In Israele vi è un noto detto che si applica a tutto: “’ein brera”, non vi è scelta. Gli israeliani fanno riferimento a questa saggezza popolare ogniqualvolta non hanno una risposta esatta o una spiegazione per le cose che vanno male nel loro Paese e che sembrano fuori dal loro controllo, né suscettibili di modifica nel breve o medio termine. “’Ein brera” è il commento che accompagna, con un’alzata di spalle, le grandi questioni politiche tra cui Israele si dibatte e da cui si sente inesorabilmente schiacciato, senza che all’orizzonte si profili mai una soluzione: l’aumento demografico dei palestinesi, il loro diritto al ritorno, le guerre che Israele combatte periodicamente con i propri vicini arabi e, adesso, anche il dibattito sul nucleare iraniano. “Ein brera” è il motto strumentalizzato oltre ogni ragionevole limite da una parte politica che considera Israele irrimediabilmente oscillante tra i crematori di Auschwitz e la guerra con i propri vicini e che pensa che i giovani israeliani debbano conoscere i campi di sterminio in Germania e Polonia per poi fare ritorno nel loro Paese sapendo che non vi è altra alternativa che combattere.
Di fronte alle sfide esistenziali a cui il Paese è confrontato sembra che non vi siano scelte politiche razionali, ma solo la necessità di stringersi attorno ai simboli della resistenza e dell’unità nazionale, emblemi della perseveranza di un popolo straordinariamente attaccato alla propria sopravvivenza.
La vittoria del Likud e di Netanyahu nelle elezioni per la 34esima Knesset ha seguito fedelmente questo tracciato e si è giocata non tanto sulla minaccia nucleare iraniana – percepita dai più come un pericolo reale, ma non imminente – quanto sulla paura esistenziale della società israeliana di vedersi minare dall’interno: da un’accresciuta presenza dei palestinesi e dei palestinesi d’Israele sulla scena politica del Paese, ma anche dalle divisioni etniche interne tra “progressisti” (gli ashkenaziti: laici, liberal ed economicamente privilegiati) e i tradizionalisti (sefarditi, ebrei originari dei Paesi islamici, russi di recente conversione, etiopi di pelle scura, ultraortodossi ripiegati su sé stessi e nazionalisti religiosi). Il Likud ha saputo magistralmente cavalcare il timore delle divisioni interne, ribadendo un messaggio di unità nazionale che in Israele si identifica maggiormente con la Destra, religiosa o laica che sia, legata al territorio e ai simboli religiosi, più che ad un’agenda politica definita.
Nel dicembre 2014 Netanyahu aveva deciso di andare a nuove elezioni per ottenere un governo più stabile e compatto, epurato degli elementi di centro (Livni) e centro-sinistra (Lapid), ottenendo così carta bianca per la sua partita diplomatica sul nucleare iraniano al Congresso USA. Ora, dopo il parziale fallimento della sua demarche diplomatica oltreoceano, è costretto a confrontarsi con il suo successo in politica interna e i problemi posti da una possibile coalizione di destra: in primis, le ingenti somme che il nuovo governo dovrà raccogliere per finanziare contemporaneamente la costruzione di nuove colonie, il contenimento delle tasse per la media borghesia, l’aumento del budget per l’esercito (IDF) e dell’assistenza sociale alle famiglie bisognose delle comunità ultraortodosse (haredi). Se il quarto governo Netanyahu, così come sembra profilarsi all’orizzonte dalle consultazioni che hanno luogo in questi giorni, appare infatti estremamente compatto e coerente dal punto di vista ideologico, le scelte budgetarie e diplomatiche emergono come il vero terreno di sfida.
La coalizione di destra potrebbe assicurarsi fin da domani una facile maggioranza di 67 seggi, unendo le forze di Likud (destra), Israel Beitenu (“Israele siamo noi”, partito dei russi, destra laica), ha-Bait ha-yehoudi (la Casa ebraica, destra nazional-religiosa), partiti ultraortodossi –sia ashkenaziti (Partito della Torah Unito) che sefarditi (Shas) – e infine Kulanu (Noi tutti), il partito dei ceti medi (destra moderata). Tuttavia, questa coalizione di sei partiti appare animata da obiettivi politici diversi nel medio termine: se per Kulanu lo scopo della sua presenza al Governo è quello di dirigere l’agenda economica del Paese verso un drastico ridimensionamento della tassazione pubblica ed un suo ri-orientamento a favore dei ceti medi, la “Casa ebraica” di Naftali Bennet propone piuttosto di espandere la costruzione di nuovi insediamenti in Cisgiordania per risolvere la crisi abitativa all’interno della Linea Verde senza rimodulare le tasse e l’agenda, da sempre invariata, dei partiti ultraortodossi è quella di espandere continuamente la spesa pubblica per sovvenzionare il loro circuito scolastico indipendente e l’assistenza sociale alle famiglie bisognose con tanti figli. Per attrarli all’interno della coalizione Netanyahu ha già promesso loro un incremento nell’importo delle allocazioni familiari e 500 milioni di NIS (SHEKEL) di aiuti extra per l’istruzione, nonché la blocco dell’IVA al 18% su tutti i principali generi alimentari: una manovra complessivamente di circa 1.2 miliardi di euro all’anno.
Le grandi questioni regionali restano, infine, sempre sullo sfondo nella definizione del nuovo Governo. I partiti come Kulanu, che giocano sul fronte interno e si concentrano sulle riforme politiche e sociali, non esprimono opinioni marcate in politica estera, al di fuori di un cauto sostegno all’establishment militare ed alla sua preparazione a far fronte alle sfide strategiche regionali, mentre i partiti ultraortodossi badano solo alla gestione dei propri affari interni e al controllo di alcuni ministeri-chiave come Interni, Istruzione, Sanità, Costruzioni ed Alloggi. Al contrario, altri partiti della coalizione, come la Casa ebraica e Israele siamo noi (Israel Beitenu), sono molto più espliciti nella loro denuncia dell’accordo internazionale sul nucleare iraniano, sul presunto tradimento dell’Amministrazione Obama e sulla Quarta colonna che i Palestinesi rappresentano per l’infiltrazione dell’ISIS e di al-Qaeda in Israele. In un eventuale governo di destra, in cui presumibilmente a guidare la Difesa rimarrebbe l’attuale Ministro Ya’alon e agli Esteri o Lieberman o Bennet, le già tese relazioni diplomatiche con gli Stati Uniti si acuirebbero ulteriormente, proprio nei mesi più sensibili per i negoziati sul nucleare iraniano in vista dell’accordo definitivo del prossimo giugno.
Infine, in un futuro compatto Governo nazionalista così tanto agognato da Netanyahu, la diffidenza con gli arabi, sia i Palestinesi interni che l’ANP nei Territori, aumenterà fino a scavare un fossato di distanza e di incomunicabilità tra i due gruppi, nonostante la “Lista araba unita” rappresenti il terzo blocco e la prima forza di opposizione all’interno del nuovo Parlamento (Knesset). Il vilipendio costante degli arabi e la loro bollatura come “nemici interni”, pagante durante le elezioni, si potrebbe rivelare uno strumento controproducente nell’amministrazione del Paese e per la tenuta del Governo, che necessita di una buona collaborazione dell’ANP in materia di sicurezza e di un contenimento di ogni potenziale “intifada” interna. Misure come il congelamento delle tasse palestinesi, la sospensione periodica dell’elettricità ai Territori per le fatture evase e altre puerili ritorsioni della fattispecie, collaudate nel corso della campagna elettorale, si potrebbero rivelare un’arma a doppio taglio qualora la disillusione degli arabi sul nuovo governo israeliano si rivelasse definitiva.
Netanyahu potrebbe dunque trovarsi con un governo fin troppo “a sua immagine e somiglianza”: un governo sostanzialmente stabile, se pure con qualche crescente problema finanziario, ma completamente disconnesso dalla realtà regionale e ostracizzato dalla comunità internazionale. Prova generale del sentire popolare che circonda la nomina ufficiale del Quarto Governo Netanyahu è già una manifestazione minore come l’indizione della prima “Maratona biblica” in Cisgiordania il 9 aprile: un piccolo gesto di euforia collettiva e tracotanza nazionalista, a cui probabilmente assisteremo sempre più frequentemente nei prossimi quattro anni.
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