Guerra e occupazione, amori proibiti, abbandono: non mancano di certo gli ingredienti della drammatica storia d’amore in Suite francese, film portato ora sul grande schermo dal regista e sceneggiatore nonché documentarista britannico Saul Dibb, già autore nel 2008 di La duchessa. Tratto dall’omonimo romanzo capolavoro (edito da Adelphi e Newton Compton), di Irène Nèmirovsky – scrittrice ucraina di origine ebraica – pubblicato nel 2004, sessant’anni e più dopo la morte dell’autrice, il film ha inteso concentrare l’attenzione sul senso della guerra raccontata dal punto di vista di un civile, e di una donna in particolare.
Ambientato nella Francia del 1941, a pochi mesi dai primi bombardamenti su Parigi nella Seconda guerra mondiale, Suite francese narra la storia della bella, timida e riservata Lucile Angellier, interpretata da Michelle Williams e che, nell’attesa di ricevere notizie del mai amato e fedifrago marito Gaston prigioniero di guerra, vive in una lussuosa dimora a Bussy, cittadina di provincia a est di Parigi insieme alla dispotica e prepotente suocera (Kristin Scott Thomas). La sua vita subirà una scossa non appena i parigini in fuga si rifugeranno a Bussy, che di lì a pochi giorni sarà invasa anche dai soldati tedeschi.
Un evento traumatico, certo, che le farà però incontrare Bruno (Matthias Schonaerts) raffinato e fascinoso ufficiale tedesco assegnato alla loro abitazione. Per quanto Lucile tenti di ignorare la sua presenza, ben presto la passione irrefrenabile che si scatena fra i due – nata al suono della musica di “Dolce”, dal titolo del secondo e più corposo racconto del volume di Irène Némirovsky, composta da Alexander Desplat, suonata dall’ufficiale sul pianoforte di famiglia – darà luogo a un amore impossibile e proibito.
“Sono stato affascinato dal libro, che non parla soltanto della Francia occupata, ma ha un valore universale, perché illustra le reazioni delle persone in un Paese occupato dal nemico”, spiega il regista. Intorno agli amanti e alla suocera, nel villaggio, si è smesso di considerare i soldati tedeschi come nemici: “da lungo tempo il paese mancava di uomini, cosicché perfino gli invasori parevano al posto giusto”. Questi lo intuivano e si crogiolavano beatamente al sole, e se le madri dei prigionieri e dei soldati uccisi invocavano su di loro la maledizione divina, i soldati facevano l’oggetto delle fantasticherie delle fanciulle. Eppure il film sembra concentrarsi solo sul triangolo suocera-nuora-amante, costituito dall’acida signora Angellier, la romantica Lucile e il tenente tedesco acquartierato in casa delle due donne, in maniera piuttosto riduttiva rispetto ai movimenti di massa, al dramma collettivo e all’intreccio di destini raccontato in Suite francese.
La pubblicazione del romanzo può dirsi tragica e avvincente al tempo stesso: fu ritrovato da Denise Epstein, figlia di Irène, circa mezzo secolo dopo la deportazione della madre da parte dei nazisti, nel 1942 ad Auschwitz dove morì di tifo. La scrittrice aveva affidato i suoi quaderni a Denise e alla figlia minore Elisabeth; da un nascondiglio all’altro, braccate dalla polizia di Vichy e dalla Gestapo, le due bambine trasportarono il pesantissimo bagaglio, colmo di fogli redatti in calligrafia minuscola per risparmiare l’inchiostro e non osarono aprire la valigia fino agli anni ’90, quando Denise iniziò con non poca fatica a trascrivere quelle che si rivelarono poi essere le prime due parti di un romanzo, Suite francese, per l’appunto. Consegnò il libro a un editore. Apparve in Francia con il titolo che porta oggi il film, in uno dei romanzi d’Oltralpe più famosi degli ultimi anni.
“E’ una sensazione straordinaria quella di avere riportato in vita mia madre – ha affermato Denise Epstein pochi giorni dopo l’inizio delle riprese del film – poiché dimostra che i nazisti non sono veramente riusciti a ucciderla. Non la considero una vendetta da parte mia, ma piuttosto una vittoria”. Da subito, il libro di Irène divenne un totem, un sacro tomo in cui la storia della Francia occupata dai tedeschi e quella dell’autrice si contendevano il primato per forza narrativa, e sembrò che la realtà di una singola persona – l’autrice – scolorisse la tragedia di molti.
Così come Lucile, tante donne francesi negli anni dell’Occupazione davvero amarono, ricambiate, i soldati tedeschi, correndo non pochi rischi. Dai racconti – solo negli ultimi anni riportati alla luce – si fa strada la figura, forse anche idealizzata, del giovane soldato contrario al nazismo, amante della musica, sportivo, colto e raffinato. Avrebbe voluto sposare l’amata francese, ma non gli fu possibile, poiché morì in battaglia, fece ritorno in patria nella famiglia legittima, o lo punirono, per essersi unito a una francese, inviandolo sul fronte russo: le relazioni con le donne francesi, così come lo stupro e il saccheggio, venivano severamente punite dal regolamento della Wehrmarcht: considerate, al contrario delle donne danesi, olandesi o norvegesi, non del tutto ariane, non apparivano interessanti ai fini della procreazione volta a rafforzare il Reich.
Ci si chiede se si rendevano conto dei pericoli cui andavano incontro. Fin dal 1943 le donne che avevano avuto relazioni con i tedeschi venivano sottoposte alla ‘tosatura’, di notte, per far sì che non se ne parlasse. Alla Liberazione, l’anno seguente, si scatenò la follia patriottica della nazione, umiliata dalla disfatta e dall’Occupazione, e più di ventimila donne subirono il macabro rituale, in base all’ordinanza del 28 agosto 1944 che instaurava il delitto di “indegnità nazionale” in base al quale queste donne poterono essere giudicate e condannate per la loro “collaborazione orizzontale” dai giudici speciali che operavano su incarico e in nome del popolo. Su questi episodi si è a lungo taciuto: “La Francia sarà virile o on sarà”, si disse nel 1944. E virile tentò di esserlo punendo le donne “colpevoli” di “collaborazione orizzontale” che incarnò la disfatta della Francia, della nazione, e la vittoria del nemico che si coricava con le sue donne. Rappresentava una seconda sconfitta, e ricordava agli uomini la loro mancata virilità.
Sui “frutti” di questi amori si è a lungo taciuto, e ancora oggi parlarne provoca un certo disagio. I figli di donne francesi e soldati tedeschi nati durante l’Occupazione sarebbero in Francia duecentomila e più, ora ultrasettantenni. “I figli di boche” – termine sprezzante per designare i tedeschi – hanno accettato, con difficoltà, di raccontare le loro storie di “figli maledetti”. Spesso sono venuti a conoscenza della verità solo in età avanzata, sentendo dire dal patrigno alla madre “potevi andartene con il tedesco”, o hanno saputo che i nonni fecero sì che non venissero adottati poiché “questo bastardo non se lo merita”. Spesso le “ragazze madri”, condizione all’epoca infamante, senza mezzi, abbandonarono il “figlio della colpa”. Ora i “figli della colpa” si cercano, anche attraverso il sito www.anegfrance.free.fr (Amicale Nationale des Enfants de Guerre).
Nella foto in bianco e nero: Irène Némirovsky
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