Partiamo dal fatto che c’è un problema di leadership. Non solo il Partito Democratico, ma tutto il centrosinistra italiano ha un’enorme fame di leadership. L’elettorato vuole riconoscersi in leader politici che diano fiducia direttamente all’opinione pubblica, non all’intermediazione di apparati di partito, segreterie, correnti.
Il problema della leadership, del soggetto politico e quello della politica e dei programmi sono inscindibili, si tengono a vicenda. Se volessi aggirare la domanda potrei dire che non c’è problema di leadership ma un problema di asse politico, ma non la voglio aggirare e riconosco che il centrosinistra senza una leadership che lo rappresenti agli occhi dell’opinione pubblica è come se non esistesse. Io sono esterrefatto dall’ultima riunione della direzione del Pd alla quale ho partecipato. Dopo tre sconfitte consecutive, con tre segretari diversi e cinque milioni di voti persi si cerca di «non drammatizzare». Al posto di Bersani eviterei di vedere il bicchiere mezzo pieno, è controproducente.
Il momento migliore della leadership del centrosinistra è stato quello delle vittorie elettorali di Prodi che ha trasmesso fiducia nella possibilità di vincere. Il tema stesso di una vittoria elettorale del centrosinistra è del tutto scomparso dalla scena. Si fa cabotaggio vivacchiando ai margini del malcontento contro Berlusconi. Come si può mai vincere se nemmeno si cerca di immaginarlo?
Io penso che l’unico tentativo di governo della sinistra in Italia è quello abortito nel 1998 con il primo Prodi. In quei primi due anni si stava creando un embrione di futuro Partito Democratico; era una politica di modernizzazione del paese che è riuscita da sola a fare il primo passo portando l’Italia nell’euro. Nel paese c’era il dibattito sull’euro in cui anche personaggi illustri sostenevano la «doppia velocità» per cui per l’Italia era meglio restare nella parte dei paesi della fascia B, e Prodi invece accettò la sfida. Da quel momento in poi però con la crisi del governo Prodi, e forse non casualmente, è venuto a mancare tutto il resto, qualsiasi sfida modernizzatrice è stata persa, almeno fino ad adesso, sul piano sociale, economico, istituzionale.
Che venga prima l’uovo (il progetto) o la gallina (il leader), è chiaro che un progetto equivalente non c’è.
Cominciamo dall’uovo, allora, perché se mi chiedessero con tre parole di descrivere il Pd e quel che vuole sarebbe difficile pensare a parole che non siano: diviso, incerto, confuso.
Il candidato leader deve incarnare il progetto. Abbiamo sentito dei discorsi di Bersani in campagna elettorale in cui ne esprimeva «l’esigenza», ma questo è sconcertante: un leader politico non descrive un’esigenza del genere, deve tradurla in una risposta, deve dirlo questo futuro, deve dare immagini e voce alle speranze.
Credo che questa cosa la possano fare Bersani o altri se alzano la testa e se guardano non solo dentro, ma anche fuori dal partito. Sono forse troppo pessimista, ma vedo che questo non si fa. Guardare «fuori» vuol dire ad alcuni gruppi di riferimento che possono essere gruppi già attivi in politica, o anche di opinione pubblica e rappresentanti di vari settori della società, dell’economia, delle professioni. È un passaggio indispensabile per fare un progetto, perché stiamo parlando di un partito che purtroppo è ormai soffocato, in cui i pochi elementi che potevano esserci all’inizio, e penso al discorso di Walter Veltroni al Lingotto – perché quello in fondo fu un manifesto che diede molte speranze a molta gente che guardava a questo partito – sono stati spenti nella culla dal peso di gruppi e apparati che hanno le radici nel passato di partiti che non ci sono più, qualcosa di nobile ma che non c’è più. Se fossi Bersani, guardando a una situazione in cui per tre anni, dal 2008, elezioni generali con Veltroni, in cui perdemmo con il 33 % (insieme ai radicali), all’anno dopo con Franceschini alle provinciali e alle europee in cui perdemmo con il 26%, e poi di nuovo con Bersani al 26 %, io drammatizzerei. Lo farei per chiamare a raccolta le «forze sane» rimaste, per tentare di mobilitare passioni ed energia.
Concretamente che cosa si può chiedere a Bersani? Realisticamente non gli si può chiedere di risolvere personalmente il problema della leadership, ma sicuramente quello di preparare nel miglior modo possibile il terreno per un cambiamento del vertice, dando il via a una aperta competizione.
Io ho chiesto a Bersani di fare un’operazione, quella di alzarsi in punta di piedi, di guardare fuori dal partito, di costruire un lavoro che coinvolga parti della società, altre forze politiche che vivono nelle nostre contraddizioni: la sfida di Vendola è positiva e va raccolta. Sono tentato di non parlare neanche più di centrosinistra, ma vorrei parlare di una forza di sinistra credibile, con tratti di liberalismo, quelli necessari a dare ai principi di un socialismo democratico le basi forti della libertà della persona e dell’individuo.
L’esempio di Vendola è un esempio chiaro di come non guardare agli ordini di una segreteria e di un apparato, di come costruirsi una squadra autonoma e scommettere con fiducia vincente sull’opinione pubblica. Ma Vendola è svantaggiato perché ha una piattaforma di partenza, quella di Sinistra e Libertà, che è più ristretta ancora di quella del Partito Democratico.
La cosa più rilevante è che ha dimostrato come ci sia un’area di sinistra che può essere un punto di riferimento per un settore abbastanza vasto della sinistra, che può essere anche credibile per governare. Se questo segmento diventa propulsivo e trascina altri segmenti di questo campo di forza della sinistra, si può dar vita a qualcosa di nuovo che può trovare una propria leadership alternativa, capace di competere non solo con Berlusconi ma anche con chi verrà dopo.
L’idea di un partito federale come quella avanzata da Prodi, con i responsabili delle realtà regionali che eleggono un segretario nazionale?
Esattamente. Il Partito così com’è dentro non ha più energie né risorse, solo mettendo in questione energie esterne riesce ad avere un cambiamento. Cose del genere sia io sia Cacciari le diciamo da tempo, non tanto per le modalità organizzative che si possono sempre discutere, ma per il metodo di un partito che deve muoversi dal basso verso l’alto.
Riuscirà Bersani a produrre un cambiamento del genere?
Mi sembra che fino ad adesso non lo stia facendo. Chiunque faccia il segretario in questo partito è fatalmente obbligato a piegare la propria testa alle mediazioni e alle correnti. Il problema è però che le componenti del Pd hanno la loro origine in una fase storica che col Pd di oggi non dovrebbe aver nulla a che fare. Invece continuano ad assorbire tutte le sue energie. Qui c’è il morto che uccide il vivo. Sono il primo a sapere che il partito di sinistra credibile come io lo immagino non può che vivere con componenti diverse, con correnti di oggi. Ci può essere per esempio una corrente No Tav (di minoranza certo, perché se diventa di maggioranza il partito diventa un’altra cosa) che si confronta con una componente che invece le infrastrutture le vuole fare. Le correnti insomma sono necessarie alla democrazia di un partito ma devono avere basi nuove, non proteggere vecchi notabilati.
Partito del Nord? Ma i problemi non sono solo del Nord.
Vorrei chiarire che non ho mai parlato di Partito del Nord, semmai ho parlato di Partito federale e lo stesso si può dire di Cacciari. Il problema è come nasce questo partito federale, perché se ci atteniamo agli statuti, il Pd è già un partito federale. Il punto è che per far nascere un partito federale vero non è sufficiente un congresso, un’istanza programmatica né tanto meno uno statuto, ci vuole un’iniziativa dal basso. Allora bisogna che alcuni partiti regionali prendano l’iniziativa e attivino il processo, se no non nascerà mai. In secondo luogo quello che vedo è che dopo le regionali ci sono almeno tre regioni cioè Piemonte, Veneto e Lombardia, che sono più o meno l’equivalente di un medio Stato europeo, come popolazione e come Pil, da cui la sinistra è sostanzialmente fuori o quasi. Allora rifletto sul fatto che se si va a rafforzare un partito Lega-Pdl che comanda in una zona del genere, ha importanza relativa chi governa a Roma perché chi governerà sarà comunque questo partito qui. Si sta delineando un percorso che porta, dopo cinque anni di governo o a una rottura o a una sorta di Csu-Bavarese. Far nascere una realtà politica federata, nel Pd, che al Nord cominci a lanciare una sfida a questo raggruppamento è una necessità politica. E qui torna il problema del progetto: al Nord siamo indeboliti rispetto al sentire comune di queste regioni del Nord e cominciamo a esserlo anche nelle propaggini emiliane che più sono interessate da queste realtà.
Da che parte comincia un processo innovativo? Chi lo mette in moto? I partiti sono sempre più legati all’esistenza di una struttura di comando, a una cabina di regia, a una struttura per la comunicazione, a think-tanks che producono programmi. Il disegno del Partito federale del Nord come risposta alla Lega o al radicamento milanese della storia di Berlusconi e Tremonti, rischia di consegnarsi alla logica delle federazioni di partito, delle organizzazioni provinciali o regionali. La Lega e Forza Italia all’epoca hanno creato ex novo delle macchine ad hoc, con una semina più lunga Bossi, con la televisione e i soldi Berlusconi. Un Pd federale rischia di rimettere in circolo vecchi apparati sfiniti. Piuttosto come risorsa nuova appare più promettente il capitale di fiducia guadagnato da alcuni amministratori.
Non riesco a dare torto a questi timori, perché i condizionamenti che pesano oggettivamente sul Pd ci sono anche sul piano regionale e locale. Forse qualche altra risorsa, oltre ai voti di molti nostri amministratori, c’è in alcune parti della società organizzata, nel mondo imprenditoriale o nel volontariato. Ma prima di tutto ci vuole il coraggio di costruire un soggetto politico, di darsi un programma e di cominciare un cammino lungo che non può essere concluso nel Pd a Roma. Ci vuole il coraggio di sfidare gli avversari dalla propria diversità e bisogna partire dal basso. Per questo penso vada accolto il messaggio di Prodi. Quanto al mio ruolo, un conto è fare bene il sindaco, un conto è fare bene il leader politico, sono cose diverse, non è un passaggio automatico. Bisogna anche mettersi alla prova, possibilmente dove le elezioni regionali hanno dato un segno di questa natura e quindi hanno mostrato che c’è una leadership locale forte.
Il neopresidente leghista del Piemonte Cota ha detto che non si sarebbe candidato se si fosse presentato Chiamparino.
Sì era noto.
E allora perché Chiamparino non si è presentato?
Io credo che Mercedes Bresso volesse essere misurata dagli elettori e che dopo aver fatto cinque anni di buon governo abbia preteso di essere valutata dai cittadini. Governare non è solo curare bene le politiche ma anche un modo di rapportarsi con l’opinione pubblica.
Ma il sindaco Chiamparino è disposto a proporsi come uomo della speranza e del futuro? Ce l’ha il coraggio che dice necessario?
Sento molto la difficoltà di mettermi alla prova perché mentre sono consapevole che sul piano locale continuo ad avere un discreto insediamento e una discreta credibilità, mettersi alla prova su un terreno più vasto non per una leadership nazionale, ma per contribuire alla costruzione di una leadership nazionale, è diverso. Spero prima o poi di essere in grado di dare credibilità e forza a una sinistra di governo.
Questa sfida contiene elementi di rischio, ma l’assunzione di questo rischio con gesti di coraggio è parte essenziale del gioco.
Potremmo dire che è la stessa cosa che nel suo piccolo ha fatto Matteo Renzi a Firenze. Quello che dico è che siamo in una fase in cui bisogna ricominciare, ricostruire una rete che sia interna ed esterna al partito, perché è dall’efficacia di questa rete che dipende il partito.