il “socialdemocratico confesso” del Vermont, che pure non da oggi è esplicito e isolato sostenitore delle tesi progressiste che sembrano prevalere nell’opinione pubblica – ma una Hillary Clinton che certo non oserebbe mettere la propria firma sotto i risultati di quei sondaggi. A proposito di Hillary, i commentatori scrivono in questi giorni che la sua campagna elettorale si concentrerà sulle tradizionali zone democratiche piuttosto che puntare a conquistare elettori indipendenti, e ne ricavano la conclusione che la sua sarà una campagna di impostazione “liberal”. Ma sarebbe bene non aspettarsi che l’aspirante Presidente abbia l’intenzione di affrontare le tematiche socio-economiche che evidentemente per la maggioranza degli americani rivestono una grande importanza e in relazione alle quali prevalgono posizioni nettamente critiche del sistema attuale. Non se lo aspettano nemmeno i commentatori che prevedono una sua campagna di impostazione “liberal”, ma che prevedano (leggiamo quello che scrive il New York Times) “posizioni progressiste sui diritti gay, l’immigrazione, la giustizia penale, il diritto al voto”. Hillary Clinton non farà quindi una campagna elettorale su posizioni di critica di un sistema economico sempre più caratterizzato dalla disuguaglianza e di una politica in cui il denaro ha un peso determinante. Oggi il “liberal” americano – fra l’altro minoritario nella cultura politica del Paese – parla di razza, di diritti gay, di ambiente – ma non di giustizia sociale, disuguaglianza, degenerazione plutocratica.
Le ragioni non sono misteriose. In primo luogo le masse votano, ma le élites economiche hanno una “golden share” nella politica: basti pensare che eleggere un membro della Camera dei Rappresentanti costa in media, 1,7 milioni di dollari, e un senatore 10 milioni, e che si è calcolato che come conseguenza i politici americani impegnano da un terzo alla metà del proprio lavoro nella raccolta di fondi.
Ma vi è anche una ragione politica. Se è vero che il 65 per cento degli intervistati ritiene che si debba “fare qualcosa” per ridurre le disuguaglianze, quando si chiede se ci debba essere un ruolo dello Stato nel perseguire questo risultato le risposte affermative scendono al 57 per cento e, cosa più significativa, si apre una forte divaricazione fra le risposte degli elettori repubblicani (solo un terzo a favore) e quelle degli elettori democratici (80 per cento a favore).
Ecco il vero punto su cui fa perno l’egemonia conservatrice negli Stati Uniti: il ruolo dello Stato, considerato da parte di molti americani – quelli che compongono il grosso dell’elettorato repubblicano, ma anche una fetta di quello democratico – un pericolo, una minaccia alle libertà individuali, una necessità purtroppo da sopportare (soprattutto per le sue funzioni militari e di polizia) ma da limitare al massimo.
Ruolo del denaro e radicato pregiudizio antistatale. Al di là degli umori dell’elettorato che si riflettono nei sondaggi, una svolta progressista in America non è per domani.
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L’analisi di Toscano è lucida e argomentata. Il suo scetticismo rispetto ad ipotesi di cambiamenti rilevanti del tutto giustificato dal perimetro e dalle regole di gioco.
Sarebbe tuttavia interessante un suo secondo intervento sulle dinamiche culturali, sociali, etniche e demografiche degli elettori che scenderanno in campo.
Poiché solo dall’ intensità del loro protagonismo sembra possibile immaginare una rivitalizzazione del sistema politico statunitense.