A Madison, in Wisconsin, non se lo sarebbero mai aspettato. Almeno fino a qualche settimana fa. Non s’erano mai visti senatori in fuga negli Stati vicini per evitare di essere chiamati al voto, il campidoglio occupato e centomila persone in corteo. Tutto per difendere il diritto alla contrattazione collettiva dei dipendenti pubblici. Una legge, messa a punto dal governatore repubblicano Scott Walker, congela i contratti e taglia i salari ma soprattutto pone un limite serio alla presenza del sindacato nel pubblico impiego.
Ne abbiamo discusso con il professor Joseph McCartin, che dirige la Kalmanovitz Initiative for Labor and the Working Poor della Georgetown University di Washington, un centro di ricerca dedicato alla promozione del lavoro e delle fasce sociali più deboli.
Professore, negli Stati Uniti cresce il consenso bi-partisan per ridurre le tutele dei lavoratori del pubblico impiego, perché tanti politici sostengono – e cercano di convincere l’elettorato – che siano proprio quei diritti all’origine dei deficit di bilancio?
I politici di entrambi gli schieramenti hanno spinto i dipendenti pubblici ad accettare la riduzione di salari e benefici per ripianare i debiti statali. Tuttavia né le paghe né i diritti accessori degli impiegati ne costituiscono la causa primaria che è da rinvenire, piuttosto, negli effetti del crack economico. Per i partiti, però, è più facile fare pressione sui lavoratori anziché fare leva sulla volontà politica per stimolare l’economia o alzare le tasse pagate dai ricchi. Le differenze, comunque, ci sono e riguardano la questione della rappresentanza sindacale nel pubblico impiego. I repubblicani, infatti, stanno cercando di sfruttare la crisi non solo per ottenere concessioni economiche da parte dei lavoratori ma anche per limitare i loro diritti sindacali. Un tentativo che viene mascherato dietro l’obiettivo di voler fronteggiare il deficit.
E l’opinione pubblica? Che posizione ha?
Generalmente essa ritiene che i dipendenti statali debbano condividere con il resto della popolazione i sacrifici imposti da una fase economica difficile. Tuttavia la maggioranza della popolazione non approva l’idea di sottrarre ai lavoratori i diritti sindacali.
Parliamo delle differenze tra settore pubblico e privato. Come sono rappresentati i rispettivi addetti, qual è il ruolo dei sindacati e come questi ultimi si stanno muovendo per colmare eventuali distanze?
Esiste, in effetti, una differenza sostanziale: i diritti dei lavoratori del settore privato sono garantiti da leggi federali, quelli dei dipendenti pubblici da normative varate dai singoli governi e molto diverse a seconda dello Stato. In alcuni casi, ad esempio, il diritto alla contrattazione è limitato mentre in altri, addirittura, non è concesso. Alcuni sindacati si specializzano, quindi, nel rappresentare il pubblico impiego. Inoltre, le organizzazioni sindacali hanno cercato di organizzare sempre di più i dipendenti pubblici, persino categorie come la United Auto Workers o gli Steelworkers, (nate per riunire da un lato le tute blu dell’auto, dall’altro quelle delle acciaierie N.d.R.) perché negli ultimi trent’anni è stato più facile; così soltanto il 7% circa degli addetti del settore privato è organizzato contro il 36 % di quelli pubblici.
La vicenda del Wisconsin ci dice che né i lavoratori né le organizzazioni sindacali sono disposti a rinunciare al diritto alla contrattazione collettiva e alle altre tutele, tuttavia la politica conservatrice li sta spingendo in una posizione difensiva. Pensa che le cose cambieranno in futuro? I sindacati hanno qualche responsabilità?
In realtà, quanto sta accadendo in Wisconsin potrebbe potenzialmente provocare una reazione proprio contro coloro che stanno tentando di eliminare il diritto alla contrattazione collettiva. È vero che i sindacati sono sulla difensiva, tuttavia hanno riscosso maggiori simpatie tra l’opinione pubblica di quanto non sia mai accaduto prima in una generazione. I suoi iscritti sono infuriati e mobilitati. È troppo presto per dire se questo possa davvero dare il là a una rinascita del movimento dei lavoratori. Ma i leader sindacali hanno la responsabilità di reagire con forza.
Vede un modello internazionale che si ripete nell’attacco al pubblico impiego e nelle sfide che stanno mettendo alla prova il movimento sindacale, non solo negli Stati Uniti ma anche nel resto del mondo?
Sì, negli ultimi trent’anni, nel mondo industrializzato, la diversa natura dell’economia globale ha eroso il potere dei sindacati del settore privato e ciò ha lasciato le organizzazioni del comparto pubblico più isolate di prima e quindi più vulnerabili di fronte ai loro nemici.
Sull’ultimo numero della rivista Dissent, lei ha definito i lavoratori pubblici “un comodo capro espiatorio”. Può spiegarci perché?
In un momento di difficoltà economica, come quello che stiamo attraversando, è più facile trovare un gruppo contro cui indirizzare la rabbia degli elettori piuttosto che capire come sviluppare un’economia giusta e sostenibile. I lavoratori pubblici rappresentano proprio quel gruppo.
Nell’articolo che abbiamo citato poco sopra, lei ha analizzato anche il linguaggio utilizzato dai detrattori del sindacato, scrivendo che essi si sono appropriati della terminologia populista, un tempo terreno proprio del movimento sindacale. Con quali conseguenze?
Sfortunatamente oggi la parola élite è utilizzata più efficacemente dai conservatori che attaccano i progressisti e i sindacati anziché, al contrario, dalla sinistra che si oppone all’élite economica. I conservatori sono diventati bravi nell’indirizzare la rabbia dei lavoratori che si sentono economicamente schiacciati contro altri lavoratori. Per questo motivo, la sinistra deve trovare un modo migliore per articolare la propria visione e coalizzare un’ampia maggioranza.