Da Reset-Dialogues on Civilizations
Il 16 febbraio 2014, The New York Times Magazine ha pubblicato un articolo dal titolo “Container City” (“La città container”). Il nome si riferisce al campo di Kilis, nella Turchia meridionale, che ospita 14 mila rifugiati provenienti dalla Siria. Protetto da imponenti cancellate e circondato da una fitta rete di filo spinato, da fuori il Kilis sembra presentare le stesse caratteristiche di molti altri campi profughi di tutto il mondo, tratti che rendono questi luoghi pressoché indistinguibili da carceri o centri di detenzione per criminali. La popolazione del Kilis vive all’interno di 2053 container identici tra loro, distribuiti in file regolari. Le immagini che accompagnavano l’articolo ricordavano quelle dei container per spedizioni in un porto. Ogni container è una specie di roulotte da circa tre metri per sette composta da tre stanze, ed è dotato di televisione a colori che prende quasi mille canali, probabilmente captando programmi da tutti i vicini Paesi del Mediterraneo.
Tuttavia sono altre – al di là della pulizia delle strade e di un’organizzazione che garantisce elettricità autonoma, acqua e fognature – le caratteristiche uniche del Kilis per cui uno dei suoi ospiti siriani arriva a definirlo addirittura un “albergo a cinque stelle” (NYT, p. 31). Nel campo ci sono scuole, rigidamente a sessi separati secondo il volere dei siriani, tre drogherie in cui i rifugiati possono fare la spesa con carta di credito, un salone di bellezza e un barbiere in cui farsi tagliare i capelli gratis e usufruire di altri servizi, laboratori d’arte e corsi di ginnastica. Eppure, malgrado tutto ciò: “A nessuno piace vivere qui… per noi è dura ”, chiosa Basheer Alito, capo-sezione poche righe più su così prodigo di lodi nei confronti del campo e dei turchi. “Dentro, siamo infelici. In cuor mio è una situazione temporanea, non permanente” (31).
Il campo profughi di Kilis è ad oggi uno delle centinaia di luoghi simili sparsi in dodici Paesi del mondo. Stando a un rapporto dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, a metà del 2014 il numero di profughi presenti in tutto il pianeta ha raggiunto il massimo livello mai registrato, vale a dire circa 45 milioni di persone; e dato che non si intravede una prossima soluzione ai conflitti in corso in posti come la Siria, la Repubblica Centroafricana e la Repubblica Democratica del Congo, tali numeri potranno solo continuare a lievitare. Con l’aumentare dei rifugiati nel mondo, non solo è aumentato anche il numero dei campi, ma essi hanno smesso di essere dei luoghi in cui la gente viene ospitata temporaneamente; piuttosto, hanno assunto la fisionomia di dimore semipermanenti. Il maggior campo profughi del mondo, Dadaab in Kenya, ha ormai vent’anni e ospita 420 mila rifugiati (McClelland, NY Times, 30). I campi di rifugiati palestinesi in Libano meridionale hanno nella maggior parte dei casi dai 50 ai 70 anni circa, a seconda che la popolazione vi sia stata stanziata nel 1948 o nel 1968. I profughi che vivono in questi campi, e che in alcuni casi vi hanno trascorso una vita intera, vengono definiti PRS, ovvero in “condizione di rifugiati protratti”.
I rifugiati, i richiedenti asilo, gli IDP (sfollati interni), i PRS (rifugiati protratti), gli apolidi sono nuove categorie di esseri umani prodotto di un sistema statale internazionale in tumulto e soggette a un genere peculiare di precarietà dell’esistenza. Per quanto abbiano in comune con altri “stranieri in difficoltà” lo status di vittime e per quanto diventino oggetto della nostra solidarietà – o meglio, per usare le parole del rapporto UNHCR, siano da noi considerati “persone a rischio” – la loro situazione è sintomatica della tragica sfasatura che esiste tra i cosiddetti “diritti umani” – o “diritti dell’uomo”, per usare la loro più antica definizione – e i “diritti del cittadino”; tra la rivendicazione a livello universale della dignità umana e le specifiche circostanze di indegnità in cui versano coloro che risultino titolari dei soli diritti umani.
Dalla celebre teoria di Hannah Arendt sul “diritto di avere diritti” ne Le origini del totalitarismo all’Homo Sacer di Giorgio Agamben, alle “vite precarie” di Judith Butler e all’invito di Jacques Rancière a una “conversione in legge dei diritti”, il richiedente asilo, l’apolide e il rifugiato sono divenuti metafore e al contempo sintomi di un malessere ben più profondo della politica della modernità.
Ma con gli Stati Uniti politicamente esausti in termini di impegno internazionalista dopo gli interventi in Afghanistan e in Iraq, e alla luce della politica di cautela adottata dal Presidente Obama nel caso della Siria che ha prodotto ulteriori intoppi di carattere morale, siamo passati dal “diritto di avere diritti” alla “critica della ragione umanitaria”. Didier Fassin, che ha collaborato per anni a pieno regime con Médecins Sans Frontières, e a cui dobbiamo l’aver coniato questo termine, definisce così la ragione umanitaria: “La ragione umanitaria è la logica che controlla tutte le vite precarie: quella del disoccupato e quella del richiedente asilo, quella degli immigrati malati e quella di chi ha l’AIDS, quella delle vittime di catastrofi e quella delle vittime di guerra: esistenze minacciate e dimenticate a cui il governo filantropo dà vita e luce tutelandole e portandole allo scoperto” [Humanitarian Reason. A Moral History of the Present (University of California Press, 2012), p. 4]. Il calzante saggio di Fassin – che porta il sottotitolo “A Moral History of the Present” (“Una storia morale del presente”) – è sintomatico di una ben più diffusa presa di distanza dalla politica dei diritti umani che ha iniziato a manifestarsi poco dopo l’invasione americana dell’Afghanistan e dell’Iraq arrivando a connotarsi come denuncia dei diritti umani intesi, per usare le parole dello storico della Columbia Samuel Moyn, come “antipolitica” sopravvissuta in veste di “utopia morale in un momento storico in cui tutte le altre utopie politiche sono morte” [The Last Utopia: Human Rights in History (Harvard University Press, 2010), 214]. Alcuni – scrive Moyn nel suo libro dal titolo provocatorio, The Last Utopia: Human Rights in History (“L’ultima utopia: i diritti umani nella storia”) – hanno tentato di ricavare “dalla critica morale della politica quel senso puro della causa che un tempo si cercava nella politica stessa”[1] (LU, 171); non solo: i diritti umani hanno restituito un surrogato di “moralità plausibile a una politica fallimentare” (LU, 175). In sé e per sé Fassin è più cauto ed equilibrato di Moyn nella sua critica alla teoria e alla pratica dei diritti umani, ma malgrado ciò entrambe le analisi e il successo che hanno ottenuto documentano una fase importante almeno in termini di “Zeitgeschichte” della cultura politica americana recente.
Questa disillusione sul piano intellettuale e politico si era già manifestata anche prima del saggio di Moyn del 2010. In un suo acuto articolo – “Who is the Subject of the Rights of Man?” (“Chi è il soggetto dei diritti dell’uomo?”) – del 2004, scritto quando gli interventi americani in Afghanistan e in Iraq erano al loro apice, Jacques Rancière esordiva sottolineando come i Diritti dell’Uomo, o per dirla con un linguaggio più contemporaneo, i Diritti Umani, rinvigoriti dai movimenti dissidenti in Europa dell’Est e Unione Sovietica negli anni ’70 e ’80, si fossero trasformati nel corso dei primi dieci anni del Ventunesimo secolo nei “diritti di chi non ha diritti, i diritti dei popoli cacciati dalle proprie case e dalle proprie terre e minacciati dalla pulizia etnica. Si sono via via sempre più connotati come diritti delle vittime, di chi era incapace di far valere qualsiasi diritto o perfino qualsiasi rivendicazione in suo nome, al punto che in alcuni casi i suoi diritti sono stati sostenuti da altri, al prezzo di ridurre in macerie l’edificio dei Diritti Internazionali nel nome di un nuovo diritto all’“interferenza umanitaria” che alla fine si è tradotto in un sostanziale diritto all’invasione” (The South Atlantic Quarterly 203:2/3. Primavera/Estate 2004, pp. 297-310, nello specifico 298). “I diritti umani, i diritti di chi non ha diritti” divengono per Rancière l’impalcatura ideologica su cui poggiano la “ragione umanitaria” nella migliore delle ipotesi e l’“intervento umanitario” nella peggiore.
Lo stato d’animo prevalente di disillusione e cinismo che molti mostrano nei confronti dei diritti umani e della politica umanitaria è comprensibile, ma non difendibile. Gli sviluppi in materia di diritto internazionale dal 1948 in poi hanno cercato di dare un nuovo senso legale ai concetti di “dignità umana” e “diritti umani”. Di certo, tali sviluppi hanno d’altro canto anche dato origine ai paradossi della “ragione umanitaria”, ma il modo migliore per ovviare ad essi non è quello di rivoltarsi contro il ius gentium, il diritto delle nazioni e del mondo in cui viviamo; piuttosto, c’è bisogno di una nuova concettualizzazione del rapporto tra diritto internazionale e politica emancipatoria; di una nuova modalità di comprensione degli strumenti con cui negoziare tra “fatticità” e “validità” della legge, inclusa quella che concerne i diritti umani internazionali e il diritto umanitario, così da creare nuove prospettive per l’ambito politico.
In un celebre passaggio de Le origini del totalitarismo, Hannah Arendt scrive: “Siamo ormai consapevoli dell’esistenza di un diritto all’avere diritti (il che implica il vivere in un contesto in cui si viene giudicati per le proprie azioni e opinioni) e di un diritto ad appartenere a un qualche tipo di comunità organizzata, che emergono proprio in una fase in cui milioni di persone hanno perso tali diritti senza alcuna possibilità di riconquistarli per colpa del nuovo scenario politico globale… Il diritto che corrisponde a tale perdita e al quale non era mai stato fatto cenno tra i diritti umani non può essere espresso con le categorie proprie del Diciottesimo secolo perché tali categorie partivano dal presupposto che i diritti derivassero automaticamente dalla “natura” dell’uomo… il diritto di avere diritti, ovvero il diritto di ogni individuo a far parte del genere umano, dovrebbe essere garantito dall’umanità in sé. Non è più affatto certo che ciò sia effettivamente possibile” (OT, pp. 296-297. Il corsivo è mio). Il “diritto di avere diritti” è divenuta la frase con cui notoriamente viene colta la condizione degli apolidi, dei rifugiati, dei richiedenti asilo e degli sfollati (in altre parole, la condizione di chi è stato sbalzato fuori dal contesto “in cui si viene giudicati per le proprie azioni e opinioni”).
In tutta la sua analisi, Arendt polemizza contro il basare la nozione di diritti umani su una qualsiasi concezione della natura dell’uomo o della sua storia. A suo avviso, tutti i punti di vista basati sulla natura umana commettono l’errore di trattare l’essere umano come mera sostanza, come se fosse un oggetto di natura. Ma seguendo la scuola di pensiero di Agostino e Heidegger, per lei gli esseri umani sono coloro per i quali l’essere è divenuto un interrogativo. E a tale proposito cita appunto Sant’Agostino: “Quid ergo sum, Deus meus? Quae natura sum? (“Chi sono dunque io, mio Dio? Qual è la mia natura?”), dove la risposta è semplicemente “quaestio mihi factus sum” (“Sono diventato un problema per me stesso” (HC, fn. 2, p.11). Questa capacità di mettersi in discussione è la fonte stessa della libertà. Per quanto la libertà umana non sia illimitata e sia al contrario soggetta alla “fatticità” della “condizione umana” – vale a dire status terreno, pluralità, natalità, fatica, lavoro e azione – è esclusivamente rispetto a tale condizione e non alla luce di una “natura umana” prefissata che dobbiamo cercare di giustificare il diritto di avere diritti.
Il rifiuto di Arendt per qualsiasi ruolo di giustificazione che possa essere attribuito al concetto di storia è complesso. È risaputo che a partire dalla fine degli anni ’50 Arendt era coinvolta in una disputa con Karl Marx, a suo avviso colpevole di aver determinato la fine della tradizione del pensiero politico occidentale sostituendo alla filosofia politica in sé una filosofia della storia. La lettura che Arendt fa di Marx è spesso riduttiva, ma in questa sede non mi interessa farne una valutazione. Per lei, così come per Walter Benjamin – la cui “Tesi di Filosofia della Storia” Arendt portò con sé in una valigia fin negli Stati Uniti dopo il suicidio a Port-Bou, e dal quale trasse grandissima ispirazione e fortissimo insegnamento – qualsiasi ricostruzione deterministica della storia, sia che privilegi un meccanismo di forze sociali che agiscono da motori del cambiamento sia che introduca una prospettiva teologica che attribuisca alla storia uno scopo ultimo, un telos, pecca di superficialità sul piano intellettuale. Oltretutto, è moralmente da biasimare perché trasforma gli uomini in “strumenti nelle mani dello spirito del mondo” privandoli di qualsiasi capacità di opposizione. Bisogna, per parafrasare Benjamin, agire “contro i chicchi di grano della storia”.
Tali perplessità filosofiche sulla giustificazione alla base dei diritti umani permangono anche ai giorni nostri. Ecco quindi che il primo articolo della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo recita: “Tutti gli esseri umani sono nati liberi e uguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e coscienza e dovrebbero agire gli uni nei confronti degli altri secondo uno spirito di fratellanza”. Eppure, malgrado queste nobili e toccanti parole, è altrettanto conclamato come “non ci venga in alcun modo detto quale teoria dovrebbe giustificare la “dignità umana” come fonte di diritti, né come si definisca la dignità dell’uomo o ne vengano stabiliti i bisogni, né in che modo tutelare i diritti umani potrà giovare alla promozione della pace nel mondo” [Louis Henkin, The Age of Rights, “L’età dei diritti” (Columbia University Press, 1990) 282]. Secondo la popolare interpretazione datane da John Rawls, la Dichiarazione Universale può essere letta come risultato di un “consenso per sovrapposizione”, vale a dire il risultato di un accordo di massima emerso nella comunità mondiale a seguito delle atrocità della Seconda Guerra Mondiale sul fatto che nulla di tutto ciò dovesse mai ripetersi. Per i paladini di una più solida concezione della “dignità umana”, come John Tasioulas, non importa quanto poco articolato fosse tale concetto ai tempi della stesura della Dichiarazione Universale: negli anni a seguire esso è arrivato a connotarsi come punto di convergenza tra le diverse tradizioni religiose e metafisiche, oltre a ricoprire un ruolo assolutamente decisivo nella giurisprudenza costituzionale comparata. È altrettanto lampante, così come sottolineato dalla cosiddetta scuola di “interpretazione funzionalista” o “politica” dei diritti umani, che vede tra i suoi esponenti anche Charles Beitz e Joseph Raz, come lo straordinario sviluppo del diritto internazionale e dei diritti umani internazionali abbia imposto vincoli politici significativi alla sovranità statale. Di che vincoli si tratta? Voglio qui far riferimento agli sviluppi più istituzionali e dottrinali del diritto internazionale, allo scopo di cogliere alcuni dei cambiamenti salienti intervenuti nel sistema internazionale degli Stati dopo la Seconda Guerra mondiale, cambiamenti in parte derivanti dall’emergere dei diritti umani internazionali.
Dai tempi in cui Hannah Arendt metteva nero su bianco la sua analisi del “diritto di avere diritti”, gli organismi internazionali e il diritto internazionale hanno modificato lo scenario rispetto a quello di cui lei scriveva. La Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo – agli articoli 13, 14 e 15 – affronta alcune delle questioni sopra citate. L’Articolo 13 recita: “Chiunque ha diritto alla libertà di movimento e residenza entro i confini di ciascuno Stato” (2). “Chiunque ha il diritto di lasciare qualsiasi Paese, incluso il proprio, e di farvi ritorno”. L’articolo 14 codifica il “diritto di asilo”: “Chiunque ha il diritto di cercare e ottenere asilo in altri Paesi per sfuggire alle persecuzioni” (2). “Tale diritto non può essere naturalmente invocato in caso di processi derivanti da reati non politici o atti contrari agli obiettivi e ai principi delle Nazioni Unite”. L’articolo 15 pone alcune garanzie rispetto alla “denaturalizzazione” o alla “perdita della cittadinanza”. (1) “Chiunque ha diritto ad avere una nazionalità” e (2) “Nessuno dovrebbe essere arbitrariamente privato della nazionalità e a nessuno dovrebbe essere negato il diritto di cambiarla”.
Insieme alla Convenzione delle Nazioni Unite per la Prevenzione e Punizione del Crimine di Genocidio del 1948, la Convenzione di Ginevra sullo Status dei Rifugiati del 1951 e in particolare i due accordi in materia di diritti umani internazionali, vale a dire il Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici (aperto alla ratifica nel 1966 ed entrato in vigore nel 1976 con 167 Stati firmatari su 195 ancora nel 2013) e il Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali (aperto alla ratifica nel 1966 ed entrato in vigore nel 1976 con 169 nazioni firmatarie), questi documenti e le istituzioni di vigilanza e monitoraggio da essi originati hanno alterato l’ambito legale di legittimazione e “conversione in legge” dei diritti umani nei termini stabiliti da Jacques Rancière.
Dovremmo interpretarle come trasformazioni che portino a un regime di cosmopolitismo legale o forse piuttosto tali cambiamenti genereranno un regime dualistico di sovranità legale che darà origine a un ordine internazionale caratterizzato da istituzioni di governance globale da una parte e Stati sovrani dall’altra? In cerca di una risposta a tali interrogativi, è emerso in epoca contemporanea un dibattito ad ampio spettro che spazia dagli studi legali alla teoria politica, passando per la giurisprudenza e l’analisi culturale. Il dibattito investe, al livello più profondo, il significato stesso del concetto di sovranità democratica in una nuova era e in condizioni di nascente cosmopolitismo legale.
Ho difeso la prospettiva di un cosmopolitismo morale legale in opere come “I diritti degli altri” (2004), “Cittadini globali” (2006) e “Dignità nelle avversità” (2011) che si connotano come una presa di posizione rispetto al fatto che dovremmo considerare ogni essere umano legittimato ad avvalersi dei diritti umani fondamentali in quanto persona e non in virtù della propria nazionalità o cittadinanza. Non è una pretesa di descrivere le modalità di funzionamento del sistema internazionale degli Stati; si tratta piuttosto di un ideale regolativo in senso kantiano. Un ideale regolativo è un’affermazione su “quel che dovrebbe essere” indirizzata agli agenti che attraverso le loro azioni avrebbero facoltà di realizzare lo stato di cose che l’ideale regolativo si limita a postulare. La questione è se il cosmopolitismo legale possa o meno diventare non più solo un ideale regolativo ma anche un ideale costitutivo. Alcuni sviluppi istituzionali stanno oggi mediando il divario tra dimensione “regolativa” e “costitutiva” dei diritti umani. Più che adottare una posizione di “costituzionalismo globale” o “costituzionalismo al di là del singolo Stato”, mi interessano le modalità con cui tali sviluppi in termini di cosmopolitismo legale influenzano sia la pratica statale al di là dei confini che la fisionomia delle lotte sociali transnazionali.
Il tratto distintivo di molti patti in materia di diritti umani stipulati in epoca postbellica è che per quanto siano gli Stati i firmatari di tali accordi, nel ratificarli essi si impegnano a vincolare la propria legislazione, le proprie politiche e i propri regolamenti al rispetto degli obblighi internazionali. Ciò significa che gli Stati restano attori principali ai fini del garantire l’osservanza dei diritti dell’uomo e sono al contempo l’ambito in cui tali diritti vengono convertiti in legge e interpretati. Il fatto però che gli Stati restino l’ambito principale di legiferazione e interpretazione dei diritti umani non vuol dire che essi siano l’unico ambito in cui si sostanzia la sfera pubblica politica ai giorni nostri. Di fatto, quella che si configura è una politica internazionale e al tempo stesso transnazionale dei diritti umani che travalica i confini delle singole nazioni e ha spesso pesanti ricadute sulle battaglie per i diritti umani entro gli Stati stessi.
Con l’emergere del diritto internazionale in materia di diritti umani, agli individui è riconosciuta la titolarità dei diritti umani direttamente in virtù del diritto internazionale. Che vuol dire in concreto? È chiaro che il tema è parecchio controverso sia in teoria che in pratica per quanto riguarda le implicazioni in particolare rispetto alle democrazie liberali costituzionali già dotate di una propria Costituzione o Carta dei Diritti. Ma come documentato dall’opera di Beth Simmons, l’adesione a convenzioni a più ampio spettro in materia di diritti umani dà ai cittadini dei Paesi firmatari caratterizzati da democrazie costituzionali non pienamente sviluppate la possibilità di criticare la teoria e la pratica dei diritti umani nel proprio Paese alla luce degli standard riconosciuti in ambito internazionale. In particolare i movimenti transnazionali per la difesa delle donne in tutto il mondo hanno dato vita al CEDAW (Patto per l’Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione contro le Donne) per obbligare i loro governi e le pubbliche istituzioni dei loro Paesi a uniformarsi agli standard stabiliti dall’accordo in materia di pari salario per pari lavoro, contro le molestie sessuali e la discriminazione di genere, e perché siano tenute nella dovuta considerazione le speciali esigenze femminili in termini fisici e sanitari.
In occasione delle recenti lotte che hanno avuto luogo in Paesi come l’Egitto e la Tunisia in merito alla stesura di Costituzioni che fossero accettabili sia per i partiti laici che per quelli religiosi, il fatto che entrambi i Paesi fossero tra i firmatari del CEDAW ha generato costernazione quando si è arrivati a dover formulare i diritti delle donne e alla questione di come trovare una forma di conciliazione tra la parità di diritti tra i sessi stipulata dall’accordo e le norme della Shari’a. L’Egitto aveva già espresso una sua riserva all’articolo 16 del CEDAW che sancisce la parità tra uomini e donne nell’ambito del matrimonio, limitando unilateralmente il diritto di chiedere il divorzio ai soli individui di sesso maschile. Lo status di parità delle donne in termini di diritti è stato uno dei molti temi intorno ai quali i partiti che componevano i parlamenti che si sono susseguiti al governo in Egitto non sono riusciti a raggiungere un accordo, con il risultato che prima che i militari prendessero il potere con la forza non si è riusciti a ratificare nessuna Costituzione.
Analoghe perplessità circa lo status di parità femminile e gli impegni assunti dalla Tunisia rispetto al CEDAW sono state espresse anche dal partito al governo nel Paese, l’Ennahda. E per un’interessante combinazione di eventi, gli stessi gruppi di donne osservanti si sono mobilitati contro le clausole più egualitarie del CEDAW, sostenendo che per parità femminile non si dovesse intendere una piena uguaglianza funzionale e legale, quanto piuttosto una “complementarità” di ruoli tra maschi e femmine. Riportando in auge argomentazioni assai simili a quelle che all’apice dei movimenti femminili degli anni ’70 venivano ricondotte a un cosiddetto “femminismo della differenza”, questi gruppi religiosi hanno paradossalmente legittimato la forza delle normative internazionali facendo diretto riferimento a quanto stabilito dal CEDAW attraverso la propria peculiare accezione del ruolo della donna in una società musulmana. è stato forse in parte proprio come conseguenza di tale processo contenzioso ma al tempo stesso inclusivo di pubblica iterazione che il Parlamento tunisino ha approvato l’articolo 45, che garantisce i diritti delle donne e la parità femminile all’interno degli organismi a elezione (una novità assoluta per il mondo arabo).
Gli strumenti internazionali per la tutela dei diritti umani hanno delineato uno spazio concettuale e normativo nel quale sta avendo luogo un conflitto “giurisgenerativo” tra diritti umani internazionali e diritti civili e politici istituzionalizzati. Per “giurisgeneratività” intendo quanto segue: le leggi acquistano senso dal loro essere interpretate entro un contesto di regole e significati determinati che spesso risultano incontrollabili. Non esistono regole senza interpretazioni; le regole si possono seguire solo nella misura in cui vengono interpretate; ma allo stesso tempo non esistono regole, comprese le norme legali, in grado di controllare la varietà di interpretazioni a cui ciascuna regola è soggetta a seconda di tutti i diversi contesti ermeneutici. La normatività della legge non consiste nelle fondamenta della sua validità formale, vale a dire nella sola legalità. La legge è anche capace di strutturare un universo normativo extra-legale sviluppando nuovi vocabolari per la pubblica rivendicazione, incoraggiando nuove forme di soggettività con cui impegnarsi nella sfera pubblica, e intersecando le relazioni di potere già esistenti a forme di giustizia a venire (à venir, per citare Derrida). La legge non è semplicemente un metodo di coercizione e uno strumento di dominio o di messa a tacere del “dissenso” (per usare un termine di Rancière). Indubbiamente, è anche questo genere di strumento e di mezzo. Ma la sfasatura tra la “fatticità” e la validità della legge è lo spazio in cui può inserirsi una politica della giurisgeneratività che da una parte rimarca la presenza di questo divario e dall’altra tenta di colmarlo nel nome di future forme di giustizia a venire. Questa giurisgeneratività dà origine alle “iterazioni democratiche”.
I cittadini e i residenti di una democrazia hanno l’obbligo di reinterpretare e ridefinire i principi dei diritti umani così da configurarli come diritti costituzionali e, se necessario, soffondere tali diritti costituzionali di nuovo contenuto. E non si può nemmeno escludere che simili iterazioni costituzionali possano esse stesse innescare dei circoli virtuosi di feedback volti a rendere più precisi intenti e linguaggio delle dichiarazioni e dei trattati in materia di diritti umani internazionali.[2]
Le iterazioni democratiche hanno luogo in tutta la società civile nazionale e transnazionale e nelle sfere pubbliche globali di diversi luoghi. Nelle democrazie costituzionali, i tribunali sono le principali sedi dell’autorità in cui l’iterazione normativa si sviluppa attraverso l’interpretazione giuridica ma non attraverso un’iterazione democratica in quanto per definitionem essi non sono democraticamente aperti a tutti. Ma l’interazione tra norme interne da una parte e transnazionali dall’altra non ha luogo solo nei tribunali. Sempre più spesso, in questi processi si registrano l’intervento e il contributo di altre organizzazioni tipo ONG e INGO come Amnesty International e Human Rights Watch, in grado di produrre rapporti competenti ma anche di mobilitare l’opinione pubblica rispetto a controverse interpretazioni normative e al problema dell’implementazione di alcune regole. Una terza sede dell’iterazione deriva dall’interazione tra le fonti domestico-giudiziarie e transnazionali di interpretazione normativa e il processo di formazione dell’opinione politica dei comuni cittadini e residenti. Nel formulare il concetto di iterazione democratica, era proprio quest’ultimo processo quello che avevo più in mente, per quanto gli altri due non siano assolutamente da escludere.
I processi di ratifica dei trattati non sono più incentrati su “un singolo momento formale di ratifica ad opera di uno Stato nazionale monovocale”.[3] Sempre più spesso città, Stati, contee e distretti stanno loro stessi incorporando nei propri regolamenti i dettami di trattati più ad ampio spettro in materia di diritti umani. Sia San Francisco che San Paolo (in Brasile) hanno aderito al CEDAW, Portland in Oregon all’UDHR (Ibid, p. 546). Tali affiliazioni moltiplicano le sedi in cui la conversazione transgiuridica ha modo di verificarsi, e dimostrano come anche a dispetto della diffidenza e resistenza registrata a livello nazionale rispetto ad alcuni organismi per la tutela dei diritti umani come il CEDAW, ad esempio, sia comunque possibile un confronto sul tema al di là dei confini nazionali e locali.
Questo nuovo scenario delle norme internazionali in materia di diritti umani e dell’attivismo umanitario è tra i molti fattori che danno linfa e legittimità a movimenti come quelli dei “Sans Papiers” in Francia, dei “Dreamers” negli Stati Uniti e degli “Indignados” in Spagna, per la gran parte composti da lavoratori immigrati con o senza uno status legale appropriato. Come giustamente sottolinea Fassin, dovremmo fare attenzione a non limitarci solo a enfatizzare gli aspetti trionfalistici di tali sviluppi ma anche a valutarne in maniera equilibrata i limiti: a volte ci sono vittorie legali che obbligano gli Stati interessati a concedere il diritto di soggiorno a immigrati senza documenti (o clandestini) con l’AIDS, che con tutta probabilità morirebbero se venissero rimpatriati nel loro Paese d’origine. In altri casi, può succedere che venga deportato anche un genitore di bambino americano che a quel punto rimane senza potestà genitoriale, così come avvenuto nel corso delle operazioni di “retata” ai danni di sospetti terroristi dopo i fatti dell’11 settembre 2001 in USA. A volte ancora la richiesta di asilo da parte di un rifugiato viene respinta dopo dieci anni; nel frattempo quella persona si è sposata e integrata nella società civile del Paese nel quale risiede illegalmente; in alcuni casi viene arbitrariamente rimpatriata in un Paese “d’origine” e in una vita che di fatto non ha mai conosciuto; in altri, come in Olanda, si applica la ragione umanitaria attraverso la logica del “Dulden” (in senso lato “tolleranza”), permettendo in pratica a questi immigrati senza documenti di sparire tra le maglie della società civile e vivere fuori della portata del radar della legalità. Tutto ciò induce Fassin a concludere: “Ho cercato di cogliere il senso della ragione umanitaria e ciò che questa logica nasconde, in modo da non considerarla né come il migliore di tutti i governi possibili né come un’illusione che ci porti fuori strada. Mi pare che guardandola dalle diverse prospettive… possiamo rendere più intellegibile la logica globale della ragione umanitaria”.(246) Oltre ai “paradossi della ragione umanitaria”, che minacciano di ridurre il soggetto morale e politico allo status di vittima o di “persona a rischio”, per usare le parole dell’UNHCR, c’è un’ulteriore tendenza tra attori statali e non statali che è quella di cercare spazi di manovra fuori dalla portata della legge. Con lo sviluppo del diritto cosmopolita, aumentano anche i tentativi di creare sacche di eccezione in cui tale diritto non possa entrare. Ecco quindi che il trattamento riservato ai prigionieri di Guantánamo, Abu Ghraib e della base aerea di Bagram, il ricorso alla tortura o alle cosiddette “tecniche di interrogatorio potenziate”, gli scambi segreti di prigionieri ad opera della CIA e, sempre più di frequente, “gli omicidi selettivi” e le perdite civili “collaterali” derivanti dagli attacchi dei droni in Afghanistan, Pakistan e Somalia sono tutti eventi associati a gravi violazioni dei diritti umani.
Dalle rivelazioni di Edward Snowden circa la portata dell’opera di sorveglianza portata avanti dall’Agenzia per la Sicurezza Nazionale su cittadini, alleati e nemici dell’America, oggi sappiamo che la guerra globale al terrore condotta negli ultimi decenni ha assunto la fisionomia di uno “stato di sicurezza” che sta minando i diritti costituzionali dei cittadini americani e al tempo stesso contravvenendo alle norme del diritto internazionale. La risposta poco convincente data dall’amministrazione Obama a tali sviluppi e la partigianeria della Corte FISA, che in sostanza approva praticamente tutte le richieste di sorveglianza e intelligence avanzate dalla NSA, indicano come il sovranismo dell’America rispetto agli alleati e alle leggi internazionali rischi oggi di tramutarsi in governo tramite “ordine esecutivo” in patria.
Mentre gli Stati Uniti si trovano a gestire l’eredità di due conflitti non ancora conclusi che hanno polverizzato l’osservanza dimostrata dall’America alle norme in materia di diritti umani internazionali, alcuni Paesi europei, spesso sotto pressione dagli USA e con l’alibi della “guerra al terrore”, hanno mostrato principi ben poco saldi nella tutela dei diritti umani internazionali con la cooperazione a operazioni di “detenzione straordinaria”. In molti Paesi europei la minaccia per la sicurezza posta dai gruppi islamisti e jihadisti sparsi in tutto il mondo si è anche configurata come “guerra culturale” contro gli immigrati islamici e musulmani.
Questi sono i rovesci della medaglia del cosmopolitismo legale e uno dei compiti del pensiero critico legale e politico dovrebbe oggi essere quello di comprenderne l’interdipendenza piuttosto che rigettarne uno in nome dell’altro come molti sono soliti fare. L’inversione di rotta dal “diritto di avere diritti” alla “critica della ragione umanitaria” non dovrebbe né indurci alla difesa tout court del sistema sovranista degli Stati-nazione né dovrebbe generare un irriverente liquidare l’ambito del diritto e delle istituzioni internazionali come prodotto di un illusorio “consenso”. Piuttosto, bisogna riconoscere l’incessante tensione e sfasatura tra fatticità e validità del diritto e delle istituzioni in generale nella misura in cui lasciano adito a queste fratture e crepe in cui ha modo di inserirsi una politica della giurisgeneratività.
Non solo a livello istituzionale, ma anche in termini di storia morale del presente, il concetto di dignità umana ha acquisito una dimensione globale. Di certo, le origini di questo concetto risalgono alla tradizione giudaico-cristiana dell’essere umano come “imago dei”, creato a immagine e somiglianza di Dio. La dignità umana suggerisce da un lato che dobbiamo rispetto gli uni agli altri, ma allo stesso tempo che tale rispetto può essere esercitato solo finché non viene violato un certo grado di vulnerabilità. Non è solo perché siamo creature razionali capaci di agire in conformità con la legge morale che dobbiamo essere rispettati; è anche perché siamo creature incarnate e vulnerabili, la cui esistenza corporea le rende suscettibili di esperienze di tortura, sequestro, schiavitù, servitù, degradazione e violenza, che dobbiamo essere protetti. Trattare un essere umano con dignità non vuol dire solo trattarlo con rispetto; significa anche impedire che contro di esso venga esercitata della crudeltà.
Quando l’ambulante di frutta e verdura tunisino Mohamed Bouazizi si è dato fuoco, ne è scaturita una scintilla che ha acceso la rivolta araba. La dignità di quell’uomo era stata violata dall’umiliazione inflittagli dall’agente che aveva confiscato la sua merce e lo aveva insultato. Tutti a qualche livello riusciamo a cogliere il senso di questo atto di umiliazione, e la protesta espressa attraverso il sacrificio di se stesso amplia drammaticamente l’arco del nostro universo morale. Quando una giovane studentessa indiana, che viaggiava in compagnia del fidanzato, è stata sequestrata da un gruppo di 4 uomini, non solo il suo corpo è stato violato e ridotto in fin di vita, ma l’insulto alla sua dignità è divenuto l’insulto alla dignità di milioni di donne in India e in tutto il mondo. Ancora una volta a un qualche livello tutti noi condanniamo questo atto di crudeltà e la sostanziale violazione della dignità umana che esso rappresenta, per quanto possano esistere enormi divari culturali tra i Paesi in cui abitiamo. E non importa dove siamo, a Nord o a Sud del mondo, il volto sfigurato della giovane afgana Malala Yousafzai, che ha lottato contro ogni ostacolo per i diritti delle giovani donne all’istruzione, è diventato il volto universale della dignità sul nostro pianeta. Di certo, la storia morale del presente non deve solo esaminare criticamente ipocrisie e dilemmi della ragione umanitaria ma anche testimoniare l’espansione del senso della dignità umana e del “diritto di avere diritti”.
Questa è una versione ridotta della lezione tenuta da Seyla Benhabib in occasione del conferimento del premio Meister Eckhart il 19 maggio a Colonia, in Germania. Seyla Benhabib, filosofa turco-americana è Eugene Meyer Professor of Philosophy presso la Yale University.
Traduzione di Chiara Rizzo
Nota
[1] Samuel Moyn, The Last Utopia: Human Rights in History (Harvard University Press, Cambridge: Mass., 2010). Abbreviato nel testo con la sigla LU.
[2] Ho trattato più nel dettaglio il ruolo dei movimenti sociali globali ai fini della rivendicazione dei diritti al di là dei confini nazionali e della creazione di una forma cosmopolita di cittadinanza in: S Benhabib, “Claiming Rights Across Borders: International Human Rights and Democratic Sovereignty,” Dignity in Adversity. Human Rights in Troubled Times, p. 117-138; originariamente pubblicato in: No. 103 American Political Science Review 4 (novembre 2009), pp. 691-704.
[3] Judith Resnik, “Comparative (in)equalities: CEDAW, the jurisdiction of gender, and the heterogeneity of transnational law production,” I.CON (2011), pp. 531-550.
[4] Nel corso della seconda amministrazione Bush, la Corte Suprema ha imposto dei limiti ai processi e alle detenzioni militari con le sentenze Boumediene [Boumediene v. Bush, 476 F. 3d 981 (2010)], Hamdan [Hamdan v. Rumsfeld, 548 U.S. 557 (2006)], Hamdi [Hamdi v. Rumsfeld, 542 U.S. 507 (2004)], e Rasul [Rasul v. Bush, 542 U.S. 466 (2004)]. Il Congresso ha appoggiato l’applicazione universale della messa al bando di ogni trattamento crudele, disumano e degradante. L’amministrazione Obama ha cercato di correggere il tiro su molte di queste questioni. Malgrado ciò, il fatto che Guantánamo sia ancora aperto e che proseguano gli attacchi dei droni e le “uccisioni programmate” – anche di cittadini statunitensi – indicano come la politica estera statunitense continui a essere minata da ipocrisia e arbitrarietà nell’applicazione delle leggi internazionali in materia di diritti umani.
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