Reset-Dialogues on Civilizations è lieta di pubblicare i sommari della conferenza organizzata dal Centre for the Study of Islam and Democracy al National Press Club di Washington, al quale hanno partecipato tra gli altri John Esposito, Shadi Hamid, Michele Dunne e Michael O’Hanlon per discutere “L’Isis, la radicalizzazione e la politica della violenza e dell’alienazione”.
La comunità internazionale è in allarme per la nuova minaccia rappresentata dal cosiddetto Stato Islamico (ISIS). L’organizzazione ha assunto il controllo di vaste aree dell’Iraq e della Siria, ha sconvolto le coscienze del mondo intero con il massacro di migliaia di civili e il crimine della decapitazione di James Foley, e ora promette di estendere il proprio regno di terrore a tutto il Medioriente e oltre. Il fenomeno ISIS è visto oggi come una novità e i suoi sembrano successi senza precedenti, ma le cause che ne sono all’origine non sono affatto nuove. Un elemento chiave per il diffondersi del radicalismo in Iraq e Siria è stata l’incapacità dei governi nazionali e dei poteri regionali e globali di rispondere a questioni politiche e rivendicazioni cruciali. Questi nuovi radicali non sono semplici terroristi vecchio stampo, malgrado mettano in atto alcune delle stesse tattiche e retoriche. Si tratta piuttosto di una forza militare all’avanguardia, ben finanziata, composta da decine di migliaia di guerrieri che aumentano ogni giorno, con ben sviluppati vertici di comando e controllo e grandi ambizioni. I suoi membri provengono da decine di Paesi in cui la transizione democratica ha fallito o è andata incontro a uno stallo, in cui vige una corruzione sfrenata, in cui capi autoritari privilegiano la “stabilità” politica ed economica a scapito di libertà, democrazia e trasparenza. Un numero sempre maggiore di giovani alienati, alcuni dei quali sono gli stessi che tre anni fa capeggiavano la Primavera Araba, sta sposando questa nuova causa. Per comprendere il fenomeno ISIS e le politiche che nella regione hanno contribuito alla sua affermazione, il Center for the Study of Islam and Democracy (CSID) ha invitato un panel di autorevoli esperti a confrontarsi sul tema.
John L. Esposito
(Professore di Religione, Affari internazionali e Studi Islamici, direttore e fondatore del Center for Muslim-Christian Understanding Prince Alwaleed Bin Talal, Università di Georgetown)
John Esposito ha insistito sul bisogno di una soluzione onnicomprensiva per risolvere il problema dell’ISIS, soluzione che dovrebbe includere elementi sia a breve che a lungo termine che necessitano di essere presi in considerazione simultaneamente. Tra i principali fattori che hanno contribuito all’affermazione di gruppi estremisti come l’ISIS c’è, in primo luogo, il livello di violenza senza precedenti scatenato dal regime di Assad contro civili e movimenti di opposizione, che ha fatto precipitare la Siria nella guerra civile e ne ha determinato la divisione in correnti etniche e religiose. In secondo luogo, c’è stata l’incapacità della comunità internazionale di agire tempestivamente e cooperare con gli attori regionali all’imposizione di una soluzione politica, aggravata dai contrasti tra i gruppi di opposizione. Terzo, ci sono il finanziamento e supporto da parte della regione del Golfo e non solo alle organizzazioni jihadiste salafite come ISIS e al regime di Assad, che hanno avuto come risultato la guerra per procura in Siria. E quarto, c’è la marginalizzazione politica dei musulmani sunniti in Iraq per opera del governo di Maliki.
L’ISIS, come Al-Qaeda, è portatrice di un’ideologia religiosa militante distorta che viola i principi fondamentali dell’Islam. Tuttavia, al contrario di altri gruppi estremisti che parlano di califfato, essa punta a creare uno Stato e a governare sui territori da esso occupati e controllati. Impone leggi draconiane, ma garantisce anche i servizi sociali e raccoglie tasse o pizzo. Per quanto la religione abbia un ruolo nel reclutamento e nella motivazione dei membri, la forza trainante di ISIS è costituita da una lista di rimostranze tra cui quella contro ciò che l’organizzazione vede in Iraq e Siria come “un’invasione o occupazione estera e corrotta, accompagnata dall’uccisione di decine di migliaia di civili”. Non solo: gli studi dimostrano come “l’offesa morale, la disaffezione, la pressione da parte dei propri pari, la ricerca di una nuova identità e di un senso di scopo, obiettivi e appartenenza” siano tra le principali ragioni per cui migliaia di giovani musulmani aderiscono all’ISIS e ad altri gruppi estremisti. L’ISIS e le organizzazioni affini resteranno una minaccia per parecchi anni a venire.
Trattare con l’ISIS è in primo luogo una responsabilità della gente della regione, ma sicuramente ci sarà bisogno del supporto degli USA, dell’UE e degli attori regionali. Per riuscire ad avere la meglio sull’ISIS e a sconfiggere sia il movimento che i fenomeni che l’hanno generato, è necessario gestire la lunga lista di insoddisfazioni su cui il gruppo fa affidamento per il reclutamento e l’appoggio. La comunità internazionale – in particolare Stati Uniti e Unione Europea – deve formulare una posizione di principio rispetto alla situazione in Egitto dopo il colpo di Stato, all’attacco israeliano a Gaza e alle violazioni dei diritti umani ai danni dei palestinesi e alla difficile situazione del popolo siriano.
Shadi Hamid
(Membro del Center for Middle East Policy presso la Brookings Institution e autore di Temptations of Power: Islamists and Illiberal Democracy in a New Middle East, letteralmente “Tentazioni di potere: islamisti e democrazia illiberale in un nuovo Medioriente”)
Shadi Hamid ha messo in discussione il diffuso punto di vista secondo cui la minaccia dell’ISIS non ha “niente a che fare con l’Islam” perché “l’Islam è una religione di pace”. Per trattare in maniera efficace con l’ISIS, l’amministrazione Obama deve fare uno sforzo importante che tenga conto delle cause all’origine non solo dell’ISIS, ma di tutta la sua ideologia e visione del mondo. Questo sostanziale cambiamento di politica dovrebbe contemplare un’analisi e approfondimento della complessità dell’ISIS, un più fitto invio di armi e addestramento dei liberi ribelli siriani così da fare la differenza nella guerra contro Assad, e l’appoggio a un’inclusione degli islamisti moderati – compresi i Fratelli Musulmani – in Egitto. L’ISIS è un fenomeno che si poteva chiaramente prevedere, specie quando l’America non ha voluto prendere una posizione leader e più attiva nel supporto ai ribelli siriani contro il sanguinario regime di Assad.
Secondo Hamid, l’ISIS non è un male inesplicabile. Egli concorda sul fatto che per la maggior parte dei musulmani l’Islam sia effettivamente una religione di pace e che la stragrande maggioranza di loro non approvi il gruppo e le sue azioni brutali. L’ISIS è una perversione dell’Islam, e tra gli islamici radicali c’è poca consapevolezza rispetto a cosa sia e a cosa dovrebbe essere un buon governo. Quel che distingue l’ISIS dagli altri gruppi estremisti della regione è il suo prendere il concetto di “governo” molto sul serio. Nei territori sotto il suo controllo, il movimento ha migliorato l’operato dell’amministrazione locale, l’esercizio della “giustizia” nei tribunali della shari’a, l’erogazione di servizi basilari come acqua ed elettricità, e la distribuzione dei fondi zakat per i servizi sociali. Ciò gli ha guadagnato l’appoggio di parte della popolazione locale malgrado i più non siano d’accordo con la sua interpretazione dell’Islam. L’ISIS si è dimostrato meno arbitrario di molti regimi autoritari. Le sue linee di demarcazione sono più chiare, e la gente che ne segue le rigide regole non è soggetta alla costante minaccia di atti arbitrari e agli umori variabili di un dittatore qualsiasi. Il colpo di Stato egiziano e la sanguinaria repressione dei manifestanti pacifici ha rafforzato la narrazione propria dell’ISIS secondo cui uno Stato islamico può essere realizzato solo con la violenza e il potere non si concilia più con degli islamisti che giochino secondo le regole della democrazia.
Per sconfiggere l’ISIS è necessario che alle azioni militari si accompagni un grande impegno politico. L’amministrazione deve prendere atto della netta differenza tra le sue priorità e quelle dei suoi alleati nella regione che stanno andando a definire tutti gli islamisti una minaccia esistenziale. L’ISIS ha sfruttato un’attrazione per il califfato che ha radici profonde tra molti musulmani e ha dimostrato di poter realizzare quell’obiettivo, il che lo rende estremamente pericoloso.
Michele Dunne
(Associata Senior nel Programma Medioriente del Carnegie Endowment for International Peace, già direttrice e fondatrice dell’Hariri Center presso l’Atlantic Council)
Facendo riferimento all’articolo di un opinionista pubblicato sul New York Times, Michele Dunne ha lamentato la mancanza di strategia nel trattare con l’ISIS. Si è detta d’accordo con Shadi Hamid sul fatto che debba esserci una strategia politica che accompagni passo passo qualsiasi azione militare. Tale strategia deve riaffermare la democrazia e il rispetto dei diritti umani come obiettivi primari senza forzature e incertezze per quanto riguarda i nostri alleati regionali. D’altro canto – ha sottolineato – cooperare con gli alleati non è esente da complicazioni perché si tratta di soggetti divisi tra loro in modalità del tutto nuove, e alcuni stanno cercando di trascinare l’America su una rotta disastrosa.
Nella regione ci sono due fazioni. La prima comprende Arabia Saudita, Emirati Arabi, Egitto e altri convinti che tutti i gruppi politici islamisti siano organizzazioni terroristiche e vadano tenuti fuori da qualsiasi discorso politico o civile. Caso emblematico, il colpo di Stato militare in Egitto che ha spodestato un governo nominato per elezione cui è seguita una repressione sanguinaria con decine di migliaia di persone arrestate e che è costata migliaia di vite. L’altra fazione è rappresentata da Turchia e Qatar, per i quali ai gruppi islamisti disposti a giocare secondo le regole dovrebbe essere consentita e incoraggiata la partecipazione. Di fatto, nell’etichettare tutti gli islamisti come terroristi la prima fazione non sta prendendo una posizione di principio quanto piuttosto di natura politica. Molti di coloro che ne fanno parte fanno già comunella con diverse varietà di islamisti, ma si oppongono ai Fratelli Musulmani, perché li percepiscono come l’unico gruppo in grado di costituire una minaccia significativa per il loro potere. La repressione ai danni dei Fratelli Musulmani e di altri gruppi moderati porta alcuni giovani musulmani ad aderire all’ISIS e ad altri gruppi estremisti.
Gli Stati Uniti stanno facendo la cosa giusta non sposando il punto di vista della prima fazione, ma allo stesso tempo non stanno facendo abbastanza per incentivare la partecipazione politica e l’inclusività. In un momento in cui la regione sta attraversando degli smottamenti tettonici, l’amministrazione si sta tirando indietro e non sta assumendo un ruolo di guida o di responsabilità, il che ha lasciato alcuni alleati nell’incertezza. Questo clima di insicurezza aiuta a spiegare gli attacchi aerei sferrati da Egitto ed Emirati Arabi in Libia. Il fenomeno ISIS si è affermato rapidamente e l’America deve resistere alla tentazione di optare per soluzioni a breve scadenza a scapito di interessi a lungo termine come la democrazia e i diritti umani.
Michael O’Hanlon
(Membro Senior del Center for 21st Century Security and Intelligence e direttore di ricerca del programma sulla politica estera presso la Brookings Institution)
Michael O’Hanlon ha concordato con gli altri relatori nell’inquadrare la questione ad ampio raggio dell’ISIS in quanto gruppo estremista che rappresenta una seria minaccia e che impone, per contrastarlo, il ricorso a una strategia sia politica che militare. Resta l’interrogativo di che genere di azioni militari ci sia bisogno per gestire questo pericolo.
Finora gli Stati Uniti hanno fatto un buon lavoro nel respingere la minaccia ai curdi e nell’esercitare pressioni su Nuri Al Maliki affinché si dimetta e consenta la formazione di un nuovo governo sciita, più inclusivo e conciliante nei confronti degli altri gruppi, in particolare dei sunniti.
Per quanto concerne la Siria, il Congresso americano deve agire presto e approvare il finanziamento da 500 milioni di dollari per addestrare ed equipaggiare i ribelli siriani proposto dall’amministrazione Obama. In Iraq devono succedere tre cose: bisogna intensificare gli attacchi aerei contro l’ISIS, condurre operazioni speciali (contro obiettivi chiave e leader dell’ISIS) e aiutare la ricostruzione dell’esercito iracheno con attività di addestramento e mentoring. L’intervento americano in Iraq potrebbe assomigliare ma anche trarre insegnamento da quello in Afghanistan. L’America è in guerra con l’ISIS e deve muoversi con rapidità e aggressività per sconfiggerlo.
Guarda il video della conferenza su c-span:
Vai al sito del CSID: www.csidonline.org
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Traduzione dei testi dall’inglese di Chiara Rizzo