Da Reset-Dialogues on Civilizations
Il treno
Donetsk dista da Kiev circa 700 km. Prima in treno ci volevano una decina di ore, oggi anche 14. La gente lo sa, il percorso è cambiato perché non si passa più da Slavyansk. Poltava, Dnepropetrovsk, e giù per Donetsk. Capolinea Mariupol, sulla costa, ma non ci arriva quasi nessuno.
Il treno è una panoramica del paese: per le carrozze “sovietiche” senza scompartimenti, essenziali, solo lamiera e panche imbottite, rivestite in materiale sintetico ma lavabile che da lontano sembra pelle; per la gente che si incontra in viaggio, il melting pot ucraino concentrato su un convoglio che percorre un pezzo del paese.
Si parte alle 20, con lentezza, c’è tempo di chiacchierare con i dirimpettai tirando fuori tutte le parole possibili di almeno tre, quattro lingue. Raramente qualcuno parla inglese, nemmeno Mashulichka, che ha 13 anni e che lo studia, l’inglese. “Ma non è la sua materia preferita”, cerca di spiegare la madre, Valentina, in ucraino. Eppure lei è curiosa, sfoglia il quaderno di appunti presi in italiano, vuole vedere le foto del treno, che riflettono un gioco di chiaroscuri. Ha il profilo Facebook come tutte le ragazzine della sua età, sta finendo la scuola primaria, fa la settima classe, e sta per andare in vacanza. Vorrebbe fare la stilista e magari lavorare in Italia, nella moda.
Si cena, a bordo del treno, con quello che ci si è portati da casa. Madre e figlia tirano fuori dallo zaino i vareniki all’amarena, ma “non sono fatti in casa”, e quasi si scusano di non aver avuto il tempo di prepararli personalmente. Poco più avanti un uomo sta consumando della carne in scatola, con il pane nero. Qualcuno ha portato dei biscotti. Il viaggio è lungo e spesso le stazioni dove si fa tappa sembrano quasi abbandonate. Le ferrovie offrono solo chai e cava, the e caffè per tre hrivne, circa venti centesimi, arrotondando per eccesso. Bicchiere di vetro e porta bicchiere d’acciaio, col manico, che ne fa una tazza.
Profughi non profughi
La giovane mamma spegne il sorriso e cambia faccia solo quando si parla di Donetsk. “Perché ci andate – chiede – è molto pericoloso, lì si spara”. Yura ci va perché è nato lì, e lì ha lasciato genitori, moglie e figlia. Vuole chiudere le sue attività commerciali e trasferirsi vicino Kiev. Probabilmente avrebbe fatto la stessa scelta anche senza la guerra, perché non accetta la mentalità di tanti suoi concittadini. “Come si fa ad arrendersi per la paura, a non fare nulla per impedire quanto sta accadendo – spiega – quando poche centinaia di persone si sono impossessate del potere nella nostra regione. Eppure non è la maggioranza a volere la repubblica indipendente o l’annessione alla Russia, ma chi non è d’accordo resta a casa. Oppure scappa”.
Yura ha già avuto una discussione molto accesa due giorni prima su questo tema. A tavola con una famiglia di Donetsk, arrivata di notte a casa di un suo amico, a Ucrainka, venti km dalla capitale. Una località sul Dnepr dove in tanti vanno a trascorrere le vacanze, sul fiume. Si pesca, si fa il bagno, e negli ultimi tempi, chi vuole e può fa spazio ai profughi.
“Certo che mi sento Ucraina – diceva a Yura la signora più anziana della famiglia, arrivata con figlia, genero, tre nipoti e un cane – e certo che se non potessi più tornare a casa ne soffrirei. Ma cosa posso fare io contro uomini armati?”
Yura scuoteva la testa davanti a lei e la scuote pure in treno. Lui ha già lasciato Donetsk due volte: una per trasferirsi in Italia, dove ha lavorato cinque anni in un’azienda agricola campana, e una per stare sulle barricate di Maidan. “Pure io avevo paura quando ci sparavano addosso – ricorda – però ero lì perché sentivo fosse giusto difendere il mio paese, e reclamare un governo differente e meno corrotto. Ora mi danno del fascista per questo, come se la piazza fosse stata tutta Pravji Sector, ma non è così. Basta guardare i risultati delle elezioni per capirlo.” La moglie di un suo amico che lavora al comune gli ha riferito che alcuni colleghi hanno incontrato un fascista, in ufficio: voleva il permesso di votare a Kiev alle presidenziali. Ma loro lo avevano mandato via. “Indovina chi era – dice alzando gli occhi al cielo – ed ecco come mai non sono riuscito a votare a Kiev”.
All’alba il treno ha assunto quasi un aspetto spettrale. È praticamente vuoto, solo poche decine di persone arriveranno a Donetsk. Con un paio d’ore di ritardo che nessuno lamenta. “Da lì al massimo si va via – è una frase che si sente dire spesso – chi può lo fa. Almeno ora, in estate, con la scusa della chiusura delle scuole. E chi deve andarci non ha poi così fretta”.
La stazione
La stazione è curata e moderna, con ampie vetrate e scale mobili: appena due anni fa era il biglietto da visita, insieme all’aeroporto, della capitale ucraina del carbone che ospitava le partite degli Europei di calcio nel suo Donbass Arena, il mega stadio inaugurato nel 2009. Ora si riempie solo negli orari di partenza dei treni per la Crimea o per Kiev, mentre l’aeroporto è off limits dalla fine di maggio, dopo l’intervento dell’esercito ucraino contro i “separatisti” che ne avevano preso il controllo. Tutta la città, oltre un milione di abitanti, sembra quasi inanimata. La maggior parte dei negozi sono chiusi, e si vedono pochissime auto per strada e nei parcheggi delle vie del centro. La gente esce il minimo indispensabile e lo fa a piedi, perché ai check point della “repubblica” le macchine le sequestrano rapidamente. Fanno scendere tutti e li lasciano per strada. Chi ha i soldi per pagare il riscatto riesce a recuperarla, gli altri non ci provano nemmeno. Pure le concessionarie non espongono più nulla in vetrina, perché sanno che è una scommessa persa in partenza.
Piazza Lenin e l’oblast occupato
Quasi ogni giorno in piazza Lenin, in pieno centro e poco lontano dal palazzo occupato della Regione, che è diventato la sede della Repubblica autoproclamata di Donetsk, si tiene un comizio. Il copione è sempre lo stesso: alcune decine di persone arrivano con la coccarda a righe nere e arancione appuntata sul petto, le bandiere della Donietska Narodna Respublika, La “Repubblica Popolare di Donetsk”, qualche striscione contro l’esercito e il governo ucraino. Ci sono anche due chioschi del Partito delle Regioni e del Partito Comunista che distribuiscono i giornali. Sempre gli stessi, ogni giorno, con le immagini più crude dei morti del rogo di Odessa del 2 maggio. A parlare in una mattina di pioggia c’è Denis Pushilin, autonominatosi presidente del nuovo parlamento di Donetsk che racconta alla gente che ci saranno riforme e soprattutto una riorganizzazione delle istituzioni. Poi va via, a bordo di un van senza targa con la sua scorta armata di kalashnikov.
Nel frattempo nel palazzo dell’oblast, la “ex” regione, i primi di giugno è cominciata effettivamente una fase riorganizzativa, che ha messo ai margini coloro che erano serviti inizialmente per occupare i punti chiave della città (regione, due sedi dell’Sbu comunale e regionale, la sede della televisione) armi in pugno, ma che poi non avrebbero potuto né difenderli né riorganizzare uno stato, per quanto autoproclamato. Minivan partono dal piazzale carichi di uomini, anche loro kalashnikov in mano, e provviste. Vanno via dopo essere stati nel palazzo giorno e notte. Contemporaneamente arrivano piccole squadre di altri uomini meglio equipaggiati, che fanno il percorso inverso. Il palazzo è enorme, e al settimo piano dove si “gestiscono” i contatti con la stampa e gli “accrediti” è rimasta intatta solo una stanza. Il resto è solo scrivanie e cartelle di documenti buttati per aria, e lasciati nei corridoi, sui tappeti impolverati. Salendo le scale, le vetrate di ogni pianerottolo sono state riempite di fogli di carta con vignette sui politici di Kiev e sul presidente Poroshenko.
Al piano terra, superato l’ingresso transennato da sacchi di sabbia e filo spinato, c’è una zona dedicata alla cucina, con tre donne anziane ai fornelli. Una di loro si chiama Livia e spiega che tutte le provviste sono state donate dalla gente comune come lei. Ci sono bottiglie d’acqua tutte della stessa marca che riempiono una parete, un frigorifero nuovo a due ante pieno di salumi e due pozzetti freezer con i surgelati. Si commuove Livia quando pensa ai “suoi” morti, e dice che l’esercito ucraino vuole sterminare tutta la regione, tutti quelli che parlano russo. Ed è per questo che lei è lì, a dare una mano con quello che sa fare, cucinare. Alle sue spalle la tv è accesa sul nuovo canale “di stato” di Donieska Respublica che per ore trasmette news e racconta di quanti civili stiano morendo sotto il fuoco ucraino. Il giorno dopo, è il 2 giugno, in tv non si può più guardare altro in città. O la nuova informazione, o quella russa, o i cartoni animati. Di news in ucraino non è rimasto nulla. Due caporedattori sono stati portati via dalle sedi dei loro giornali, racconta un giornalista televisivo del posto, che per parlare esce dalla redazione e chiede di non essere nominato. Più di una persona è “sparita” negli ultimi due mesi. “Confido che li facciano tornare a casa perché sono persone conosciute – dice – ma ormai qui è difficile lavorare”.
Il Kalinin
Qui a volte arrivano notizie di nuovi scontri, e nuove vittime. Pare che abbiano portato i corpi di alcuni civili che stanno combattendo per l’indipendenza dai “nazionalisti di Kiev”. Si trovano nel piazzale di uno dei due più grandi ospedali della città, il Kaslina. L’intero complesso circondato da un grande giardino contrasta con i palazzi ricchi e i viali curati del centro: pareti scrostate, rampicanti che diventano liane, tubature arrugginite a vista, strade interne piene di buche allagate dalle ultime piogge. Il Mors, l’obitorio, è uno dei padiglioni più in fondo rispetto all’ingresso. È appena arrivato un camion senza intelaiatura, e dentro c’è effettivamente un corpo. Adagiato lì, in attesa di essere trasferito all’interno della struttura. Due operatori infilano i guanti, lo fanno scivolare su una barella e lo portano dentro. Nel frattempo arriva il responsabile del “reparto”: “nessuno scontro, oggi – dice – quell’uomo ha avuto un infarto, gli ultimi morti degli scontri sono arrivati qui da noi tre giorni fa, erano tutti all’aeroporto. 36 persone, non sapevamo dove metterli tutti, per questo sono stati trasferiti in una fabbrica di gelati, lì hanno più celle di noi”. E adesso? “Adesso le salme sono tornate in Russia, non erano persone del posto”.
La chiesa
Anche le chiese, quelle greco-ortodosse di Kiev, si sono quasi svuotate da queste parti. Padre Vasilij racconta che dopo il referendum dell’11 maggio passavano sempre uomini armati davanti al suo portone. Ma dentro non sono mai entrati. “Comunque noi accogliamo tutti, senza distinzioni – dice – non facciamo politica”. Anche lui conferma che il controllo è molto sottile, perché la gente è soggiogata dalla propaganda e vive nel terrore di uscire di casa. Senza capire bene cosa stia succedendo. Nel frattempo i combattenti che affrontano la guardia Nazionale Ucraina arrivano da fuori. Gli unici morti che finora ho visto seppellire qui – dice – sono i ceceni tumulati nel vicino cimitero musulmano. Quelli che nessuno reclama, nemmeno da morti”.
La sicurezza fai da te
Alla stazione la sera arrivano uomini in mimetica. Sono tutti disarmati, si tratta soprattutto di ex militari che ora hanno deciso di organizzarsi per presidiare la sicurezza della città. L’unico modo per farlo, e per essere tollerati dai separatisti, è quello di non portare armi. Così cercano di far sentire meno insicure le persone che escono per strada, che ora hanno il terrore dei cecchini come delle razzie nei supermercati. “È l’unico modo che abbiamo per fare qualcosa – dice uno di loro – tenendo conto che ad oggi anche la polizia ufficiale risponde ancora al governo centrale nella zona vicina all’aeroporto, e alla nuova repubblica nella zona dei palazzi. Qui in stazione? Zona neutra”. Certo che è difficile capire cosa succede, sentirsi sicuri, sapere a chi rivolgersi. Poco lontano al presidio di questa guardia fai da te abita Gabriele, italiano che ha sposato una giovane donna di Donetsk, e che non si spiega tutti gli eventi dell’ultimo anno, ossia da quando è arrivato qui ad oggi. “Si è passati dalla tranquillità a sentire gli elicotteri sulle nostre teste ogni giorno”. Anche lui pensa che il governo centrale voglia mettere fuori legge i russofoni, ma non riesce a prendere una posizione su quanto sta accadendo. “Stanno sbagliando tutti – dice – alla fine quello che vuole la gente, comunque la pensi, è vivere in pace”. L’unica certezza per il momento è che vicino alla stazione non ci passa più.
Bel reportage, molto “vissuto” dall’interno. Sarebbe stato interessante vedere qualche immagine in più. Penso che quando si fanno dei bei pezzi, tipo questo, si dovrebbe fare una sorta di “servizio speciale”, con un’ampia documentazione fotografica che ne amplifichi il già ricco contenuto.