Da Reset-Dialogues on Civilizations
Proponiamo di seguito la lezione di Richard J. Bernstein, professore di filosofia presso la New School for Social Research di New York, tenuta lo scorso maggio in occasione del ciclo di incontri “Per una cittadinanza inclusiva“ organizzato da Reset-DoC e svoltosi a Milano presso la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli.
Voglio iniziare parlandovi del movimento del Pragmatismo Americano. Malgrado il termine “pragmatismo” abbia acquisito un’ampia diffusione e venga oggi alcune volte utilizzato nell’accezione dell’“essere pratico” in senso ordinario – e spesso addirittura con riferimento a un mostrarsi anti-teoretico e anti-intellettuale – tale concezione ha poco a che fare con il significato assunto dal pragmatismo in quanto movimento filosofico associato ai nomi di Charles S. Peirce, William James e John Dewey e successivamente a coloro che ne hanno subito l’influenza. Specificherò in questa sede cinque tratti distintivi del movimento del pragmatismo: (1) l’antifondazionalismo; (2) la comunità dei soggetti “indagatori”; (3) il fallibilismo; (4) la contingenza radicale; (5) il pluralismo.
Lasciate che spenda qualche parola rispetto a ciascuno di questi pochi tratti. (1) l’antifondazionalismo. Gli intellettuali pragmatisti rifiutano l’idea che la conoscenza poggi in ultima analisi su un fondamento sicuro, sia che concepiamo tale fondamento come insieme di principi definitivi sia addirittura che lo associamo a dati sensibili incontrovertibili. Essi sposano un criterio ben formulato da Wilfrid Sellars: “La conoscenza empirica, così come la sua estensione più sofisticata – la scienza – è razionale, non perché abbia un fondamento ma perché si pone come attività autocorrettiva capace di mettere in discussione qualsiasi affermazione, per quanto non tutte in una volta”. Per i pragmatisti tale opera di autocorrezione è caratteristica di qualunque indagine. (2) la comunità dei soggetti “indagatori”. Se si rigetta il fondazionalismo, allora sorge il problema di come verificare le pretese di conoscenza o – più in generale – le presunzioni di validità. Per i pragmatisti l’alternativa è che ogni pretesa di validità debba essere soggetta all’analisi critica di una pertinente comunità di soggetti “indagatori”. La pubblica critica è cruciale ai fini della verifica e valutazione delle nostre convinzioni. Esse devono venir garantite da una comunità critica di “investigatori”. (3) il fallibilismo. Per i pragmatisti l’alternativa al fondazionalismo non è lo scetticismo epistemologico, quanto piuttosto il fallibilismo. Il fallibilismo è la tesi secondo cui qualsiasi pretesa di validità può essere confutata e modificata. Tale nozione è implicita nell’idea suggerita da Sellars che quella dell’indagine sia un’attività autocorrettiva in grado di mettere in discussione qualsiasi affermazione, per quanto non tutte in una volta. L’indagine è sempre suscettibile di correzione. Il fallibilismo può anche essere inteso come virtù etica e politica: come volontà di tenere la mente aperta, prestare ascolto al prossimo, imparare dagli altri e disponibilità a cambiare i propri punti di vista alla luce della pubblica critica. (4) la contingenza radicale. La contingenza e il caso hanno sempre rappresentato due fattori di problematicità per molti esponenti della filosofia tradizionale. A prevalere è stata sempre l’aspirazione alla ricerca della sicurezza. Per i pragmatisti, la contingenza e il caso non sono solo segni dell’umana ignoranza. Sono piuttosto elementi costitutivi dell’universo e della nostra esperienza. L’universo è un sistema aperto da cui possono scaturire sia tragedie che opportunità. La questione principale è quella di come reagire alla contingenza. Ecco perché i pragmatisti pongono l’accento sulla necessità di coltivare quelle abitudini critiche che vanno a comporre l’intelligenza riflessiva. Ed eccoci infine al (5) pluralismo. Possiamo notare come il pluralismo pervada di sé tutti gli altri tratti fin qui accennati. Non c’è via di scampo dalla pluralità delle tradizioni, delle prospettive e degli orientamenti filosofici. Il genere di pluralismo a cui i pragmatisti aspirano è quello del pluralismo fallibilistico impegnato. Un tale ethos pluralistico espone ciascuno di noi a nuove responsabilità. Significa infatti prendere sul serio la fallibilità di ciascuno, decidere che a prescindere da quanto siamo convinti delle nostre credenze e della nostra linea di pensiero saremo disposti ad ascoltare gli altri senza negare o reprimere l’alterità del prossimo. Vuol dire mantenersi vigili rispetto alla duplice tentazione di limitarsi a bocciare e liquidare quanto affermato dagli altri o di assorbirlo nelle nostre categorie familiari di pensiero. Implica un voler allargare i propri orizzonti nell’incontro – e attraverso l’incontro – con gli altri.
Il primo a utilizzare l’espressione “pluralistico” nel titolo di un libro di filosofia è stato William James quando ha chiamato un suo saggio Un universo pluralistico. L’opera si basa su una serie di lezioni tenute da James all’Università di Oxford nel 1908. James si è a lungo schierato contro due opposte tendenze filosofiche. La prima, molto diffusa sia in Inghilterra che in America negli ultimi anni del Diciannovesimo secolo, era quella del monismo assoluto. Negli Stati Uniti, il principale esponente di questa corrente è stato Josiah Royce, collega di James ad Harvard. In sé e per sé, il monismo assoluto si basava su un’appropriazione angloamericana delle tesi di Hegel. Secondo i monisti, tutta la conoscenza e tutta la realtà andavano inclusi in un unico sistema monistico. Ma James era anche contrario alle forme estreme di atomismo empirico, secondo cui le esperienze sarebbero consistite in agglomerati di dati sensibili distinti e separati. Ecco come James descrive il proprio pluralismo radicale:
“È curioso quanto poco appoggio il pluralismo radicale abbia sempre ottenuto dai filosofi. Che fossero di orientamento materialista o spiritualista, essi hanno puntualmente aspirato a far ordine nel caos del quale il mondo è apparentemente pieno. Al primo nodo in esse percepibile hanno rimpiazzato concezioni economiche e sistematiche: e che esse fossero moralmente elevate o solo intellettualmente lineari, le hanno sempre mantenute pure e definite sul piano estetico, tese ad attribuire al mondo un qualcosa di pulito e intellettuale in termini di struttura interna. A paragone di tutte queste immagini razionalizzanti, l’empirismo pluralistico che io vado professando fa una ben misera impressione. È una specie di faccenda torbida, confusa e gotica priva di schema onnicomprensivo e con poca nobiltà pittorica.”
Vedremo poi come il pluralismo radicale di James abbia avuto profonde conseguenze sul piano etico e politico.
Alle lezioni tenute da James a Oxford erano presenti due ex studenti di Harvard, Horace Kallen e Alain Locke, entrambi destinati a esercitare una significativa influenza su quel che è stato definito il “pluralismo culturale”. Di fatto l’espressione “pluralismo culturale” è stata coniata proprio da Kallen. Egli era originario di una famiglia di ebrei ortodossi immigrati, e malgrado per tutta la vita sia stato un seguace del pluralismo di James ha sempre preso molto sul serio la propria eredità ebraica. Alain Locke è stato invece il primo afroamericano a ottenere la prestigiosa borsa di studio “Rhodes” per poter frequentare l’Università di Oxford. All’epoca in America il pregiudizio razziale era così forte che quando Locke andò a Oxford fu oggetto di ostracismo da parte dei suoi colleghi americani. In seguito divenne un leader di quel che è oggi conosciuto con il nome di Rinascimento di Harlem, un importante movimento culturale di matrice nera in campo artistico. Ma prima di trattare dei contributi dati da Kallen, Locke (e altri) al pluralismo culturale voglio aggiungere qualcosa rispetto al contesto culturale con cui ci si trovava a fare i conti vivendo negli Stati Uniti appena prima e immediatamente dopo la prima Guerra mondiale.
Tra il 1870 e il 1920 furono ammessi negli Stati Uniti più di 27 milioni di immigrati. La gran parte di essi era originaria dell’Europa meridionale e dell’Est. Nel 1910, il 40 per cento della popolazione di New York era nata all’estero (d’altro canto anche nel 2014 gli abitanti di New York nati al di fuori degli Stati Uniti sono quasi il 40 per cento, per quanto gli immigrati provengano oggi da Paesi molto diversi). Ma è una leggenda ritenere che quest’ampia ondata di immigrazione sia stata un processo lineare e ben accogliente. La discriminazione e il timore per l’influenza “nociva” degli stranieri erano largamente diffusi. Perfino le nostre università avevano stabilito rigide quote religiose per escludere i gruppi di immigrati e limitarne l’accesso. In tutti gli Stati Uniti (non solo al sud) c’erano alberghi, luoghi di ritrovo e ristoranti che non accettavano ebrei, cattolici e, ovviamente, neri, pratica che in molti posti si è protratta fino agli anni Settanta inoltrati. Malgrado le forti ondate di immigrazione, l’America nei primi decenni del Ventesimo secolo era fondamentalmente un Paese WASP (White Anglo-Saxon Protestant, letteralmente “Bianco Anglo-Sassone Protestante”), e molti volevano che rimanesse tale. La metafora più popolare rispetto all’assimilazione degli “stranieri” era quella del “melting pot” (il “crogiolo”). Ma in realtà l’effettiva implicazione del “melting pot” era che gli immigrati stranieri avrebbero dovuto rinunciare alle proprie peculiarità etniche e religiose per “assimilare” la cultura Bianca Anglo-Sassone Protestante dominante.
Nel 1915 Horace Kallen pubblicò il suo celebre articolo “Democrazia versus the Melting Pot” sul giornale progressista The Nation. Nell’articolo egli confutava la nozione del “melting pot” in quanto essa suggerisce l’idea che tutti gli elementi vengano racchiusi in un calderone in modo da ricavarne un’unica massa omogenea. Al contrario, Kallen sperava che i diversi gruppi etnici e religiosi andassero fieri della propria eredità culturale. Immaginava gli Stati Uniti come una nazione composta di differenze culturali, in cui tali differenze venissero rispettate e andassero ad arricchire una democrazia viva. “Che ne faremo degli Stati Uniti? Un canto all’unisono del vecchio motivo anglosassone “America”, della scuola del New England, o un’armonia, in cui i vari temi saranno magari alcuni dominanti sugli altri, ma si tratterà sempre di un motivo tra gli altri, non l’unico? Per Kallen l’“unisono” simboleggia il livellamento e l’omogeneità: segna il trionfo del monismo culturale. L’armonia, al contrario, esiste solo quando voci diverse convivono, senza che nessuna di queste voci distintive venga affossata o annullata. Kallen era affascinato dalle metafore musicali e gli piaceva questa sua immagine di una società culturalmente pluralista intesa come un’orchestra sinfonica in cui i diversi strumenti riuscivano a raggiungere l’armonia. Quando inviò il suo articolo a John Dewey, Dewey gli rispose che era d’accordo sull’idea dell’orchestra a patto però che si ottenesse davvero una sinfonia e non un mucchio di strumenti diversi che suonavano contemporaneamente. Così scriveva: “Non mi è mai interessata la metafora del melting pot, ma l’autentica assimilazione l’uno all’altro – e non all’anglosassonismo – mi pare essenziale per l’America. Il fatto che ogni sezione culturale debba mantenere le sue peculiari tradizioni culturali e artistiche mi sembra un’opzione altamente auspicabile, ma nella misura in cui con ciò essa possa avere di più da offrire agli altri». Alcuni criticarono Kallen accusandolo di concepire il pluralismo culturale in senso rigido e statico. Ma nel suo saggio dal titolo Pluralismo culturale egli mette in chiaro come, al pari di James, pensasse ai diversi gruppi come a entità fluide, mutevoli e comprendenti varie tipologie di individui.
Prima di passare ai contributi di Alain Locke vorrei citare un altro significativo esponente di questa prima fase di dibattito, Randolph Bourne. Bourne aveva studiato con John Dewey alla Columbia ed era un profondo ammiratore di William James. Egli sviluppò la tesi di Kallen in modo ancor più radicale e sfaccettato. Nel 1916 pubblicò il suo celebre saggio America Transnazionale. Qui scriveva: “Siamo tutti stranieri di nascita o discendenti di stranieri di nascita”. Al pari di Kallen, Bourne era interessato a ciò che l’America poteva già diventare, senza restare ancorata a un passato immaginario. Sosteneva un nuovo ideale cosmopolita per gli Stati Uniti, un’America transnazionale. Ciò avrebbe soddisfatto la visione democratica incarnata nello spirito di Emerson, Whitman, James e Dewey. “Non è quel che siamo a preoccuparci, ma quel che la prossima generazione plastica potrebbe diventare alla luce di questo ideale cosmopolita”. “Se libertà significa una cooperazione democratica per determinare gli ideali, gli scopi e le istituzioni industriali e sociali di una nazione, allora gli immigrati finora non sono stati liberi, e l’elemento anglosassone è colpevole di quella che è esattamente la colpa di qualsiasi razza dominante in tutti i Paesi europei: l’imposizione della propria cultura alle minoranze”. Malgrado la diversa enfasi utilizzata da James, Dewey, Kallen e Bourne, tutti hanno in comune una visione pluralista di quel che l’America potrebbe e dovrebbe diventare: una nazione che rispetti (ma senza reificarle) le differenze culturali; una società democratica che sia ancora più democratica proprio perché costantemente rivitalizzata dalle differenze culturali. Questi intellettuali pragmatici non erano ingenui ottimisti. Erano ben consapevoli di quanta resistenza ci fosse nei confronti di tale ideale pluralista cosmopolita, ma ognuno di loro aspirava a fare di quell’ideale una realtà concreta.
Malgrado il loro propugnare le tesi del pluralismo culturale, questi studiosi hanno affrontato in primo luogo le differenze di carattere etnico, religioso e culturale, ma non si sono concentrati su quello che è da sempre il vero problema della “razza”, e specialmente sulla questione dei neri in America. Qui dobbiamo fare riferimento a W. E.B. Bois (un altro allievo di William James) e Alain Locke, entrambi illustri afroamericani. E dobbiamo citare anche il grande antropologo Franz Boas, noto per essere il padre dell’antropologia americana. Boas era nato nel 1858 in Germania ed era emigrato negli Stati Uniti nel 1887. Quindi era lui stesso un immigrato. Nel 1899 venne assegnato alla facoltà della Columbia University dove alcuni anni più tardi lo raggiunse John Dewey. Per tutta la vita (morì nel 1942) fu il principale esponente della corrente antropologica volta a smontare la tesi del razzismo biologico. Fondando le sue affermazioni su prove empiriche, egli sosteneva con fermezza che il fattore primario nella distinzione dei vari gruppi fosse di ordine culturale, non biologico. E al pari di John Dewey era anche un attivista progressista dedito al ridimensionamento della pseudoscienza dell’eugenetica. Confutò con forza ogni tentativo pseudoscientifico di stabilire una gerarchia tra le razze. Boas aveva in comune con gli intellettuali pragmatici lo stesso spirito pluralistico.
Ho accennato prima come Alain Locke fosse divenuto un esponente di punta del Rinascimento di Harlem, ma oltre a ciò era anche un professore dell’Howard University. Egli affrontò per la prima volta la questione della razza in una celebre serie di lezioni tenute nel 1915, più o meno nello stesso periodo in cui era uscito “Democrazia versus the Melting Pot” di Kallen. L’Howard University era stata fondata da pastori cristiani bianchi allo scopo di istruire professionisti neri. Ironia della sorte, gli amministratori bianchi della Howard erano contrari alla proposta di Locke di istituire un corso sulla razza perché non volevano che l’istituto venisse associato a temi così controversi. Ma grazie al patrocinio della NAACP (National Association for the Advancement of Colored People, “Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore”), Locke tenne comunque le sue lezioni. Traendo spunto dalle riflessioni di Franz Boas, egli sosteneva che non esistessero fattori fissi – di ordine biologico, sociologico o antropologico – in grado di determinare la razza. Il razzismo è quindi un’ideologia nociva, priva di qualsiasi attendibilità scientifica. Il concetto di plasticità umana è cruciale per tutti gli intellettuali pragmatici. Di fatto Locke stava decostruendo il concetto di razza. Malgrado ciò, aveva in comune con W.E.B. Dubois la convinzione che gli afroamericani avessero bisogno di un ideale positivo di razza così da raggiungere un senso di autostima, rispetto di sé e dignità. Locke, in parole povere, cercava di anticipare un ideale di pluralismo culturale che includesse anche la cultura afroamericana.
Il pluralismo culturale in America è stato un movimento dinamico caratterizzato da diverse voci ed enfasi differenti. Il dibattito in sé è stato pluralistico. Ma quegli intellettuali rigettavano sia una politica di identità fisse che l’idea che le diverse culture fossero una specie di monadi autocontenutive non compenetrabili le une alle altre. Essi promuovevano un pluralismo impegnato in cui ci si sforzasse seriamente di allargare i propri orizzonti senza omologarsi a una cultura “dominante”. Non ignoravano i problemi di ordine pratico e gli ostacoli che si frapponevano all’affermazione di una società cosmopolita culturalmente pluralista. Ma l’ideale di diversità culturale che emerge dai loro discorsi conserva intatta la sua forza anche ai giorni nostri. Le loro idee – rielaborate nel contesto del fanatismo e razzismo americani – acquistano ora significato cogente e universale. Le società di tutto il mondo – compresa quella statunitense – si trovano oggi ad affrontare nuove problematiche relative al come gestire gli immigrati (sia legali che illegali) e le minoranze autoctone. Sussistono ancora paura, ansia e forti pregiudizi nei confronti di chi è diverso e straniero. Siamo ancora minacciati dagli stessi estremismi con cui dovevano fare i conti i fautori del pluralismo culturale: l’omologazione a una cultura “dominante” o l’esclusione e l’emarginazione. La loro visione di ciò che l’America potrebbe diventare – una società democratica dinamica che rispetti le differenze e ne venga arricchita – costituisce oggi un ideale autenticamente internazionale e cosmopolita. Una concezione che potrebbe e dovrebbe rappresentare una potente fonte di motivazione per il Ventunesimo secolo.
Richard J. Bernstein è Vera List Professor of Philosophy presso la Columbia University di New York
Traduzione di Chiara Rizzo
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