Da Reset-Dialogues on Civilizations
Rio de Janeiro. Nel giorno del trentesimo anniversario della fine della dittatura militare in Brasile, domenica 15 marzo, molti manifestanti anti-governativi scesi in strada nei cortei organizzati in varie città brasiliane, hanno inneggiato apertamente in favore di un ritorno al regime autoritario. Unica soluzione, secondo questi, per mettere la parola fine agli scandali di corruzione, alle politiche di sinistra troppo spinte e per rilanciare l’economia in affanno. C’è anche questa, molto inquietante, tra le variabili che avvelenano il clima politico brasiliano e che compongono l’anima del dissenso verso la presidentessa Dilma Rousseff. Un dissenso crescente, risultato di un lungo processo che contiene l’insoddisfazione per la crisi economica e uno dei più gravi scandali di corruzione della storia del Paese: un maxi-giro di tangenti tra politici, imprese e vertici Petrobras che ha generato un terremoto nelle istituzioni e rischia ora di travolgere Paese e governo.
Nell’osservare le reazioni della popolazione all’uragano politico-giudiziario, vien fuori in maniera forse più evidente che in qualsiasi altra occasione, la separazione netta della società brasiliana. Il paese che nella sua storia non ha conosciuto strappi istituzionali forti: non una guerra di indipendenza, né una rivoluzione, una resistenza e neanche una lotta per il superamento della discriminazione razziale o per la fine dalla dittatura militare, mantiene sopita e parzialmente irrisolta una crisi perenne che si consuma lungo linee di frattura antiche e cioè ricco-povero, bianco-nero, declinate oggi in chiave moderna in un Dilma-non Dilma.
Lo scandalo e le proteste
Secondo quanto accertato nelle indagini le imprese che vincevano gli appalti per i lavori finanziati dalla Petrobras sovrafatturavano, creavano fondi neri e questo denaro passando attraverso faccendieri arrivava ai politici che, a loro volta favorivano le indicazioni dei vertici della Petrobras. Le indagini per diverse opera realizzate tra 2004 e il 2012 hanno avuto una prima conclusione due settimane fa quando la lista completa degli oltre 50 indagati sui quali il procuratore federale ha chiesto di procedure è stata presentata. Si tratta tra gli altri dei presidenti di Camera e Senato, Eduardo Cunha e Renan Calheiros (entrambi del Pmdb); di 22 deputati (18 del Pp, 2 del Pmdb e due del Pt); 12 senatori (4 del Pmdb, 3 del PP, 3 del Pt, 1 del Psdb e uno de Ptb); oltre a governatori ed ex governatori, ex ministri e faccendieri.
Sin da quando la notizia dell’inchiesta ha iniziato a circolare circa un anno fa, il Pt, partito della presidentessa, è stato accusato in modo violento, e numerose piccole manifestazioni sono state portare avanti a macchia di leopardo nel corso dei mesi. In campagna elettorale il tema aveva tenuto banco e infiammato gli animi e molti settori del centrodestra avevano confidato nella possibilità di una vittoria anche facendo leva sulle indiscrezioni giudiziaria che sono trapelate numerose. Ma è stato dopo la sconfitta alle elezioni di Aecio Neves, che ha iniziato a crescere il numero di quelli che invocano l’impeachment della presidentessa.
Il fronte anti-Dilma è compatto e abbastanza variegato. Colletti bianchi, classe imprenditoriale, conservatori e nostalgici della dittatura. Con questi addirittura la chiesa evangelica che, storicamente contro il Pt, ha sfoderato dei passaggi della Bibbia per giustificare l’impeachment di Dilma e infiammare i fedeli spingendoli a partecipare alle proteste. Sin da quando è stata organizzata la marcia del 15 marzo, le principali testate giornalistiche nazionali si sono schierate monolitiche sulla posizione antigovernativa e la copertura della manifestazione è stata capillare. Il Pt con sette politici indagati, è il terzo in ordine di importanza nell’inchiesta. Il partito maggiormente colpito è il Partito Popolare, centrodestra conservatore. La presidentessa è stata più volte esclusa da ogni indagine. Nonostante questo però, per le opposizioni, non poteva non sapere quello che succedeva e la sua responsabilità politica è evidente. Sua e del Pt.
A sentire i commenti e le dichiarazioni di molti manifestanti scesi in strada, emerge però anche altro. Al netto della crisi economica e dello scandalo di corruzione, appare chiaro quanto ciò che si contesti siano le politiche di sinistra del governo, passate e presenti. L’aver destinato ingenti risorse a quei settori poveri della società che, sin dalla sua costituzione, in Brasile erano stati ghettizzati e tenuti fuori dalla classe dirigente, è una cosa che non è stata mai perdonata ai governi del Pt. Ed è questo ciò che era venuto fuori anche in campagna elettorale. Non a caso, come stigmatizzato da moltissimi analisti, la presenza in strada di ‘bianchi’, ricchi e anziani fosse quasi totalitaria nelle manifestazioni del 15. Tra le tante ‘prove’ anche il fatto che il sito internet vemprarua.org, piattaforma organizzativa delle proteste, faccia capo a una società dell’imprenditore brasiliano più ricco secondo Forbes Jorge Paulo Leman.
I manifestanti intervistati per ore durante la diretta delle proteste, hanno spesso dichiarato di voler un Brasile diverso: non socialista, non comunista e che non aiuti i poveri, ma si concentri sulla crescita economica. E se fossero i militari con un regime non democratico, tanto meglio. È ora sulle riforme annunciate o presentate dal secondo governo Dilma che si combatterà la battaglia politica iniziata per strada e fomentata dalle élite. Tre le proposte avanzate infatti ci sarebbero alcune misure forti come l’imposto grendes fortunas (una patrimoniale) e l’abolizione del finanziamento privato dei partiti. Meccanismo che secondo l’esecutivo ha favorito la corruzione anche in Petrobras venuto fuori solo dopo decenni di sistematica corruzione.
Petrobras e scenario regionale
Ed è sul futuro della Petrobras che si addensano ora le questioni più delicate e politicamente rilevanti. I sostenitori del governo, scesi in piazza pure numerosi venerdì 13, hanno esplicitamente sostenuto la tesi della difesa di una Petrobras brasiliana, contro la visione che circola nei settori anti-Dilma. Il tentativo cioè di far passare come causa della corruzione il fatto che la società sia controllata dalla politica, e che l’unica soluzione sarebbe la privatizzazione. Ma chi si avvantaggerebbe da un ipotetico scenario del genere? Nel Paese banche e classi imprenditoriali, pronte a tuffarsi nella società a mani basse; all’estero le compagnie petrolifere e non solo, principalmente di area statunitense. Il petrolio brasiliano fa gola sempre, ma non è certo priorità per gli Usa. Fondamentale sarebbe invece un riposizionamento regionale più favorevole. Penetrando in Brasile, sostenendo un cambio politico in Venezuela e aprendo a Cuba. Contrastando così il tentativo di affrancamento in corso da oltre un decennio nell’ex giardino di casa.