Da Reset-Dialogues on Civilizations
Per le strade di Istanbul sembra di essere alla vigilia di un’elezione democratica qualunque, con bandiere variopinte e manifesti di oltre sei partiti, ciascuno dei quali spera di oltrepassare la soglia del 10 per cento che serve per aggiudicarsi i seggi in seno all’Assemblea Nazionale. Ma recandosi alle urne, questa domenica, i turchi decideranno se accelerare o se invece porre un freno al processo che sta portando la novantatreenne repubblica a distanziarsi sempre più dall’ideale di entità statale laica, democratica e orientata all’Occidente proprio del suo fondatore Kemal Atatürk per andare nella direzione di un regime più autoritario e neo-Ottomano al quale il presidente Recep Tayyip Erdoğan e il partito di governo, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP), preparano alacremente il terreno da anni. Queste elezioni sono altrettanto decisive delle proteste di Gezi Park che per prime hanno instillato una consapevolezza in milioni di cittadini turchi e che hanno rappresentato l’innesco di ulteriori moti in gran parte del resto del Paese.
Per quanto si preveda un calo dell’AKP in termini di punti percentuali, pare inevitabile che esso continui a controllare il Paese. Gettando alle ortiche la neutralità che ci si aspetterebbe da un Presidente della Repubblica, Erdoğan è in lizza come capolista del partito, circostanza che genera una sempre maggiore sovrapposizione tra cariche istituzionali e struttura partitica. Malgrado appaia improbabile che l’AKP conquisti seggi sufficienti a spingere per l’approvazione di un emendamento costituzionale volto a trasformare la Turchia da repubblica parlamentare a repubblica presidenziale, la nazione corre comunque il rischio di entrare in una nuova era di presidenzialismo sfrenato.
Il 30 maggio, nell’ambito di una manifestazione indetta dall’AKP, decine di migliaia di persone si sono date appuntamento a Istanbul per festeggiare il 562esimo anniversario della conquista della città ad opera di Fatih Sultan Mehmet, nel 1453. Alcuni dei manifesti elettorali di Erdoğan lo presentano come virtuale erede del sultano, decantando la rinascita di cui il Paese è stato protagonista sotto la sua leadership. E la preghiera musulmana Namaz del Grande Imam della Mecca si è conclusa con una supplica per l’islamizzazione dell’“Hagia Sophia”.
Nel caso poi ancora qualcuno si fosse perso le aspirazioni di Erdoğan a porsi non solo come erede di Fatih il Conquistatore di Istanbul ma forse anche come nuovo Califfo di tutti i musulmani, alla cerimonia di inaugurazione di un aeroporto nella città sudorientale di Hakkȃri, all’estremo confine turco con la Siria e l’Iran, il premier ha promesso di portare avanti la missione di “Saladino il conquistatore”, che a suo tempo aveva liberato Gerusalemme dai crociati cristiani facendo voto di renderla di nuovo una città musulmana.
L’AKP è così determinato a reindirizzare la Turchia verso la legge islamica e a farle abbandonare l’idea dei pari diritti delle donne strenuamente difesa dalla repubblica di Atatürk che recentemente una maggioranza della Corte Costituzionale (molti dei cui membri sono stati nominati dall’ex presidente Abdullah Gül e dallo stesso Erdoğan) ha riconosciuto valore legale ai matrimoni celebrati da autorità religiose, abrogando la legge della Repubblica secondo cui tali unioni andrebbero prima officiate da un funzionario civile. La vaghezza della nuova normativa dà adito alla preoccupazione che sotto la legge islamica i fenomeni della poligamia e delle spose bambine possano aumentare. Oltretutto nei casi di matrimoni officiati con rito religioso non è chiaro come ci si possa regolare nelle eventualità di divorzio, alimenti ed eredità. È possibile che a casistiche del genere venga applicata la Shari’a islamica e che dunque essa penetri dalla porta di servizio nel sistema del diritto turco?
Gli occhi di tutti sono puntati sull’Halklarin Democratic Partisi (HDP, il Partito Democratico dei Popoli) e sul suo carismatico leader Selahattin Demirtaş. Nato come costola dell’ex movimento separatista curdo, l’HDP promuove oggi la riconciliazione tra curdi e turchi. Al vaglio di intellettuali e analisti politici ci sono proposte che spaziano dalla creazione nelle province curde di regioni autonome democratiche a varie forme di federalismo e gestione più condivisa dei poteri. Un po’ come il Partito Nazionalista Scozzese e Podemos in Spagna, anche l’HDP sta riconvertendo le proprie originarie aspirazioni separatiste in una critica dello status quo. Nella sua agenda figurano i temi delle donne, della giustizia sociale, dei diritti civili delle minoranze etniche, linguistiche e sessuali e dell’occupazione giovanile.
Molti temono che nell’eventualità l’HDP non riesca a superare la soglia del 10%, nelle regioni curde della Turchia possano scoppiare disordini. Altri sperano che grazie al suo ingresso nell’Assemblea Nazionale questo partito possa mettere in qualche misura un freno alle spinte dell’AKP a favore di un cambiamento costituzionale che sfoci nel presidenzialismo. Tuttavia c’è anche la preoccupazione che in virtù del parziale riconoscimento dei diritti culturali dei curdi operato negli ultimi dieci anni, l’AKP possa stringere un qualche accordo con le fazioni interne all’HDP ancora fedeli al leader carismatico del movimento separatista, attualmente in carcere, Abdullah Öcalan.
Per l’AKP, all’orizzonte, si profilano due gatte da pelare. Malgrado il ritmo impressionante di crescita economica, che ha proiettato la Turchia tra le prime 20 economie al mondo, con un reddito pro capite di quasi 20 mila dollari nel 2013, il processo di costruzione del Paese si configura come una bolla non dissimile da quella che ha caratterizzato Irlanda e Spagna nei loro cicli di boom e recessione degli ultimi decenni. Il valore della lira turca rispetto al dollaro è sceso, il che è un bene per il turismo e le esportazioni ma un male per la bilancia dei pagamenti e il debito estero. Così come l’ascesa delle cosiddette tigri asiatiche, a cui la Turchia si paragona, è arrivata a un punto morto, allo stesso modo anche l’economia turca potrebbe subire un rallentamento. E in un Paese con un tasso ufficiale di disoccupazione pari al 9 per cento ciò non depone affatto bene per il mercato del lavoro.
Malgrado tutte le aspre divisioni circa la svolta islamista della Turchia, è comunque abbastanza condivisa la preoccupazione per la politica estera dell’AKP. Tutte le principali arterie stradali e vie laterali di Istanbul sono piene zeppe di donne rifugiate e bambini siriani che si accostano alle macchine chiedendo l’elemosina ad autisti e passeggeri. Durante un giro nel distretto di Beyoğlu ho chiesto al conducente cosa stesse accadendo. La sua risposta è stata: “Sono i bastardi di Erdoğan!” Le sue parole mi hanno colta alla sprovvista, ma poi mi ha spiegato che si trattava di rifugiati siriani ammessi dal governo. Per quanto la maggior parte della popolazione turca appoggi lo sforzo straordinario messo in atto dal governo per trovare una sistemazione ai rifugiati dalla Siria – al momento pare che nel Paese ce ne siano due milioni, parecchi dei quali non registrati dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati – molti si preoccupano anche della disoccupazione, del sovraffollamento, del potenziale aumento dei piccoli furti e della criminalità. Al di fuori dei campi profughi ufficiali i servizi sociali, scolastici e sanitari a disposizione dei rifugiati sono minimi. E a rendere nervosa la popolazione non è solo la situazione dei profughi, ma anche l’ingerenza del governo turco negli affari della Siria, la sua ostilità ad Assad, il suo persistente appoggio all’ISIS o Daesh che sta prendendo sempre più piede nella regione.
Molti turchi, sia laici che credenti, sono cresciuti con la storia della tragica fine dell’Impero Ottomano, dell’odio che ha portato le popolazioni un tempo a esso soggette nei Balcani e in Medio Oriente a rivoltarglisi contro, e della quasi scomparsa di una penisola terra dei turchi a seguito delle spartizioni e occupazioni alla fine della Prima Guerra mondiale. La politica di cautela, improntata al non volersi immischiare in troppe avventure all’estero, ha indotto la Turchia in occasione dell’invasione statunitense dell’Iraq, nel 2003, a negare agli alleati americani l’utilizzo della base aerea di Adana. Tutta questa prudenza è stata buttata alle ortiche dalla politica di governo del nuovo Medio Oriente.
Dopo 14 anni di governo dell’AKP, l’elettorato turco – ben al di là di coloro che hanno preso parte a Gezi Park – ha ragione a temere la deriva generale presa dal partito. Ma tutta quest’apprensione basterà a convincerlo a tirare il freno a mano alla galoppante ambizione di Erdoğan e del suo entourage?
Traduzione di Chiara Rizzo
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