Di cultura si parla tanto, forse troppo. Ma spesso invano. Il sistema culturale italiano, viziato da decenni di enfasi e drammatizzazioni, non si sottrae a una vistosa superfetazione verbale: per musei, teatri e siti archeologici aleggiano ectoplasmi da bar dello sport, pronti a emettere sentenze e magari a suggerire ricette. Gli slogan e le etichette non mancano: abbiamo attraversato metafore petrolifere, analogie distrettuali, compiacimenti creativi, derive protezionistiche.
Una sequenza di Ministri, di diverso segno politico ma molto più omologhi di quanto le appartenenze possano far credere, ha governato negli anni una sorta di emergenza permanente costruendo provvedimenti bizantini più attenti alla forma che alla sostanza, mirati a tamponare falle in gran parte irredimibili, cauti nelle innovazioni e generosi nel mantenimento dello status quo. Le cose sono decisamente peggiorate, non soltanto per la contrazione progressiva dei fondi pubblici, ma soprattutto per l’incancrenimento di regole dissennate, censorie e disincentivanti che hanno stabilizzato il sistema culturale finendo per mummificarlo.
In questo modo la discussione pubblica sulla cultura in Italia ha fertilizzato due filoni contrapposti ma dipanati con acredine e avvilimento: da una parte, i crolli e i fallimenti che da Pompei ad alcuni teatrini di provincia stanno attraversando il Paese in modo piuttosto imparziale e spesso a fronte di una disinvolta indifferenza degli amministratori pubblici; dall’altra parte, le ansie e le ripicche per le tornate di nomine che dalle Direzioni alle Soprintendenze segnano il tempo nelle istituzioni culturali scatenando velleità demiurgiche che in breve tempo si trasformano in enormi alibi: non funziona, ma è colpa di qualcun altro (doglianza facile in un sistema privo di una vera catena del comando e di norme sull’accountability).
Qualcosa sta avvenendo. Che la cultura italiana possa davvero cambiare verso è ancora presto per capirlo. Ma i segnali relativi ai primi mesi di Dario Franceschini Ministro dei Beni, le Attività Culturali e il Turismo (almeno il nome potrebbero cambiarlo, a questo povero ministero) appaiono incoraggianti e con ogni probabilità indicano un mutamento di rotta rispetto a troppi anni di sopravvivenza ben confezionata. La tecnica è chiara, come in quei giochi nei quali si deve predisporre un terreno favorevole in modo quasi impercettibile prima di sferrare l’attacco finale.
Apparentemente sono decreti omnibus che contengono microinterventi, dalla possibilità di fotografare le opere nei musei a un massiccio sconto fiscale a chi dona alla cultura. Certo, potrebbero essere soltanto azioni appealing e di fatto scoordinate. Eppure sembrano rivelare una filosofia di fondo che risponde a un bisogno strategico: consolidare progressivamente la struttura di un sistema inedito governato da ragionevolezza, efficacia e responsabilità, arrivandoci per gradi quasi sommessi in modo da non scatenare la resistenza dell’apparato e degli stessi professionisti, che nell’attuale palude bizantina stanno comodi combinando una minima garanzia di continuità con l’assenza di vera responsabilità.
Il punto non è tanto valutare interventi e strumenti dei quali potremo soppesare l’efficacia una volta a regime. Si tratta comunque di misure positive e necessarie; alcune estendono l’incentivo pubblico verso forme di partecipazione sempre più utili al sistema culturale. L’art bonus non soltanto incoraggia donazioni e contributi rimuovendo in misura rilevante il vincolo fiscale, ma per la sua pervasività stimola interventi privati su beni, attività e istituzioni culturali non necessariamente di prima grandezza, il che fa presagire una più estesa diffusione sul territorio e un’attenzione – quanto mai necessaria – verso la cultura del territorio. Non dimentichiamo che Uffizi e Teatro alla Scala, sia pure in eccellente compagnia, sono le eccezioni di un sistema culturale fatto da una miriade di piccole e medie istituzioni disseminate con ecumenica generosità per tutto il territorio nazionale.
L’art bonus dovrebbe poter tarare in modo equilibrato i possibili interventi privati, magari finalmente incoraggiando piccole imprese o addirittura associazioni e comunque singoli cittadini a sostenere con un contenuto sforzo finanziario istituzioni che rimarrebbero altrimenti neglette e appese al sempre più esile filo dei fondi pubblici. Questo incentivo può funzionare se i donatori sono spinti da una forte motivazione. Finora i musei (e lo stesso vale per teatri, siti archeologici e quant’altro) sono percepiti come torri d’avorio piuttosto impenetrabili e comunque più associati a vincoli e divieti oltre che a un’atmosfera quasi religiosa.
Nei prossimi mesi si potrà fotografare liberamente tutto quello che c’è esposto, i minorenni non dovranno pagare il biglietto (e gli anziani sì, ma la cosa appare del tutto logica), il venerdì sera si chiude alle 22 e la prima domenica di ogni mese si entra gratis. Sembra banale, ma è un piccolo ventaglio di regole semplici che tendono a restituire i musei e i luoghi della cultura alla comunità del territorio, agli spazi urbani ne confronti dei quali la convinzione di essere speciale ha finito per isolare la cultura. Tra un poco cominceremo a pensare “il mio museo”, il che segnerà una svolta copernicana.
Gli altri provvedimenti sembrano condividere questa filosofia di fondo, per quanto alcuni servano essenzialmente da tampone su falle ormai cicatrizzate. Ma non dovranno passare, così come sono, per i colli di bottiglia sindacali, per la renitenza al cambiamento della dirigenza, per il dogma dei molti guelfi superstiti che preferiscono l’immobilità a qualsiasi anche minimo aggiustamento. E non entrano nei territori fragili dell’enfasi intellettuale che adotta slogan nuovi (il bene comune, per esempio) per orientarsi verso nuovi modelli di sopravvivenza che snobbano lo Stato e schivano il mercato.
Che cosa può succedere? Un sistema al collasso va analizzato con attenzione. La centralità delle questioni finanziarie ha finito per distrarre il sistema culturale dalla necessità di un’anamnesi rigorosa (più o meno quell’analisi post-mortem che la Pixar fa impietosamente per cogliere anche i minimi punti di fragilità di ogni produzione). A ben guardare, il morbo della cultura italiana è la sua over-regulation. Anche fingendo che non ci sia un problema di drafting (non solo i passanti ma anche gli addetti ai lavori spesso stentano a capire che cosa ogni provvedimento dica davvero) e di chiarezza (molte leggi si muovono pomposamente nel guado tra enunciazioni nobili ma prive di senso e complicazioni inestricabili nel definire la catena del comando), si dovrebbe comunque misurare la moltiplicazione delle leggi e la sua diretta influenza sulla mummificazione del sistema.
Naturalmente non si tratta di colpe burocratiche, ma di una quasi comprensibile indulgenza nei confronti di un atteggiamento che gli stessi professionisti della cultura hanno mantenuto ed enfatizzato per lungo tempo. Molto spesso si è sentita reclamare a gran voce una legge di sistema, o una griglia di profili professionali. Tuttora sta partendo la lite mascherata da ragionamento per accaparrarsi l’etichetta di “teatro nazionale” e per evitare quella che in un Paese più attento ai pennacchi che non alla sostanza può suonare come una retrocessione. Immaginando che come è avvenuto in tutti i campi ogni nuova legge poi genererà interventi correttivi, ulteriori provvedimenti relativi a casi specifici, dispute interpretative (qualche anno fa eravamo arrivati ai ricorsi davanti alla Corte Costituzionale).
L’azione di Franceschini, se davvero è frutto di un indirizzo strategico e persegue lo scopo di innovare il sistema culturale estraendone le opportunità e declinandone le responsabilità, può rappresentare una svolta attesa da tanti anni e ormai ineludibile. Si tratta, intanto, di smantellare la crosta moraleggiante che ha reso il sistema asfittico. Il punto non è – come pure ogni tanto si declama – la competitività del sistema Paese o il trionfo del Made in Italy, ma semplicemente il ritorno alla normalità specifica della cultura come risposta incisiva alla nostra urgenza espressiva, al bisogno di formare il capitale umano in modo sistematico, al valore del circostanziare domande anziché spacciare risposte. Magari è la volta che diventiamo laici.
Questa risposta passa attraverso una solida deregolamentazione della cultura in tutte le sue sfaccettature. Poche precise regole possono funzionare molto di più che un grappolo di norme cavillose in espansione progressiva. I passi dovranno essere molti e, come si può vedere già adesso, minimali. I punti d’arrivo dovrebbero essere chiari: lo snellimento radicale del Ministero, che dovrebbe enfatizzare il proprio ruolo tecnico di istituzione d’indirizzo e di coagulo strategico.
Alcune funzioni cui il sistema guarda tuttora come vitali dovrebbero mutare approccio e spostarsi nei territori: la gestione integrale dei musei, che rimangono uffici periferici sotto la griglia tecnica e burocratica delle Soprintendenze, va ceduta rendendo i musei stessi imprese pubbliche ma responsabili che elaborano progetti di medio periodo, atti-vano connessioni interne e internazionali in piena autonomia, selezionano la dirigenza a fronte di strategie precise, ne riconoscono il raggiunmento dei risultati e ne stabiliscono incentivi e sanzioni, estraggono opere che languono nei depositi ricollocandole negli spazi urbani da dove di solito provengono.
Il finanziamento dello spettacolo dal vivo va ridisegnato superando in modo netto la ripartizione per quote che sopravvive indecorosamente dai tardi anni Sessanta. Più che l’istituzione i fondi pubblici dovrebbero rivolgersi all’azione e ai programmi, possibilmente accrescendo negli anni il peso della spesa in conto capitale (infrastrutture, tecno-logia, strumenti, spazi tecnici e laboratori) superando il sistema attuale che si limita a coprire la spesa corrente con metodi di valutazione censorî e piuttosto ermetici e pertanto disincentiva del tutto nei confronti delle innovazioni e dell’imprenditorialità.
Il sostegno al cinema, già più avanzato di quello degli altri comparti, dovrebbe enfatizzare i profili strutturali delle imprese che producono, deburocratizzando i meccanismi di attribuzione dei fondi e di monitoraggio delle azioni, magari spostando il peso dell’intervento pubblico sulla formazione dell’intera squadra gestionale, tecnica e artistica mettendola seriamente in condizioni di affrontare il mercato. Molti film finanziati dal Ministero sono tuttora di bassa qualità tecnica o di velleitaria caratura creativa. È il caso di dare la canna da pesca smettendola di consegnare il pesce a chi lo vuole mangiare. E naturalmente va abolito il contributo sugli incassi, che premia chi di contributo ha meno bisogno avendo conseguito risultati sul mercato.
Un sintetico elenco dei necessari mutamenti sostanziali non può non includere la legge Ronchey. Non importa valutarla come provvedimento, quando è stata introdotta si parlava ancora di adeguamento a quanto avviene all’estero e simili giaculatorie da Paese tardo-agricolo. La sua messa a regime ne ha mostrato tutte le falle, dalla rispettiva de-motivazione di pubblico e privato nel dover gestire in compartimenti stagni un’unica cosa, la domanda di visite (e dunque di servizi e prodotti, la cultura è rimasta iconica soltanto per i guardiani delle fede che tentano di eludere lo scorrere del tempo). I musei italiani sono pieni di storici dell’arte eccellenti e condannati a fare i custodi da concorsi pletorici, di giovani storici dell’arte emergenti costretti a ripetere a memoria il testo delle visite guidate in un regime contrattuale non per forza affidabile, vendono oggetti non prodotti internamente e comunque non ne potrebbero incassare i proventi.
Importante in questo senso uno dei primi provvedimenti del Ministro che lascia gli in-cassi della biglietteria ai musei che li conseguono. Ma è solo un primo, indispensabile passo. Si potrà obiettare che una massiccia deregolamentazione potrebbe rendere più fragile il sistema culturale. Falso. Mentre il milieu autoreferenziale della cultura italiana continua ad accapigliarsi su questioni che somigliano tanto alle liti per i confini dei campi, emerge un incoraggiante humus di nuove associazioni, organizzazioni e imprese che si colloca in aree tematiche e spazi urbani non convenzionali.
Non è un flusso omogeneo ma un fermento vitale e dinamico che guarda al resto del mondo come casa propria, che sostituisce una sana ibridazione semantica alle contami-nazioni di convenienza, che dialoga con la propria comunità anziché cercare effetti speciali e presenze sui media. Questo sorprendente e veloce altrove culturale è nato senza troppa regolamentazione e si muove come gli animali evolutivi in un eco-sistema ostile. È tempo di trarne se non altro il segnale del tutto conforme allo zeitgeist che sta sostituendo i valori di un’economia dimensionale e seriale con quelli di un paradigma basato sull’esperienza e sulle relazioni. La cultura dei prossimi anni ne sarà segnata: per traghettare il sistema culturale in questa cornice inedita è indispensabile – e sempre meno differibile – riscriverne le regole.