Da Reset-Dialogues on Civilizations
Sono passati settant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale e a Mosca, tenuto conto della cifra tonda, si faranno le cose in grande. Nel corso della consueta parata militare sulla Piazza Rossa del 9 maggio, giorno in cui i russi celebrano l’esito vittorioso della “grande guerra patriottica”, sfileranno 15mila soldati.
Oltre che dagli stivali delle truppe, il pavimento della grande spianata moscovita verrà sollecitato anche dal passaggio di pezzi d’artiglieria, blindati, missili e tank. Compreso il T-14 Armata. È un nuovo modello di carro, molto all’avanguardia, che verrà presentato ufficialmente proprio il 9 maggio. A oggi non sono circolate foto del mezzo, se non una pubblicata sul sito della Difesa russa. Non ne mostrava però la torretta, caricando ulteriormente l’attesa in vista di questo sfoggio di grandeur. Peccato che i pesi massimi della politica occidentale non lo vedranno in diretta. Non andranno a Mosca. I tempi molto turbolenti che corrono, incisi dalla grande crisi ucraina, hanno sconsigliato la sortita.
L’Europa centrale stretta nel mezzo
Tra i politici europei che dovrebbero fare eccezione ci saranno i soli Nicos Anastasiades e Alexis Tsipras, il presidente cipriota e il primo ministro greco. Avrebbe dovuto assistere alla parata militare anche il capo dello stato ceco, Milos Zeman, che già da tempo ha annunciato il viaggio a Mosca. Alla fine ha scelto di deporre simbolicamente una corona di fiori, prima di togliere il disturbo e recarsi a un bilaterale con il primo ministro slovacco Robert Fico. Anch’egli sarà nella capitale russa ma, come Zeman, non osserverà il trambusto di uomini e mezzi. Almeno così ha annunciato l’ufficio stampa del presidente ceco, facendo trapelare i piani di Fico.
La vicenda ha creato qualche imbarazzo con Bratislava, anche se è nulla a confronto dell’incredibile scontro diplomatico scoppiato tra Zeman e Andrew Shapiro, il rappresentante americano a Praga. Costui, dal piccolo schermo ceco, aveva definito inelegante la presenza alla cerimonia del 9 maggio del capo dello stato. Il quale ha reagito con rabbia, facendo spiegare al suo portavoce che d’ora in poi l’ambasciatore statunitense potrà entrare al Castello di Praga (sede della presidenza) solo in occasione di cerimonie ufficiali, ma non avrà modo di chiedere udienza al suo inquilino.
Un altro politico dell’Europa centrale, il primo ministro ungherese Viktor Orban, ha avuto qualche recente grattacapo con la diplomazia americana, che non ha lesinato critiche verso le politiche portate avanti dall’Ungheria, ritenute non del tutto compatibili con i valori democratici e troppo orientate, soprattutto in questo momento, ai buoni rapporti con la Russia. Mosca fornisce a Budapest molta energia. Ha investito sull’ammodernamento del nucleare magiaro. I rapporti commerciali sono consistenti. Orban non vuole sacrificare tutto questo sull’altare della causa ucraina, benché si sia adeguato alle sanzioni varate dall’Ue nei confronti di Mosca e al dispiegamento di una forza rapida a Est, voluta dalla Nato.
Il punto, in Ungheria e nel resto dell’Europa centrale, è proprio questo. Interscambio, investimenti, energia: le relazioni con la Russia sono fitte, ovunque. Talmente fitte che a volte il portato scivoloso della storia passa in secondo piano. Ci si riferisce ai ricordi della lunga stagione comunista, propiziata dall’avanzata dell’Armata rossa da Stalingrado a Berlino. La tesi più gettonata è che quello fu il primo atto dell’assoggettamento a Mosca, terminato solo con le rivoluzioni pacifiche del 1989. Ma non tutti esprimono giudizi così trancianti. Zeman e Fico ne sono un esempio. Alla Russia riconoscono un ruolo chiave nella fine del nazifascismo, al di là di tutto ciò che è accaduto in seguito. È anche questo, assieme all’esigenza di non bruciare i rapporti economici, il motivo della loro trasferta “zoppa” a Mosca.
Baltici e la Polonia, a ogni modo, stanno seguendo una strada diversa. Si sono schierati senza indugi con la rivoluzione ucraina, sostenendo la linea dura verso il Cremlino e suggerendo al resto d’Europa di assumere posture ancora più muscolari. Quanto al 9 maggio, la presenza a Mosca dei capi di stato e di governo di Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania è stata scartata categoricamente. Si incontreranno tutti a Danzica, il giorno prima. Con loro ci saranno molti personaggi di rango della politica europea. L’iniziativa è stata voluta dal presidente polacco Bronislaw Komorowski e benché sia noto che sull’anniversario della fine della guerra le date dell’ovest e dell’est non coincidono (la Germania firmò l’armistizio quando a Mosca era già il 9 maggio), mai prima d’ora il gotha europeo aveva disertato in massa la Piazza Rossa, ritrovandosi altrove. La vertenza ucraina ha provocato uno scisma molto violento.
Tutti a Danzica
Danzica, amministrata dalla Società delle Nazioni tra le due guerre, ma reclamata con prepotenza da Hitler, è la città dove il primo settembre del 1939 il Terzo Reich cominciò l’operazione di conquista e annientamento della Polonia. Fu il primo atto del secondo conflitto mondiale. Gli scontri infuriarono alla penisola della Westerplatte, l’ultimo lembo di terra dove le acque della Vistola sbattono prima di consegnarsi al Baltico. Più a est, pochi giorni dopo, le truppe sovietiche oltrepassarono la frontiera con la Polonia, occupandone sulla base del patto Ribbentrop-Molotov il versante orientale. Quelle terre, oggi spalmate tra Ucraina, Bielorussia e Lituania, non vennero più restituite.
La città ha anche un altro importante significato. È il luogo dove nel 1980 è nata Solidarnosc, la grande organizzazione politico-sindacale che diede il via all’affrancamento della Polonia dal gioco del comunismo moscovita. Un momento catartico che non si limita alla sola Polonia. Fu decisivo per tutto l’Est.
I conti, allora, tornano. Danzica assume una doppia simbologia. Esprime l’orrore dell’aggressione nazista, della sfida lanciata da Hitler all’Europa. Ma è anche la fonte della liberazione dell’Est da Mosca e ricorda che quest’ultima, all’inizio della seconda guerra mondiale, sviluppò una politica non proprio immacolata verso il suo vicino. L’anniversario di settant’anni fa si coniuga dunque con un messaggio chiaro che Varsavia e l’Europa consegnano alla Russia, ritenuta la principale colpevole della guerra in Ucraina. Mosca ha gridato alla manipolazione della storia, ma tant’è.
Ci sarebbe poi un altro discorso legato alle celebrazioni di Danzica. Il fatto è che due giorni dopo, il 10 maggio, Komorowski cerca la rielezione. E la retorica sul revanscismo russo può tornare utile in chiave elettorale. Anche in vista dell’altro importante appuntamento con le urne di quest’anno: le legislative di ottobre. Il partito di governo, la Piattaforma civica (Po), di cui Komorowski è esponente, non intende lasciare a Diritto e Giustizia (PiS), il monopolio delle menate contro la Russia e della causa dell’indipendenza ucraina.
E infine, volendo chiosare, si può sottolineare un’altra valenza che nel corso degli anni Danzica ha assunto. La città baltica, per ovvie ragioni, è assurta a pilastro del processo di riconciliazione tra Polonia e Germania. In diverse occasioni la cancelliera tedesca Angela Merkel s’è incontrata in riva al Baltico con l’ex primo ministro polacco Donald Tusk, oggi presidente del Consiglio europeo. Tra loro s’è instaurata un’ottima chimica. L’8 maggio Merkel sarà ancora una volta a Danzica. Il 9 maggio salterà l’appuntamento di Mosca. Ci andrà il 10, e incontrerà Putin. Il senso di questo calendario non è difficile da decodificare. Berlino, anche a costo di rimetterci economicamente, considerate qualità e quantità delle relazioni commerciali con Mosca, non ha intenzione di mostrarsi cedevole. Ma la speranza che il dialogo con il Cremlino non si spezzi permane, anche perché altrimenti, isolando del tutto Putin, l’Ucraina può scomparire. E in questo senso, se la Polonia gioca all’attacco la Germania prova a indossare i panni dell’arbitro.
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