Da Reset-Dialogues on Civilizations
Gli abitanti della Scozia si sono recati alle urne il 18 settembre per decidere se la Scozia dovesse o meno recidere il proprio legame con il Regno Unito e diventare uno Stato indipendente. Il fronte del “no” ha ottenuto una netta maggioranza del 55% mentre la campagna a favore del “sì” è riuscita ciononostante ad aggiudicarsi più di 1.600.000 preferenze da parte di coloro che hanno esercitato il proprio diritto di voto.
L’Unione con l’Inghilterra risalente al 1707 resta quindi integra, così come di fatto rimane invariato il ruolo ricoperto dalla Scozia all’interno del Regno Unito. Per il prossimo futuro non si prevede nessun altro nuovo referendum in materia di indipendenza. Tuttavia, questo “no” difficilmente può essere interpretato come un voto a favore del mantenimento dello status quo. Al contrario, l’impegno assunto all’ultimo dalla leadership politica di Westminster di concedere alla Scozia maggiori poteri sulla scia del processo di devolution avviatosi negli anni Novanta ha già innescato quello che agli occhi di parecchi osservatori è destinato a configurarsi come un dibattito costituzionale complesso e prolungato circa i termini del rapporto tra Londra ed Edimburgo e, in ultima analisi, tra la Scozia e il resto del Regno Unito. Ci vorrà del tempo, credo, prima che la giuria possa emettere un verdetto.
Tralasciando però queste complessità interne, il referendum scozzese ha senza dubbio rinvigorito la democrazia britannica e riacceso il dibattito sulla legittimità del potere statale e il consenso dei governati. Da un punto di vista internazionale, il movimento per l’indipendenza della Scozia non sembra differire particolarmente da altri movimenti separatisti che in Europa e altrove nel mondo hanno coniugato in misura variabile nel corso della storia le rimostranze di carattere socioeconomico a una peculiare visione di come affermare e preservare la propria identità entro i rispettivi territori storici di insediamento. Non è un caso che l’episodio scozzese sia stato tenuto particolarmente sott’occhio da catalani, baschi, sudtirolesi e molti altri ancora.
L’inclusività della società scozzese e il nazionalismo democratico fondamentalmente “civico” alla base del fronte del “sì” dovrebbero offrire a noi tutti uno spunto di riflessione. “L’indipendenza è per chi è schiavo”, ha commentato un intervistato settantenne nato in India ed emigrato in Gran Bretagna negli anni Settanta. “L’India era stata colonizzata, ha combattuto per l’indipendenza e l’ha ottenuta. Ma essere una colonia è tutt’altra cosa dal far parte di un’unione”. Appunto. Il genere di autodeterminazione di cui si era fatto paladino il presidente americano Wilson allo scopo di conciliare le “nazionalità” europee all’indomani della Prima Guerra mondiale non è mai risultato fondante per gli accordi di carattere giuridico e politico successivi al 1945. La straordinaria espansione del sistema internazionale generata dal processo di decolonizzazione controllato dall’ONU, con l’annesso collasso degli imperi europei e dell’impero stesso in quanto istituzione, non è mai stata ancorata a nozioni di etnicità o omogeneità culturale. Certo, il processo ha finito per avvantaggiare i gruppi dominanti in Africa, in Asia e nel Pacifico, esattamente nella stessa misura in cui i gruppi dominanti hanno beneficiato del disfacimento dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia negli anni Novanta. Tuttavia, il “diritto all’autodeterminazione” post-1945 riconosciuto dalla comunità internazionale è rimasto perlopiù scevro da parametri di civilizzazione o pretese di unità etnoculturale dell’entità statale. Quest’ultimo criterio si era già configurato come un fallimento pratico e politico a Versailles, e a ciò si era sommato un senso di offesa morale innescato dalle politiche aggressive adottate da Hitler per tutelare le minoranze tedesche in Europa.
La Scozia non è una colonia, e tantomeno è una comunità “oppressa” in cerca di una secessione “riparatoria” (ancora legalmente controversa). Il suo caso evidenzia però l’importanza cruciale della partecipazione democratica come parte integrante del linguaggio e processo di autodeterminazione moderna nell’ambito di uno Stato. Autodeterminazione e diritti umani sono intrecciati l’una negli altri sin dal loro primo emergere come concetti politici e giuridici all’indomani della Seconda Guerra mondiale, funzionando dapprima come strumento di emancipazione per il nazionalismo anticoloniale e l’uguaglianza razziale, e poi come mezzo per convalidare e/o rafforzare il progetto della sovranità statale, anche nell’ambito di Stati multinazionali. La Carta delle Nazioni Unite e il sistema internazionale più in generale non sanciscono l’autodeterminazione “nazionale”, ovvero la possibilità che un’argomentazione etnoculturale si ponga da sola a fondamento di rivendicazioni secessioniste unilaterali. Tuttavia, come stabilito dal famoso parere della Corte Suprema del Canada sulla secessione del Quebec, il fulcro dei processi di autodeterminazione interna va sempre ricercato in “un continuo iter di discussione”, anche in mancanza di un diritto unilaterale alla secessione nell’ambito normativo nazionale e internazionale.
Il movimento per l’indipendenza scozzese non ha fatto appello a un’autodeterminazione di carattere “etnico”. Piuttosto, il dibattito sulla Scozia come nazione costitutiva dell’Unione inevitabilmente finisce per riproporre l’annosa e legittima “questione nazionale” in termini di pluralismo culturale, impegno civile, programmazione politica e istituzionale nel più ampio ambito del Regno Unito. A livello internazionale, il vocabolario riferito alla “coscienza di popolo” per quanto concerne gli specifici gruppi etnoculturali all’interno di Stati esistenti si è dimostrato – e continuerà a dimostrarsi – quanto mai elusivo e inefficace, a parte qualche eccezione.
La spaccatura del “popolo scozzese” tra fronte del “sì” e del “no” attesta la confusione insita nel concetto e le sue molteplici varianti, allo stesso modo in cui il “popolo del Quebec” non fa riferimento a settori significativi della provincia, compresi abitanti di lingua inglese e gruppi autoctoni, che si sono in larga misura e fermamente opposti all’indipendenza. E l’esperienza pregressa dimostra come un simile vocabolario possa risultare manipolatorio a fini politici (Crimea), come possa in parte inibire più ampi progetti di emancipazione sociale (Bosnia) o come possa non essere in grado di risolvere automaticamente le questioni relative al giusto grado di “appartenenza” nell’ambito di uno Stato (Catalogna).
Non deve sorprendere che la vittoria del fronte del “no” al referendum scozzese sia stata accolta con un immenso sospiro di sollievo al di fuori della Gran Bretagna. C’era infatti la percezione che un’eventuale indipendenza della Scozia potesse generare scompiglio e ulteriore frammentazione in un’architettura europea già assai fragile. Oltretutto, avrebbe potuto creare un precedente pericoloso per altre entità separatiste a venire. Per altro verso, gli scozzesi sono perlopiù pro-Europa e l’Unione Europea si è impegnata a proteggere le minoranze nazionali nell’ambito di un sistema di governance multilivello.
La prassi recente dimostra come i referendum di secessione difficilmente funzionino, a meno che non facciano parte di lunghi ed esaustivi processi di negoziazione che coinvolgano tutte le parti interessate (come in Sudan del Sud). Non si intende con ciò dire che le richieste legittime da parte di entità politiche rilevanti debbano essere ignorate. Anzi. Nel caso del Quebec, la Corte Suprema è stata ferma nel dichiarare che una netta maggioranza locale a favore della secessione avrebbe determinato un dovere morale e costituzionale di risposta da parte del governo federale, da ottemperare impegnandosi in un dialogo in buona fede con la provincia del Quebec. Non importa quanto ci sia andata vicino: la campagna per il “sì” non è riuscita in Scozia a conquistare una maggioranza a favore dell’indipendenza, e il Regno Unito non è (ancora) uno Stato federale. Si sarebbe politicamente e costituzionalmente in malafede, però, a liquidare il considerevole risultato ottenuto dal “sì” il 18 settembre come riflesso di un illegittimo risentimento nei confronti del governo centrale di Londra.
In realtà, il voto scozzese sulla questione rappresenta da ambo le parti un pacifico e democratico appello a una riconfigurazione costituzionalmente inclusiva dello Stato. Molto si è fatto in Europa occidentale negli ultimi 60 anni o giù di lì per elaborare istituzioni e modelli di condivisione del potere capaci di rendere sostenibili gli Stati multinazionali e anche di aumentare dall’interno l’inclusività delle entità politiche “nazionali”. Fondamentalmente, il voto scozzese indica che si può e si deve fare di più allo scopo di gettare basi più solide per gli Stati inseriti in società pluralistiche. La tabella di marcia da seguire per raggiungere tale obiettivo nel Regno Unito è già oggetto di accesa discussione e riflessione politica. Ma quella che ne dobbiamo trarre è una lezione di fondo che parla di democrazia e dibattito aperto entro i confini dei soggetti politici regionali e nazionali, non di un’illusoria indipendenza da ottenere con la pistola puntata.
Gaetano Pentassuglia è professore di diritto internazionale e diritti umani presso l’Università di Liverpool, Regno Unito.
Traduzione di Chiara Rizzo
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