Da Reset-Dialogues on Civilizations
HEBRON – Nawal versa il tè in un bicchiere di plastica e ce lo offre. Il volto è stanco: “Da settimane non ci sono più turisti o gruppi di internazionali qui in Città Vecchia. Non c’è lavoro”. Nawal Slemiah, insieme alla sorella, è la fondatrice della cooperativa di donne Women in Hebron. Un piccolo negozio nel cuore della Città Vecchia, per metà occupata dalle autorità israeliane: sugli scaffali, prodotti fatti a mano da 150 donne dei villaggi intorno, cuscini, gioielli, borse, portafogli.
Mentre parla, un gruppo di soldati israeliani passa accanto al negozio, fucili spianati. Hebron è da sempre città sotto assedio, ma dal 12 giugno – giorno del rapimento e l’uccisione di tre coloni israeliani – le restrizioni sono drasticamente aumentate. Con loro, anche le violenze dei circa seicento coloni che vivono nei palazzi palestinesi occupati: “Marciano per le strade della città, lanciano pietre ai residenti, buttano escrementi e acqua putrida sui passanti”, ci racconta Hashem ‘Azze, attivista e residente in Shuhada Street, la via più importante della città fino al 2000, sede dei negozi, del mercato, della vita sociale e commerciale di Hebron. Da 14 anni è chiusa per ordine militare, saracinesche sbarrate e sbarre di ferro sulle finestre per evitare gli attacchi dei coloni.
Il 12 giugno, il governo israeliano ha lanciato una campagna militare durissima contro tutta la Cisgiordania. Con il pretesto di dover condurre ricerche per il ritrovamento dei tre coloni – seppure sia stato poi dimostrato che Tel Aviv sapeva fin dal giorno successivo che i tre erano già stati uccisi – l’esercito israeliano ha compiuto violenti raid nei villaggi e nelle città, ha arrestato oltre mille persone, ucciso 6 palestinesi fino all’8 luglio (altri 19 sono morti dall’8 luglio all’11 agosto) e ritirato i permessi di lavoro a tutti i residenti nel governatorato di Hebron. “La città di Hebron è stata chiusa completamente – ci spiega Anan Dana, membro dell’Hebron Defence Committee – In tutto il governatorato è stato imposto una sorta di coprifuoco, le case venivano perquisite anche più volte al giorno. Hanno proibito ai residenti di attraversare il confine con la Giordania, hanno ritirato i permessi di lavoro in Israele. Arrestavano chiunque uscisse di casa, anche famiglie intere, rilasciate solo dietro il pagamento di una multa di 200 euro”.
Tra gli oltre 100 detenuti, portati in carcere dal 12 giugno a Hebron, ci sono i tre figli di Abu Hassan Qawasmeh, Mohammed, Hussan e Hassan. La notte del 5 agosto, Hussan Qawasmeh avrebbe confessato di aver organizzato il rapimento dei tre coloni, dietro richiesta della leadership di Hamas a Gaza. Il movimento islamista ha sempre negato un proprio coinvolgimento nell’azione, giunta poco dopo la creazione del governo di unità nazionale con Fatah di cui il movimento islamista aveva estremamente bisogno: in crisi economica, isolato dal resto del mondo arabo, soffocato dalle restrizioni imposte dal nuovo governo egiziano, Hamas non aveva necessità di provocare Israele. Ma il governo di Tel Aviv ha colto la palla al balzo per lanciare l’attacco contro Gaza, distruggere Hamas e porre fine al governo di unità con Fatah, già ampiamente riconosciuto come legittimo dalla comunità internazionale.
Poche ore prima della presunta confessione, avevamo incontrato il padre di Hussan, nel suo piccolo negozio di prodotti per la casa, nella Città Vecchia di Hebron. Una vita difficile, da sempre nel mirino di Tel Aviv: due figli uccisi in manifestazioni durante la Seconda Intifada, un figlio deportato a Gaza e sei in prigione. “Israele ha montato accuse false contro i miei figli – ci racconta Abu Hassan – Subito dopo la notizia del rapimento, hanno perquisito le nostre case e arrestato Mohammed, Hassan e Hussan. Hanno detenuto anche me e mia moglie per fare pressioni su Hussan perché confessasse qualcosa che non aveva fatto. E ora minacciano di demolire la nostra casa. Non ci resta nulla”.
Il target principale è Hamas: “Il movimento islamista è da sempre molto forte a Hebron, città conservatrice – continua Anan – Oggi sono costretti a nascondersi, ad operare nell’ombra, per il timore di ulteriori arresti. La gente, però, guarda ancora con più favore ad Hamas, soprattutto in risposta alle politiche dell’Autorità Palestinese, che si comporta come una serva di Israele. Se Hamas dovesse perdere a Gaza, avrà comunque vinto in Cisgiordania. Se invece a perdere sarà Israele, ne pagheremo il prezzo qui: la campagna di questi ultimi due mesi contro Hebron è il modello che le autorità israeliane seguiranno in Cisgiordania. Maggiori restrizioni, incremento delle colonie, ulteriore militarizzazione”.
Una forma di punizione collettiva a cui è seguito l’attacco a Gaza e che ha infiammato la tensione in Cisgiordania e a Gerusalemme. Manifestazioni notturne, marce, azioni di base danno il ritmo alla vita di tutti i giorni nei Territori Occupati. Il popolo palestinese ha ritrovato quell’unità di base che le principali fazioni politiche non hanno saputo archiviare e sono sempre di più quelli che affermano sicuri di non voler più votare alle elezioni per la futura Autorità Palestinese. E mentre villaggi e organizzazioni organizzano raccolte fondi, cene di beneficienza, donazioni di sangue a favore di Gaza, gruppi di giovani hanno lanciato nuove campagne, sotto lo slogan “Siamo tutti Gaza”, perché – dicono in tanti – “questa operazione non è contro la Striscia, ma contro tutto il popolo palestinese”. E se alle manifestazioni del venerdì Fatah e Hamas marciano separate, bandiere di diverso colore e slogan differenti, la gente sembra essere a caccia di unità.
Oggi lo strumento principale è il boicottaggio. Una forma crescente di resistenza che si sta allargano in tutti i Territori. A Gerusalemme, i residenti palestinesi non vanno più ad acquistare nei negozi israeliani a Ovest ed evitano di usare i mezzi pubblici. In Cisgiordania, gruppi di attivisti entrano nei supermercati palestinesi e chiedono ai negozianti di sbarazzarsi dei prodotti israeliani che affollano gli scaffali. Attaccano adesivi dove annunciano che il negozio è ora “pulito” e che non sosterrà più economicamente l’occupazione.
Un’azione dalle concrete prospettive: negli anni passati, i Territori riuscirono con non poche difficoltà a boicottare la gran parte dei prodotti israeliani, provocando ingenti perdite al mercato israeliano e costringendo le aziende private a correre ai ripari, modificando le etichette dei prodotti. Da decenni l’economia palestinese è interamente dipendente da quella israeliana: mancato controllo dei confini e delle risorse naturali, confisca delle terre, perdita di competitività, hanno annichilito l’economia produttiva palestinese. Che oggi, con sacrificio, tenta di fare pressione sull’occupazione.
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Nelle immagini:
1) Soldati isralieani a Hebron
2) Manifestazione a Betlemme
Foto di Chiara Cruciati