Cento anni fa, il 29 aprile del 1914, a Montecchio Maggiore in provincia di Vicenza, nasce Mario Dal Pra, uno dei massimi storici della filosofia e filosofi italiani del secolo scorso. Laureato all’Università di Padova, insegna dapprima nelle scuole superiori e quindi all’Università di Milano ininterrottamente dal 1946. Partecipa alla nascita del Partito d’Azione di Vicenza e poi alla resistenza nelle file di “Giustizia e Libertà”. Nel 1946 fonda la “Rivista di storia della filosofia” che dirige fino al 1992, anno della sua morte. Questa è la trascrizione di una conversazione tra due dei suoi allievi, Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri, di cui fu professore di Storia della filosofia medievale, e Massimo Parodi, che a distanza di quindici anni studiò con lui Storia della Filosofia. Nel centenario della nascita del grande filosofo, insieme ricordano il comune maestro.
Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri
Della filosofia medievale allora, nel 1954, io non sapevo nulla e poco sapevo del medioevo – come del resto i miei nipoti, propensi a credere che “medioevo” sia da un lato una parolaccia e dall’altro un oggetto reale oscuro e polveroso. Se si sta al linguaggio giornalistico corrente e ai luoghi comuni le cose oggi purtroppo non sono molto cambiate da allora. In una delle prime lezioni che ho ascoltato, Dal Pra con la consueta cautela e precisione ci parlò della “inesistenza” del medioevo. Sorpresa di noi tutti (negli anni cinquanta eravamo in sette o otto). La cosa si chiarì via via.
L’insegnamento quindi iniziava dall’aspetto più sofisticato dell’argomento in questione, la prospettiva storiografica. Appresi con i miei compagni – fra i quali Arrigo Pacchi, Paolo Beonio Brocchieri, Enrico Filippini, Paolo Caruso – che il termine “medioevo” non denotava un tempo storico identificabile con precisione dagli studiosi, ma nasceva da un giudizio, quello degli intellettuali del Quattrocento fissato poi dagli eruditi del XVII e XVIII secolo (il Keller per esempio) e divenuto una idea “combattente” per opera di Voltaire, De Condillac, d’Alembert e compagni che definivano il millennio medievale un’epoca “superstiziosa … sottilmente vana … pseudoscientifica e barbara”. Agli illuministi in genere la media aetas appariva dunque priva di caratteri propri (“né carne né pesce”) schiacciata fra la classicità splendente e perduta e la promessa di una modernità più giusta e “scientifica”. Sono tutti giudizi che, d’accordo, avevano le loro ragioni, ossia la lotta contro l’ancien règime identificato con un passato barbaro, giudizi che però non troviamo negli studi di Leibniz che i testi medievali li conosceva davvero. Capii una volta per tutte che le grandi categorie storiografiche, come “medioevo”, servono più a comprendere coloro che le usano (o le inventano) che gli oggetti ai quali vengono applicate. Dal Pra incominciava dunque la lezione dall’aspetto più complesso dell’argomento in questione e più che esporci un tema di storia del pensiero medievale, ci presentava con semplicità e chiarezza estreme una prospettiva di storia della storiografia delineando un livello sofisticato di analisi di cui non sospettavamo nemmeno l’esistenza. Anni dopo Dal Pra insegnava Storia della filosofia e fra gli studenti c’eri tu Massimo.
Massimo Parodi
Quando io mi iscrissi a filosofia, nell’anno accademico 67-68, senza avere il minimo sospetto che quell’anno avrebbe segnato una svolta importante nella storia d’Italia e non solo, decisi di frequentare subito il corso di Storia della filosofia tenuto da Dal Pra. Volevo immergermi in quella ricerca e in quegli autori che mi avevano affascinato fin dal primo anno del liceo, ma il programma del corso spaventava un poco sia me sia i miei compagni perché si incentrava su Kant e Scoto Eriugena – elencati esattamente in questa successione non cronologica – e, per quanto riguardava il secondo, il programma prevedeva una piccola antologia con pagine in latino tratte dal De divisione naturae che non era difficile prevedere si sarebbero trasformate in un incubo per la preparazione dell’esame.
Quando si stava per chiudere la prima parte del corso e si avvicinava il momento di fare i conti con il pensatore medievale, iniziarono anche i primi scontri con la polizia davanti all’università; il clima si stava facendo teso e confuso. Dal Pra, come sempre calmo e attento nella scelta delle parole con cui tradurre il suo pensiero, ci disse con grande semplicità che gli avvenimenti in corso fuori delle nostre aule gli creavano qualche difficoltà e non era sicuro di riuscire a spiegarci fino in fondo i motivi per cui intendeva affrontare un autore così lontano nel tempo sia da noi, sia da Kant, e dunque aveva deciso di proseguire il suo insegnamento con altre interpretazioni del pensatore tedesco e di eliminare la parte dedicata al pensiero medievale.
Fu tale la soddisfazione di sapere che non avremmo dovuto misurarci con quelle terribili pagine di latino, che neppure mi venne in mente di interrogarmi sui motivi profondi di quella scelta e solo decenni dopo sono riuscito a rendermi conto di quanto contenesse della storia intellettuale e morale di Dal Pra e di quanti insegnamenti se ne potessero trarre e di fatto ne avessi tratto, al di là di quanto imparavo dalle sue lezioni sempre di una esemplare chiarezza.
Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri
Hai ragione: la limpidità del suo discorso era straordinaria, rinfrescante come una doccia d’estate, e mai a scapito, lo capii dopo, della precisione. Chiaro anche su autori che non avevamo mai sentito nominare fino ad allora come Giovanni di Salisbury per noi una sorta di Carneade medievale di cui scoprimmo aspetti singolari anzi, non vorrei sembrare eccessiva, persino affascinanti. Credo che anche Eliot la pensasse così quando ne fece il breve ritratto nel suo Assassinio nella cattedrale.
Massimo Parodi
Per quanto riguardava Kant, era molto significativo il riferimento allo studio di Piero Martinetti, di cui lo stesso Dal Pra aveva curato la pubblicazione, che propone una lettura del pensiero kantiano che lascia aperta una via verso la religione e quindi una possibilità di uscire dal soggettivismo e dall’immanentismo idealistico, che avevano invece caratterizzato il clima culturale italiano in cui Dal Pra aveva svolto i suoi studi presso l’università di Padova. Proprio contro questo tipo di lettura e di sviluppo della filosofia moderna era il suo primo scritto, tratto dalla tesi di laurea, Il realismo e il trascendente, nel quale si propone di confutare la tesi idealistica secondo cui la realtà non esiste se non in relazione all’attività pensante, per sostenere invece l’affermazione realistica di una realtà trascendente il pensiero.
Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri
Ritornando alle lezioni sul pensiero medievale penso che sia proprio la prospettiva realistica di cui parli e l’attenzione già filosofica alla prassi a spiegare l’interesse direi appassionato ma sempre rigoroso (aggettivo tipicamente dalpraiano!) per filosofi come Guglielmo d’Ockham, grande logico come sappiamo pronto a impegnarsi attivamente nella riforma della società e della chiesa del suo tempo. Il corso di lezioni e i saggi che fino agli ultimi anni Dal Pra ha dedicato a Ockham ce lo presentano appunto così, un uomo pronto a lasciare i sottili studi di logica per gettarsi nella lotta politico-religiosa che la realtà richiedeva. Forse in questo senso dallo studio del pensiero medievale Dal Pra non si è mai allontanato del tutto, dal momento che proprio nel cosiddetto medioevo poteva trovare molti esempi di intellettuali impegnati e pragmatici.
Massimo Parodi
I riferimenti al pensiero medievale come a quello antico non mancano nella riflessione di Dal Pra: anche nella sua prima opera compare un riferimento a Scoto Eriugena, per discutere il modo in cui intendere il rapporto tra Dio, l’assoluto, e il mondo e mettere in evidenza – malgrado le difficoltà innegabili – la possibilità di mantenere una distinzione tra i due termini che non diventi però una separazione che renderebbe il mondo del tutto indipendente dall’assoluto e porterebbe a un modo di intendere la trascendenza che non permette alcun tipo di immanenza.
Proprio a Eriugena viene dedicato il primo studio impegnativo di Dal Pra sulla storia della filosofia medievale, a conferma della sua convinzione e del suo insegnamento secondo cui la storia della filosofia è sempre in qualche modo legata alla filosofia e le prese di posizione di carattere storiografico hanno sempre un’inevitabile componente di carattere teorico. Nel 1941, contemporaneamente a quel processo di presa di coscienza morale e politica che lo porterà all’impegno nella resistenza, torna a riflettere, attraverso un’analisi minuziosa del pensiero del filosofo del IX secolo – una disamina precisa e puntuale si potrebbe dire, per usare una sua tipica espressione di cui si ricorda ogni suo studente –, sulla possibilità di coniugare una prospettiva panteistica, che in Eriugena rappresenta l’esito estremo dell’identificazione tra Dio e mondo, con la fede cristiana e la sua affermazione della trascendenza di un Dio personale.
Il suo rapporto con la fede cristiana è ancora, in questi anni, molto stretto e, mentre l’Italia si avvicina alla svolta dell’8 settembre, Dal Pra dedica alla Necessità attuale dell’universalismo cristiano un volumetto di grande impegno filosofico e politico, all’interno di una straordinaria collana da lui curata a Vicenza, che comprende nove libri, pubblicati dal gennaio all’agosto del 1943, che con la sua stessa esistenza testimonia quanto per Dal Pra fosse stretto il legame tra riflessione filosofica e impegno morale e politico. Accanto a studi di alcuni dei principali esponenti del nascente Partito d’Azione di Vicenza, compaiono un’antologia di pagine di Stuart Mill sul tema della libertà, l’ultimo discorso tenuto da Matteotti nel 1924, prima di essere ucciso dai fascisti, e, ancora, la prima biografia di Piero Martinetti, a opera di Stefano Poggi.
Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri
Scorrendo i titoli delle numerose opere scritte da Dal Pra è evidente il suo interesse – per quanto riguarda il pensiero medievale – per quegli autori che nel loro tempo si erano impegnati nella critica e nell’azione contro gli aspetti delle istituzioni ritenuti ingiusti e oppressivi: ma attenzione non erano i semplici “eretici” a interessarlo, erano i pensatori critici e dissenzienti, autori di testi precisi e taglienti nelle argomentazioni. E anche ricchi di un pathos che pochi allora sospettavano esserci in uomini appunto “medievali”! Penso a Ockham, ancora, e ad Abelardo ma anche alle lettere “politiche” di Anselmo d’Aosta ignote ai più. Ricevere da lui come tema per la mia tesi di laurea l’analisi dell’insegnamento logico di Abelardo fu allora e anche oggi motivo di orgoglio. Era un tema importante anche perché da poco erano disponibili le edizioni complete delle opere logiche di Abelardo. Me le lessi tutte, anzi per usare una parola medievale le “masticai”, e per paura (ero tra l’altro l’unica ragazza del corso) che la commozione per la tragica vicenda d’amore del personaggio Abelardo mi portasse a scrivere in uno stile scopertamente “donnesco”, composi un lavoro così rigoroso e analitico che oggi a rileggerlo mi stupisce per il suo tono serioso e accademico degno più di una vecchia signora che di una ventenne. Mentre lui, il mio maestro, in un prezioso saggio del ‘48, commentando le parole audaci delle lettere di Eloisa, non aveva esitato a presentarla come suggeritrice di Abelardo per alcune tesi dell’Etica.
Massimo Parodi
Due autori lontani fra loro, Martinetti ed Eriugena, sono ben presenti nella formazione di Dal Pra che sul filosofo medievale torna con una seconda edizione nel 1951, a dieci anni dalla prima e dopo il passaggio attraverso la guerra mondiale, la resistenza e la caduta del fascismo. È ancora viva in lui la riflessione sul rapporto fra trascendenza e immanenza, tra ricerca filosofica e religione, tra neoplatonismo e cristianesimo che, nella storia del pensiero occidentale, propone esattamente questi problemi e cerca soluzioni. Nella seconda edizione vengono smussati alcuni tratti che nella prima risultano più radicali e, in particolare sembra significativa la frase che conclude l’esposizione del pensiero del filosofo irlandese: se dunque Dio è oltre la vita terrena, è anche oltre la vita futura, oltre l’eternità; la sua oggettività viene, per così dire, sospesa e di lui resta, unica testimonianza, l’infinita ricerca che gli uomini e gli esseri ne fanno.
L’idea della infinità della ricerca, anche in ambito storico filosofico, è destinata a rimanere una delle indicazioni che Dal Pra trasmetterà, negli anni successivi, ai suoi allievi e una delle possibili risposte sarà da lui ricercata, insieme all’amico Andrea Vasa, nella posizione teorica e metodologica che definiranno trascendentalismo della prassi, nella quale a mio parere si trovano molti dei temi che verranno poi esaltati, qualche decennio dopo, dal cosiddetto pensiero debole. Anche se nella ricerca, teorica e storica, non si può mai pretendere di giungere a risultati definitivi, statici, in grado di mettere le braghe al mondo – secondo un’altra delle sue espressioni ricorrenti nelle conversazioni con gli allievi – un’esigenza costitutiva della conoscenza umana è pur sempre quella di mettere capo a risultati intermedi, anche se nella precisa consapevolezza che sono destinati a essere rimessi in discussione e superati, lungo il percorso infinito della ricerca.
Si tratta anche di un imperativo di carattere morale, della volontà di non lasciarsi immobilizzare da prospettive scettiche assolute che rischiano di immobilizzare il pensiero e l’azione. Per questo oggi sono convinto che quella sua scelta, nel mio primo anno di corso, fosse anche un insegnamento proprio di carattere morale: con quello che sta succedendo fuori di queste aule, forse l’atteggiamento giusto è di uscire, di andare a vedere, di partecipare. E dunque fu la continuazione di questo impegno, che veniva fin dal lontano 1943, a spingere Dal Pra ad assumersi la responsabilità negli anni seguenti – anche come preside di facoltà in momenti quanto mai turbolenti – di essere sempre aperto alle istanze degli studenti e di mediare sia con i colleghi più rigidi sia con le esigenze della serietà degli studi filosofici, rispetto alla quale mai fu disposto a compromessi.
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Entro il gennaio del 2015 uscirà un tomo assai voluminoso di scritti di allievi e amici in ricordo di Mario Dal Pra. Per chi è interessato a conoscere le sue opere consigliamo la lettura della bibliografia, che arriva fino all’anno 1983, a cura di Luca Bianchi apparsa nel volume, offerto a Dal Pra per i suoi 70 anni (La storia della filosofia come sapere critico, Franco Angeli 1984 che si apre con una straordinaria premessa di Eugenio Garin).
Immagine di copertina: Dettaglio dell’affresco nel Cappellone degli Spagnoli di Santa Maria Novella, Firenze, XIV Secolo. L’affresco (di Andrea di Bonaiuto), rappresenta l’arcivescovo di Pisa Simone Saltarelli, ai piedi di Papa Innocenzo VI, mentre ammonisce Guglielmo da Ockham e Michele da Cesena, ministro generale dei francescani. A sinistra e a destra del papa il cardinale Egidio di Albornoz e Carlo IV di Lussemburgo.
Ringrazio “Reset” e i due interlocutori per questa trascrizione. Mi interesso del pensiero di Dal Pra sia in termini di storiografia della filosofia sia in quanto Dal Pra è stato uno studioso di Condillac e autore di una delle poche monografie in lingua italiana sul filosofo francese. Conosco i lavori pubblicati da Dal Pra su Condillac, ma purtroppo non ho ancora avuto né tempo né modo di studiare le carte del Fondo, dal quale catalogo risulta che Dal Pra aveva preparato due corsi su Condillac, uno nel 1966-67 e l’altro nel 1980-81.
L’interesse di Dal Pra per la filosofia condillachiana ritorna nel lungo periodo tre volte. Ricordando i lavori pubblicati da Dal Pra durante la guerra, Fumagalli Beonio Brocchieri e Parodi non menzionano la monografia su Condillac del 1942. La cosa che mi ha colpito leggendo questo saggio è il fatto che a Dal Pra interessa il pensiero di Condillac come astrazione dello Spirito (Dal Pra è influenzato dalla lettura idealista del Carlini su Condillac) dalla presa del reale, e come questo atteggiamento sia spesso criticato da parte dell’autore. Ora mi pare di capire come questo aspetto sia collegato al senso filosofico della tesi di laurea di Dal Pra, citata nella conversazione. Mi sono sempre chieso se questa lettura “spiritualista” di Condillac, anche alla luce dell’incrementarsi della letteratura sul filosofo francese, persista anche nelle due tappe seguenti in cui Dal Pra ritorna su Condillac. Da un discorso pronunciato nel 1968 e pubblicato l’anno seguente, dedicato al “Cours d’étude”, sembrerebbe di sì (almeno relativamente alla seconda tappa), ma la cosa non è molto chiara: in effetti mi sembra che in questo caso ciò che interessa Dal Pra sia il Condillac storico, alla luce di un importante articolo pubblicato da Luciano Guerci nel 1966 sulla composizione del “Cours d’étude” .
Vi ringrazio per questa conversazione e per lo spazio concessomi per questo commento.