Da pochi mesi è stata pubblicata da Mimesis una traduzione italiana (accompagnata dall’edizione critica di D. E. Luscombe del testo latino) – a cura di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri – dell’Ethica di Pietro Abelardo, maestro di logica e teologia del XII secolo. Nato in Bretagna nel 1079, è uno dei personaggi più significativi della cultura europea del suo tempo; studia con i maestri più famosi e arriva a insegnare nella scuola cattedrale di Notre-Dame a Parigi. È uno dei protagonisti delle trasformazioni culturali che portano alla nascita dell’università parigina e non si può dimenticare la sua storia d’amore con Eloisa, sua allieva, cui si devono pagine di grande rilievo filosofico. Viene condannato per alcune sue tesi giudicate eretiche soprattutto dai conservatori rappresentanti del monachesimo cistercense. Muore nel 1142, in un monastero cluniacense dove era stato accolto dall’abate Pietro il Venerabile.
L’Ethica o Scito te ipsum presenta una riflessione molto interessante sulla morale cristiana, per il tentativo dell’autore di precisare, con il suo rigore di maestro di logica, tutti gli aspetti che possono entrare nella definizione di peccato, per sottolineare il ruolo decisivo dell’intenzione. Quella che viene presentata è la seconda traduzione italiana, dopo quella di Mario Dal Pra del 1976, ormai non più reperibile.
Ne abbiamo parlato con Mariateresa Fumagalli che propone la nuova traduzione italiana.
Nelle prime righe dell’Introduzione, sottolinei il contesto in cui nasce l’Etica di Abelardo. A che cosa ti riferisci in particolare, quando osservi che occorre “tenere conto delle realtà nuove e dei nuovi gruppi sociali” e come si muoveva il “maestro” Abelardo in questo contesto sociale in trasformazione?
Gli storici sono d’accordo nel sottolineare i grandi mutamenti avvenuti nell’Europa cristiana nel XII secolo: il ruolo nuovo e attivo delle città e il decollo demografico, economico e culturale, evidente soprattutto in una Francia guidata da una monarchia sempre più dinamica. Parigi per le sue scuole è chiamata la “nuova Atene del nord” – naturalmente per gli oppositori è “la nuova Babilonia” – e Abelardo insegna principalmente a Parigi.
Con l’Etica che pone con forza l’accento sulla interiorità come criterio unico di valutazione morale, Abelardo si rivolge di fatto a una udienza di soggetti geneticamente differenti fra loro per cultura e condizione (ben rappresentati dai suoi allievi alla scuola cattedrale, marginali ed “eretici” come Arnaldo da Brescia, diplomatici come Giovanni di Salisbury o futuri cardinali e pontefici come Rolando Bandinelli). Nel testo possiamo osservare una singolare attenzione dell’autore a valori, possibilità, costumi e pratiche differenti in una società che, dopo il Mille, si differenzia per mestieri e professioni, stato economico, ambienti di vita … I goliardi cittadini elogiano la natura come energia vitale e positiva (e in questo non sono lontani dalle idee dei poeti e anche dei maestri di Chartres); la cultura delle corti indica nella bonne foi (analoga per funzione alla intenzione dell’Etica) la fonte del significato morale di un comportamento privilegiando così la motivazione interiore contro la regole dell’etichetta curialis.
A questo proposito osservo che per capire il testo di Abelardo è indispensabile la conoscenza dei romanzi cavallereschi del ciclo di Tristano e di Artù come notavano già cinquanta anni fa Hunt e Laura Mancinelli … Su un altro versante la vita in campagna, flagellata da fame, freddo e miseria stringe in una dura necessità gli uomini e li condiziona crudelmente contro ogni loro intenzione. Penso alla donna che per troppo amore del figlio lo soffoca per ripararlo dal gelo: è un esempio non solo abelardiano, come sappiamo dalle cronache e dai testi penitenziali. Era un tragico evento non raro a quei tempi come del resto la triste avventura dei bambini mandati dai genitori, disperati per la mancanza di cibo, nella foresta e destinati a perdersi e soccombere. Ricordo che Pollicino è una fiaba medievale che nel racconto di Perrault è ambientata nelle carestie secentesche. Difficile discettare di morale e intenzione in queste situazioni; ma è certo che alcuni passi dell’Etica espongono le “buone ragioni” e le difficoltà degli appartenenti a una società che sotto questo aspetto continuerà ad essere “lungamente medievale”.
Il punto centrale dell’Etica sembra essere il tema dell’intenzione come momento essenziale del peccato, distinto dalle inclinazioni naturali che lo precedono e dalle azioni che lo possono seguire. Qual è a tuo parere l’elemento principale di novità presente in questa decisa presa di posizione abelardiana che la distingue dalla riflessione etica precedente nella tradizione cristiana?
Sono d’accordo: il tema dell’ intenzione come definizione della colpa, o peccato nel linguaggio cristiano, distinta sia dall’azione o comportamento sia dall’impulso naturale, è centrale ma non nuova in senso assoluto. Nella riflessione cristiana come non ricordare Agostino evocato come auctoritas da Abelardo e da Eloisa? L’idea è ancora più antica di Agostino come sappiamo; ma mi sembra importante sottolineare che l’analisi di Abelardo rende il tema dominante anche logicamente in una costellazione di indagini dirette al comportamento, alla volontà, al desiderio, all’intreccio di relazioni fra gli uomini. In breve direi che l’intenzione è funzionale all’interno di una proposta nuova di etica cristiana richiesta dai tempi.
Una proposta e non un sistema, questo mi pare il punto più rilevante. C’è in Abelardo un forte impegno a un’analisi logica, psicologica e anche sociale, di che cosa voglia dire volontà e intenzione nel soggetto, anche nella sua vita relazionale. È un’analisi tanto estesa e audace da arrivare talvolta a indicare un contrasto che rimane aperto anche agli occhi dell’autore, manifestando la paradossalità di alcune situazioni umane che anche oggi possiamo sperimentare. Un esempio: l’uomo che uccide non volendo uccidere – oggi diciamo “per legittima difesa” – come lo schiavo in fuga che disperato si volta e ferisce a morte il suo padrone e inseguitore.
Un’attenzione, quella di Abelardo, direi antropologica come quando sottolinea la centralità di due momenti/spazi nella vita di relazione degli uomini: “il letto e la mensa” o indica la importanza delle “buone maniere “ a tavola o del risvolto sociale di un atto moralmente incolpevole.
Nella presentazione del pensiero di Abelardo hai messo in evidenza il ruolo della logica e l’atteggiamento di grande attenzione nei confronti della tradizione greca e della possibilità di renderne coerenti alcuni insegnamenti con la rivelazione cristiana. In che senso questi aspetti si incontrano anche nella riflessione etica di Abelardo?
La logica agisce nella narrazione dell’Etica in modo centrale e, secondo l’autore, necessario. Lo Scito te ipsum infatti è innanzitutto un discorso che inizia e si svolge con una serie di definizioni (colpa, inclinazione, atto, volontà) e di argomentazioni. Come tale deve rispettare le regole della logica se si vuole proporre come discorso corretto, conseguente e convincente. Ma la logica d’altra parte, come sappiamo, è per Abelardo insufficiente e lontana dall’oggetto nel caso dell’Etica (e della teologia). Insufficiente e lontana perché le res super naturam (a cominciare proprio dal vero valore morale definito come intenzione, invisibile e indecifrabile per l’uomo) non sono conoscenze raggiungibili tramite l’esperienza sulla quale abitualmente la logica lavora e conclude.
Qui interviene il ricorso ai “filosofi antichi”, ricorso frequente nei testi di Abelardo: ricordiamo che il titolo “socratico” dell’Etica, Scito te ipsum è dello stesso Abelardo! I filosofi antichi e la Rivelazione cristiana convergono su alcuni punti fondamentali: la soprannaturalità di Dio e il monoteismo – dichiara Abelardo – ma le parole di Platone, di Cicerone e Macrobio devono essere intese attraverso uno strumento che permetta la convergenza dei significati, la similitudo base di ciò che nella cultura dell’epoca è chiamato involucrum (discorso velato): l’intelletto umano quando si trova di fronte a una realtà soprannaturale ossia ultrasensibile (e quindi “incomprensibile e lontanissima”) può solo avvicinarsi ad essa in modo mediato, approssimativo e comunque inadeguato. Tale è il discorso filosofico nei confronti del discorso rivelato.
Quali altre opere di Abelardo sono fondamentali secondo te per comprendere fino in fondo la sua dottrina morale?
A mio parere è importante soprattutto il Dialogo fra un filosofo un giudeo e un cristiano che riprende l’analisi morale nel quadro di un confronto fra le tre religioni del Libro: è un testo del quale è difficile sopravvalutare l’audacia teorica e la felicità espressiva di alcune pagine nelle quali Abelardo si cala nel suo interlocutore/rivale giungendo a rappresentarne le ragioni.
Anche i testi teologici, con il ricorso ai “filosofi antichi” e la consapevolezza del gap logica/res divinae, si rivelano utili a collocare il pensiero morale in una indagine che è soprattutto una proposta magistrale più che una costruzione sistematica.
E naturalmente importante è la Dialettica – forse l’opera tutto sommato meno conosciuta di Abelardo – che indica con precisione il rigore e il limite della logica strumento necessario ma non sufficiente nella ricerca della verità, quindi anche della verità morale. Insomma l’unità – non solo di metodo ma di temi, prospettive e lessico – dell’opera abelardiana mi pare evidente: essa giustifica una ricostruzione difficile ma tutt’altro che pretestuosa. Come dimenticare del resto le ampie ricorrenze dei temi morali presenti nell’Epistolario (e nel testo dei Problemata di Eloisa)?
Nell’Etica si incontra un punto che sembra particolarmente problematico e che quasi rischia di mettere in crisi la costruzione di Abelardo. Si ammette che i crocifissori di Cristo non dovrebbero aver commesso peccato, perché loro intenzione era di punire un impostore, e tuttavia, sulla base della Scrittura, sappiamo che hanno peccato perché è il figlio di Dio che hanno crocifisso.
Probabilmente un’etica dell’intenzione che voglia essere coerente fino in fondo dovrebbe eliminare ogni contenuto determinato, ma Abelardo mantiene il “disprezzo di Dio” quale componente del peccato e, come nel caso dei crocifissori, accanto al discorso formale si conserva un aspetto contenutistico.
Si può risolvere questa contraddizione o rischia davvero di introdurre un elemento di grave debolezza?
Tu alludi, penso, a una debolezza di struttura direi logica all’interno del testo ossia una contraddizione lampante fra le due opposte proposizioni che riguardano, da un lato, la responsabilità che non può che essere consapevole e, dall’altro, il destino ultraterreno di quei crocifissori di Cristo che lo credevano un simulatore. Su questo punto mi sembra che Abelardo, come altrove, indichi chiaramente i limiti che ha assegnato al suo progetto: ”In tutto quello che ho scritto mi è sufficiente esporre la mia opinione e non pretendo di definire la verità”. È una affermazione del resto conseguente alla sua idea di teologia. Si sarebbe tentati di chiamare questa prospettiva abelardiana “critica” o “debole” usando termini di storie più vicine a noi.
Titolo: Pietro Abelardo - Etica
Autore: A cura di Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri
Editore: Mimesis ed. (collana Filosofie)
Pagine: 180
Prezzo: 14 €
Anno di pubblicazione: 2014
Si parla dei Problemata di Eloisa con il punto interrogativo.
Questo sta a significare che non sono fruibili o qualcos’altro?
Chiedo perchè sto cercando da un po’ di tempo di studiare la filosofia di Eloisa
Purtroppo alla ‘etica delle intenzioni’ dobbiamo sostituire la ‘etica delle responsabilità’, (M.Weber) e pensare non ad affermare un valore in quanto tale, ma piuttosto considerare sempre gli effetti delle nostre azioni, che potrebbero essere giuste dal punto di vista della affermazione di un valore, ma disastrose e nefaste nei loro effetti e nelle loro conseguenze, tu non pensi?
Perché replicare ad una formula presentata come una proposta, esposizione di un’opinione, perciò aperta quanto è raro trovare anche in una libera schola medievale,
con un ‘purtroppo dobbiamo’ servirci di Weber, della sua etica, in quanto moderni, in quanto coatti da una logica conseguenza di cui non sono esposte le premesse
tanto cogenti ? Perché moderni? In che senso moderni se Abelardo resta al di qua
della riflessione?