E sull’Italia in Libia a guidare una missione militare Onu, il vice ministro degli Esteri dice: “Per ora aiutiamo a negoziare una tregua”
Da Reset-Dialogues on Civilizations
È tornato in Italia con l’ultimo volo da Erbil prima che iniziassero i raid Usa contro i jihadisti dell’Isis, dopo aver visto il volto ferito dell’Iraq nei campi profughi: svuotati da quelle persone che, avendo già lasciato tutto una volta per sfuggire agli uomini del ‘califfo’ al-Baghdadi, ora si apprestano a scappare di nuovo. È cominciato così il lungo agosto del vice ministro degli Esteri Lapo Pistelli, delegato del governo italiano per il Medio Oriente, con un passato da docente e rappresentante all’Osce, oltre che nelle commissioni esteri del parlamento italiano ed europeo. Oggi, nella sua riflessione, una crisi internazionale o il sistema delle decisioni chiamato a porvi rimedio non sono materia per strateghi da tavolino, perché, laddove i fatti impongono la propria durezza, solo dalla centralità dell’Onu e dalle duttili vie della politica e della diplomazia viene la miscela che può impedire la risacca.
La crisi in Iraq e la minaccia dell’Isis. Il più massiccio sostegno ai curdi, necessario, non rischia di tradursi in un ancor maggiore squilibrio tra le componenti dello stato iracheno e di aprire problematiche ancora più vaste?
Tutti sono consapevoli delle aspirazioni indipendentiste del Kurdistan ma, per quanto sembri paradossale, il rafforzamento dell’autodifesa di Erbil è oggi la condizione immediata e necessaria perché esista ancora un Iraq unito e unitario. Se Isis vincesse, o avesse vinto nelle settimane scorse, avremmo oltrepassato il punto del non ritorno. Così non è per ora, fortunatamente. E comunque ogni aiuto al Kurdistan è stato comunicato e autorizzato assieme a Baghdad.
Al-Abadi può vincere la scommessa americana e internazionale e creare un ordine più «inclusivo», com’è nelle speranze di Obama e di tutti noi?
Lavoriamo tutti per quel risultato. Dopo due mesi difficili durante i quali Isis si era rafforzato anche grazie al “vuoto” di Baghdad, la designazione di al-Abadi e la promessa di un governo inclusivo e unitario costituiscono la precondizione politica per provare a ripartire.
Lei è di recente rientrato da un viaggio sul campo: quanto è lontano l’Iraq del presente dall’ipotesi di convivenza multietnica e multireligiosa che dovrebbe rappresentare un ideale pacificato stato iracheno?
La situazione è molto difficile effettivamente. La contrapposizione fra sunniti e sciiti è stata affiancata da una crescente sfiducia delle altre minoranze verso i sunniti, considerati vicini al progetto di Isis. Ma la politica non serve a commentare la realtà quanto a cambiarla. Perciò non perdiamo la speranza di riportare le tre comunità principali a un buon grado di cooperazione.
La crisi irachena e quella siriana non sono anche l’esaurimento di una certa modalità delle relazioni internazionali: per quanto potrà l’Europa restare priva di una politica estera attiva e di una dotazione militare comune all’Unione?
Vaste programme! L’Unione Europea siamo noi e ogni politica comune ha bisogno di un conferimento di sovranità, di basi legali, di strumenti e di risorse da parte degli stati membri. La politica estera e di sicurezza sono ancora politiche adolescenti, in cui prevale la bandiera nazionale su quella comunitaria. Io non ho esitazione a definirmi federalista ma so che la strada è ancora lunga. E so che il mondo richiede all’Europa più di quanto i nostri egoismi nazionali sono disposti a concederle per rispondere alle aspettative dei non europei.
Abbiamo bisogno quindi di un nuovo approccio alle crisi internazionali, non puramente “contenitivo”? Come i governi possono guidare la sua messa in atto?
Servirebbe un libro… mi limito a dire che serve innanzitutto una politica fondata su un’analisi del mondo reale e su una visione di lungo respiro, cioè non condizionata dalla proprietà transitiva degli amici e dei nemici o da teorie studiate a tavolino e non confrontate con la durezza dei fatti. E poi serve la tenacia e la duttilità del saper dosare diplomazia tradizionale, strumenti di cooperazione e anche hard power in percentuali variabili a seconda delle circostanze e dei contesti.
Come immagina potrebbe strutturarsi un nuovo processo di governance delle situazioni di emergenza internazionali? Dovrebbe essere più elastico di quello attuale e localizzato in un centro unico, e cioè il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite? Potrebbe funzionare un sistema policentrico in cui agiscano partnership a geometria variabile?
Tutto bello sulla carta ma la logica delle coalition of the willing non ci ha portato molto lontano. Sono ancora convinto della centralità del sistema Onu; credo comunque alla capacità dell’Unione Europea o di altre organizzazioni regionali di costruire nuovi schemi di legittimazione degli interventi in aree di crisi. I meccanismi umanitari, invece, sia onusiani, sia europei che nazionali sono parecchio collaudati.
Secondo il quotidiano tedesco Die Welt, almeno il 10% dei militanti dell’Isis proverrebbero dalla Turchia. L’opposizione contesta a Erdogan di aver consentito ai jihadisti l’accesso a una serie di campi di addestramento. Questa deriva della Turchia non è anche conseguenza di errori europei?
Sono due argomenti troppo diversi, che non mescolerei. Il cammino europeo della Turchia e la generosità del progetto europeo sono ora in una situazione di stallo, perché per molte ragioni abbiamo perduto il momento magico, ma tutti sappiamo quanto i destini siano incrociati. Perciò lavoriamo perché tornino a incontrarsi prima possibile.
Su Isis non azzarderei stime. Il jihadismo più estremo è sempre quello che attrae il maggior numero di combattenti stranieri. Ciascuno guardi a casa sua e alle proprie centrali di reclutamento. Anche l’Europa non ha le carte in regola.
Il disgelo Usa-Iran fin dove può arrivare?
Mi auguro molto lontano. A partire da un’intesa sul nucleare, gli Stati Uniti e l’Europa potrebbero recuperare un interlocutore prezioso e utile per stabilizzare una regione complicata, per collaborare su dossier come Afghanistan e Siria, per depotenziare lo scontro settario intra-islamico. Rouhani è già stato molto prezioso per facilitare in Iraq il passo indietro di Maliki. Non dovremmo dimenticarlo.
All’altro capo della mezzaluna mediorientale c’è la Libia: altro crocevia di scontri su base tribale e religiosa. Il suo collega di partito e presidente della commissione difesa del Senato, Nicola Latorre, ha parlato di una missione militare nel paese, sotto l’egida dell’Onu e a guida italiana. Il governo intende procedere in questa direzione?
Agosto è il mese delle idee. Per ora cerchiamo di aiutare le diverse milizie a parlarsi, a negoziare una tregua, a permettere che il parlamento possa tornare – assieme al governo – a lavorare a Tripoli. Poi aiutiamo il nuovo inviato dell’Onu Bernardino Leon a coordinare gli sforzi dei diversi inviati. Poi vedremo. Le missioni devono avere un mandante, un mandato e un’assunzione di responsabilità condivise. Per ora l’Italia aiuta in modo decisivo le Nazioni Unite, mantiene aperta l’ambasciata e svolge un lavoro preziosissimo di ascolto e mediazione. Il resto si vedrà.
Per finire da dove abbiamo cominciato, dall’Iraq, lei ritiene che ad affrontare gli sviluppi della crisi basti la linea dell’emergenza umanitaria o gli Stati Uniti saranno costretti a optare per una forte presenza sul campo e non solo dal cielo?
Intanto sono grato a Obama per ciò che ha fatto. Nessuno sa davvero quante vite avevamo perso prima. Nessuno può immaginare quante ne abbiamo comunque salvate con quell’intervento. Comprendo la riluttanza americana dopo la fallimentare esperienza neocon.
Noi possiamo impedire che Isis si consolidi. È nel nostro interesse. Ma non possiamo ricostruire l’Iraq al posto degli iracheni.
Approfondimenti:
Massimo Campanini, “Iraq, il folle “califfato” di Al Baghdadi che i musulmani non possono accettare”
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