Turchia e libertà di espressione.
Quel che resta dopo gli arresti

L’ombra della ventina di arresti ordinati dalla Turchia ai danni di giornalisti e produttori tv, si estende nel giro di pochi giorni fino in Europa.

Il commento dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini non è piaciuto al presidente Recep Tayyip Erdogan che sostanzialmente, e poco elegantemente (sottolinea Il Secolo XIX), ha risposto con un “Si faccia gli affari suoi”. “L’Unione Europea non può interferire con le decisioni prese … nel rispetto della legge contro elementi che minacciano la nostra sicurezza nazionale” – ha detto Erdogan lunedì, durante l’inaugurazione di una raffineria di petrolio, trasmessa in tv.

Martedì la Mogherini si è dichiarata “molto sorpresa” dalla reazione del presidente turco alla sua precedente osservazione, quella fatta all’indomani degli arresti. Con il commissario alla Politica di vicinato Johannes Hahn li avevano definiti “incompatibili con la libertà di stampa, che è il fondamento della democrazia” e quindi contrari ai “valori europei” e agli “standard a cui la Turchia aspira di fare parte”. “Ogni ulteriore passo verso l’adesione di un Paese candidato dipende dal pieno rispetto dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali”, avevano puntualizzato. E di fatti, l’indomani e in apertura di plenaria, il Parlamento europeo annuncia che il tema della libertà di espressione in Turchia finirà all’ordine del giorno di Strasburgo. E che a gennaio verrà votata una risoluzione sulla libertà di espressione in Turchia.

Ma la risposta piccata di Erdogan alle critiche europee sembra però più uno sfogo nei confronti delle voci interne al Paese. A partire dagli intellettuali. “Adesso ho davvero paura di vivere nel mio paese. Non ho mai visto nulla del genere”, aveva detto il premio Nobel Orhan Pamuk, ricordato da Marco Guidi su Arab Media Report. Così, pochissimi giorni prima del giro di vite sulla stampa, il Presidente si era sfogato: sono “controllati dalla lobby internazionale della letteratura” – comprendendo nella sua invettiva anche l’autrice Elif Shafak. E lei, che già in passato aveva espresso il timore di una deriva dittatoriale, ha commentato: “Purtroppo, in Turchia le teorie cospirative sono molto diffuse e la gente ci crede. C’è sempre quel genere di paranoia”.

Cronache dalla “lunga notte” delle manette

A distanza di due giorni dalla retata, in alcuni siti, la notizia degli arresti occupa ancora gran parte dello spazio. Nel sito del Today’s Zaman che ha visto il proprio direttore Ekrem Dumanlı finire in manette, il titolo “Minacciata libertà di stampa” è in evidenza in una home page quasi interamente dedicata ai fatti del 14 dicembre. Ci sono chiaramente gli aggiornamenti sugli arrestati e lo scontro tra il Presidente turco e l’Alto Rappresentante europeo – ma ampio spazio è dato anche alle manifestazioni di piazza e ai richiami internazionali come quello che arriva da Amnesty International.

Today’s Zaman continua a sfoggiare vivacemente la libertà di dire ciò che pensa – anche e soprattutto quando non combacia con la volontà del governo. Ne è un esempio l’ultimo aggiornamento del blog di Mahir Zeynalov dove sono elencate “Le 10 dichiarazioni più ridicole di Erdogan”.

Sempre nella colonna dei blog, si trova anche il pezzo di Sevgi Akarçeşme, che rivive la notte degli arresti dal punto di vista della redazione dello Zaman.

Poco prima che iniziassi a scrivere questo pezzo, Dumanlı che ci aspettiamo sarà arrestato nel giro di poche ore, ha tenuto l’ultima riunione di redazione con noi e ci ha detto di fare un giornale ancora migliore.
Sono le 3:42 di notte e insieme ai miei colleghi continuerò ad aspettare le forze di polizia dello Stato partito.
Fatemelo ripetere ancora una volta: rifiutiamo di essere zittiti e chiediamo una Turchia democratica!

A raccontare di quelle ore è anche Bülent Keneş, uno della ventina di giornalisti, opinionisti e produttori tv finiti dietro alle sbarre, con l’accusa di terrorismo.

Butto giù questo articolo dopo la soffiata che la polizia sarebbe venuta in casa mia e mi avrebbe arrestato, domenica al mattino presto. Vorrei farvi conoscere il vero Bülent Keneş!

La sua pubblica difesa è nella rievocazione del proprio trascorso da giornalista; il suo pubblico attacco è in un parallelismo appena accennato ma tagliente:

Spero che questo assalto contro una manciata di testate libere e indipendenti in Turchia non porti conseguenze simili alla istituzione del Nazi fascismo che fece seguito alla purga della ‘Notte dei Lunghi Coltelli’ del 30 giugno 1934.

I riferimenti alla tirannia non mancano in altri interventi all’interno della stessa testata: “L’AKP ha inventato un nemico chiamato ‘stato parallelo’ e lo usa come scusa per stabilire un regime dittatoriale”, scrive Cafer Solgun; mentre Abdoullah Bozkurt, presenta il terremoto nelle redazioni di Ankara come “L’atto finale nella battaglia verso la democrazia”.

Sempre all’interno del Today’s Zaman, Mümtazer Türköne fa un altro tipo di critica: l’assenza di libertà di stampa, per lui, non è evidenziata solo dagli arresti, “ma anche dal silenzio di altri giornali al riguardo”. Per Türköne, i media turchi si dividono in tre categorie: quelli filogovernativi, nati e finanziati per proteggere gli interessi del governo – “il vero proprietario di questo gruppo di testate è il Presidente Recep Tayyip Erdoğan”; quelli posseduti da importanti uomini d’affari tenuti in pugno da Erdoğan attraverso il potere economico dello stato; e infine i restanti Zaman, Bugün, Taraf, Cumhuriyet e Sözcü – “Se Erdoğan riesce a far tacere Zaman e Samanyolu TV, teoricamente non c’è più un potere di opposizione mediatica.”

Sradicare il complotto – ovvero “lo stato ombra di Gülen”

Se il nome di Fethullah Gülen (il religioso a capo del movimento Hizmet, autoesiliatosi negli Stati Uniti nel 1999) non figura mai all’interno degli interventi ospitati dal Today’s Zaman, il sito del Daily Sabha, testata fondata nel 1985 dal tycoon Dinç Bilgin, è pieno di riferimenti ai “gülenisti” – come vengono chiamati, già nei titoli, i giornalisti arrestati.

Due giorni dopo il blitz 14 dicembre, İbrahim Kalın riassume così la loro storia:

Nati come un movimento educativo e religioso, i gülenisti hanno fatto pieno utilizzo dell’espansione di diritti e libertà in Turchia, come era loro democratico diritto. Hanno goduto delle nuove opportunità economiche e hanno fondato nuove scuole, dormitori, università, società, giornali, canali televisivi, associazioni economiche e perfino una banca. Ma hanno continuato a chiedere un maggiore potere economico e politico. Hanno piazzato i loro seguaci in posizioni di rilievo nella magistratura, nelle forze dell’ordine e della burocrazia centrale.

Concludendo infine, in riferimento agli arresti, che:

Non si sarebbe arrivati a questo punto se il Movimento di Gülen fosse rimasto all’interno dei confini naturali di gruppo educativo-religioso. Al contrario, i gülenisti hanno scelto di essere un gruppo clandestino onnipresente.

Nel complesso, la linea editoriale del Daily Sabha sembra votata a presentare il giro di vite sulla stampa come un intervento lecito e necessario per contrastare il “complotto” organizzato dallo “stato ombra” di Gülen.

I giornalisti vicini al movimento di Gulen, che sono stati presi in custodia, non sono sotto processo per quello che hanno scritto contro il governo negli anni passati, ma perché ci sono prove chiare che sono stati coinvolti in un complotto per “fare fuori” i loro rivali all’interno dello stesso movimento religioso.

Così scrive İlnur Çevik, in un articolo (dal titolo “Quando i giornalisti si fanno coinvolgere in una guerra sporca e illegale”) che rintraccia le ragioni degli arresti nella battaglia interna al movimento nella critica avanzata dalla frangia sunnita nei confronti dei gülenisti, accusati di sfruttare la religione per raggiungere obiettivi politici o finanziari. E conclude:

Il governo deve trattare questo caso adeguatamente e spiegare al mondo quali sono i fatti o, ancora una volta, sarà accusato di reprimere i media.

Il complottismo si rintraccia anche nel pezzo di Nagehan Alçı, per la quale quelle stesse soffiate che hanno permesso ai giornalisti arrestati di difendersi pubblicamente poche ore prima di finire in manette, sarebbero una prova chiara dell’esistenza della “struttura parallela” gülenista. Sotto accusa finiscono anche alcuni tweet lanciati da @FuatAvni.

Dall’operazione del 17 dicembre (quella che portò in luce la serie di scandali di corruzione nei quali Erdogan era coinvolto, ndr.), questo account ha insidiosamente osservato e minacciato lo stato. Ha mescolato verità e bugie, diffondendo paure, creando misteri e provando l’esistenza di una struttura parallela all’interno dello stato.

La virtù sta nel rammarico

A bilanciare i toni sono i commenti dell’Hürriyet Daily News, il più antico tra i quotidiani turchi in lingua inglese, che si mostra equilibrato anche nei contenuti esposti in homepage, due giorni dopo gli arresti.

“Il nuovo raid sui media aggiunge confusione politica in Turchia” è il titolo dell’intervento di Murat Yetkin che risale alle origini del conflitto tra Erdogan e Gülen, nel tentativo di chiarire la politica dietro alla retata del 14 dicembre:

Il gruppo Zaman, in quanto voce non ufficiale del movimento “Hizmet” di Gülen, aveva apertamente supportato (ed è pure accusato di aver portato a termine una campagna di manipolazione) il governo nelle indagini tra il 2007 e il 2012, nelle quali un numero di ufficiali militari, giornalisti, personalità di organizzazioni non governative e accademici furono arrestati e condannati a pene severe. Quel supporto al governo includeva anche le proteste del 2013 a Gezi Park. Ma, dopo la reazione di Erdogan alla serie di indagini del dicembre scorso, il confronto si è aperto tra il governo e i gulenisti. Il gruppo Zaman si è spostato sulla linea dell’opposizione, scrivendo diversi articoli sulla corruzione e la pressione sui media in Turchia.

Tra i commentatori dell’Hürriyet, c’è apprensione – come mostra un intervento firmato da Yusuf Kanli in cui si invoca “Libertà per la stampa”:

Può questa mentalità conciliarsi con la nozione di democrazia? Possibile se per democrazia si intende meramente l’urna elettorale e chiunque vince la maggioranza ha il diritto di fare ciò che vuole. Come può il presidente del paese bersagliare una sezione della società e accusarli di essere dei traditori che meritano una lezione? O, come potrebbe il primo ministro vestire i panni di un “esaminatore” per premia i fedelissimi e boccia gli oppositori?

Ma oltre alla preoccupazione per la salute dell’informazione e, per estensione, della democrazia, c’è il rammarico. Quella “Nuova Turchia” sventolata da Erdogan per ottenere voti e consensi, ha in realtà condannato il Paese in un limbo – lamenta Nuray Mert.

Il nuovo ordine ha un suo sistema e le sue regole non scritte; ha il suo leader supremo e un primo ministro sotto di lui, con un governo e un gruppo parlamentare sotto entrambi. Il nuovo ordine non riconosce la legittimità delle regole democratiche, ma solo la legittimità della “missione storica”. L’Islam è misura di ogni cosa, in termini di legittimità quando non di legge. Ciononostante, non tutte le dichiarazioni fatte in nome dell’Islam sono sono riconosciute come legittime, come si può notare nel caso del movimento di Gülen. È la “religione stato” ciò che conta adesso. Le basi della Costituzione nei principi del repubblicanesimo secolare si scontrano con la cornice di principi non scritti che trovano una loro legittimità nella nuova ideologia al comando.

Il limbo è anche ideologico ed è difficile non finire con il dare ragione alla Mert quando confessa: “Devo ammetterlo, la vita sta diventando davvero difficile qui”.

 

Photo credits: Thierry Ehrmann via Flickr

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