Da Reset-Dialogues on Civilizations
Questo saggio è una versione elaborata del contributo che Davide Zoletto, Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Umane dell’Università degli Sudi di Udine, ha presentato il 12 dicembre 2013 a Milano, in occasione dell’ultimo incontro del ciclo di conferenze “Parole e idee per un mondo plurale. Un lessico interculturale” promosso da Reset-DOC e Fondazione Giangiacomo Feltrinelli. I nostri dialoghi milanesi, quest’anno dedicati al tema della “Cittadinanza inclusiva” ricominciano il 17 aprile con Giuliano Amato e Khalid Cahouki, che discuteranno “Una nuova stagione della cittadinanza in Europa”.
Vorrei partire dal titolo propostomi dagli organizzatori di questa prestigiosa serie di incontri per introdurre quelli che mi sembrano poter essere alcuni nodi centrali di una riflessione su come la scuola possa/debba ripensarsi alla luce delle sempre più visibili situazioni di eterogeneità che oggi la caratterizzano. Non che l’eterogeneità sia un elemento nuovo per la scuola – anche a considerare solo quella parte di eterogeneità (una fra le altre…) legata ad allievi, allieve e famiglie nella migrazione, bisogna prendere atto che essa è presente ormai da più di vent’anni nelle classi del nostro Paese. Quello che appare urgente mettere a tema è piuttosto quali siano le forme specifiche che assume oggi l’eterogeneità (per esempio quelle legata alle migrazioni di ieri e di oggi, o agli allievi e alle allieve figli delle famiglie migranti ) nelle nostre diverse classi e scuole, per descrivere, comprendere e successivamente orientare i contesti educativi (con i loro sempre presenti punti di forza e di debolezza) entro i quali allievi, allieve ed insegnanti si trovano oggi a imparare ed insegnare.
In questa prospettiva mi pare per esempio importante suggerire – nel titolo di questa riflessione – l’opportunità di inserire delle virgolette intorno al termine “culturale”, a ricordarci prima di tutto che quelle riconducibili alle cosiddette “culture” non sono le uniche differenze che diventano oggi particolarmente visibili nella classi eterogenee. Anzi, l’uso di chiavi di lettura solo o prevalentemente “culturaliste” potrebbe persino impedirci, oggi come ieri, di cogliere quali sono effettivamente le peculiarità biografiche di alcuni allievi ed allieve: si pensi, per portare solo un esempio tra i molti possibili, ai percorsi biografici di quegli allievi ed allieve che oggi spesso riconosciamo nella molto discussa e ambivalente – e non sempre condivisa – locuzione “seconde generazioni” (cfr. per una lettura problematizzante: Sayad 2002; per una prospettiva sulle “seconde generazioni” nel contesto italiano si vedano per esempio Dalla Zuanna, Farina, Strozza, 2009; Genovese, Zannoni, Filippi, 2011; Gobbo, 2008; Granata, 2011).
Inoltre, e questo mi sembra un punto particolarmente rilevante anche in prospettiva pedagogica, un’attenzione mirata alle caratteristiche specifiche assunte oggi dai percorsi biografici di allievi ed allieve, mostra una volta di più quello che la ricerca antropologica ha più volte sottolineato: ovvero che le “culture” stesse sono prima di tutto plurali al loro interno. Per cui l’idea stessa di un “pluralismo culturale a scuola” potrebbe essere utilmente declinata non solo nel senso di una pluralità di culture presenti entro i contesti scolastici, ma anche nel senso delle molteplicità di percorsi con i quali insegnanti, allievi e allieve possono attraversare le cosiddette “culture” entro cui si trovano a insegnare e imparare, prima fra tutte la “cultura” delle scuole dove trascorrono una parte importante delle loro giornate.
Da questo punto di vista – se il “pluralismo culturale a scuola” non è solo quello fra le culture, ma anche quello all’interno delle culture stesse – può diventare importante proporre un’ulteriore considerazione sul titolo di questa riflessione. Collegare il “pluralismo culturale a scuola” solo o soprattutto alla presenza degli allievi e delle allieve cosiddetti “stranieri in classe” potrebbe comportare infatti almeno due rischi importanti.
Da un lato si potrebbe correre il rischio di perdere di vista la concretezza dei percorsi scolastici di ognuno di questi allievi e allieve. Quanti modi concreti ci sono infatti oggi di essere allievi e allieve “stranieri” in una classe? In quale senso e fino a che punto è corretto – almeno su un piano propriamente pedagogico e didattico – considerare “stranieri” ragazzi e ragazze che sono nati e cresciuti nel Paese di immigrazione, condividendo – pur nelle inevitabili differenze, e pur tendo conto degli stigmi con cui devono quotidianamente confrontarsi – così tanta parte della loro vita di ogni giorno con i loro coetanei “autoctoni”? E che dire dell’eterogeneità “culturale” e “linguistica” che caratterizza oggi (e ha caratterizzato in passato) anche gli allievi e le allieve figli di genitori con cittadinanza italiana?
Dall’altro lato, una eventuale correlazione troppo stretta e univoca fra “pluralismo culturale a scuola” e “allievi stranieri” comporterebbe anche un secondo rischio: ovvero quello di rivolgere lo sguardo sempre e solo sulla diversità altrui, senza cogliere né il carattere “culturale” delle nostre concezioni della scuola, né quella pluralità che possiamo o potremmo valorizzare anche all’interno dei nostri modi di pensare e fare quotidianamente scuola. In questo senso, forse, potrebbe essere interessante provare a rivolgere uno sguardo problematizzante – in un certo senso uno sguardo “da stranieri” (Zoletto, 2007) – anche sulla nostra quotidianità di insegnanti o ricercatori. “Stranieri in classe” potremmo in questo senso essere anche noi insegnanti e ricercatori, non in un’accezione estetizzante o solo metaforica, ma nel senso – che si potrebbe dire addirittura “metodologico” – di uno sguardo che sappia indagare in modo critico e autocritico non solo la quotidianità dei nostri allievi e allieve “stranieri” (sia nei loro punti di forza, sia nelle quotidiane e precise situazioni di difficoltà che incontrano sia loro che le loro famiglie), ma anche il modo in cui la nostra quotidianità di insegnanti e ricercatori concorre (o può concorrere) al mantenimento o al superamento di quelle situazioni di difficoltà.
Con quali parole e con quali modi di pensiero possiamo dunque avvicinarci al “pluralismo culturale a scuola”? E come possiamo collegarlo ai concreti percorsi scolastici di tutti gli allievi e le allieve (autoctoni, migranti e post-migranti)?
Si tratta, forse, in primo luogo, di esplorare le modalità d’uso di una serie di termini (“straniero”, “alunni con cittadinanza non italiana”, “immigrati”, “migranti”, “autoctoni”, “seconde generazioni”, “nuovi italiani”, “post-migranti” ecc.) che circolano nel nostro linguaggio, nei documenti, nei progetti e nelle pratiche educative e che concorrono ad orientare quotidianamente il nostro modo di pensare e costruire il “pluralismo culturale” a scuola. Sono termini che entrano in “giochi linguistici” diversi fra loro, che si articolano poi con gli altri “giochi linguistici” che circolano oggi dentro e intorno alla scuola, e che possono infine essere diversamente subiti così come – in una certa misura, e in modo sempre situato e diverso a seconda della posizione che i vari soggetti occupano entro i contesti scolastici – possono a volte essere anche reinterpretati (“ri-giocati”) (Butler, Spivak, 2007).
Molti di questi termini rinviano a modi di pensare che corrono il rischio di procedere per contrapposizioni più o meno esplicite – “noi” versus “loro”, la “nostra cultura” (spesso, non a caso, al singolare…) versus le “loro culture” – e che finiscono per nascondere quella che si rivela invece spesso una pluralità di differenze e somiglianze che vanno ben al di là delle presunte contrapposizioni. Dentro queste contrapposizioni, infatti, l’esperienza concreta di allievi e allieve (oltre che delle loro famiglie) finisce assai presto per essere persa di vista, coperta tanto dalle visioni “esotiche” (“orientaliste” direbbe Edward Said…) che ne idealizzano i vissuti culturali “altri”, tanto dalle visioni “pragmatiche” che riducono gli allievi e le allieve migranti o post-migranti ai loro accidentati percorsi scolastici e ai “problemi” che questi percorsi pongono all’istituzione scolastica. E questo nonostante il fatto che, anche nel nostro Paese, tanto la ricerca pedagogica interculturale (si vedano per esempio Favaro, 2011; Fiorucci, 2008; Portera, 2013; Santerini 2010) quanto lo stesso quadro normativo (si vedano per esempio le linee di azione per l’interazione interculturale prospettate dal documento La via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli allievi stranieri, MPI, 2007), ci invitino ormai da tempo a non schiacciare il tema del cosiddetto “pluralismo culturale” sul tema – pur importante, e su cui non bisogna mai abbassare la guardia – dei percorsi scolastici degli allievi migranti e post-migranti.
È certo fondamentale partire dai dati preziosi – offertici annualmente dai rapporti ministeriali – che ci mostrano molte criticità per quanto riguarda i risultati scolastici, il ritardo o la dispersione degli allievi e delle allieve migranti e post-migranti. (MIUR – Fondazione ISMU, 2012; MIUR – Ufficio di Statistica, 2012). E tuttavia anche di fronte a dati come questi potremmo correre il rischio di incorrere in analisi troppo superficiali. Il rischio è infatti che – nonostante le importanti indicazioni che arrivano anche dai già citati documenti ministeriali, (si vedano per esempio le linee di azione suggerite dalla già menzionata Via italiana per la scuola interculturale e l’integrazione degli allievi stranieri, MPI, 2007) – prevalga nelle nostre analisi di questi dati una visione solo negativa dei percorsi di questi allievi e di queste allieve (a maggior ragione quando prevalgono letture incentrate principalmente su un loro possibile “disagio socio-culturale” o “linguistico”). Letture di questo tipo possono concorrere ad alimentare un atteggiamento che riduce la “scuola plurale” solo a una serie di strategie per risolvere i “problemi” di alcuni allievi e allieve: allievi e allieve le cui differenze – lette in termini superficialmente culturalisti – vengono viste come qualcosa che è solo “problematico” e che riguarda solo “loro” (gli allievi e le allieve migranti o post-migranti).
Di fronte a questi possibili rischi è necessario probabilmente, da un lato, cercare di sottrarsi alla tentazione – a volte ancora presente – di sovrapporre precise situazioni di marginalità sociale (che occorre continuare a studiare nella loro complessità: si pensi ai controversi problemi della segregazione urbana e della segregazione scolastica…) a presunte caratteristiche culturali di determinati gruppi di allievi e allieve. Dall’altro lato, si tratta di richiamare l’attenzione sul fatto che l’eterogeneità che caratterizza i contesti scolastici contemporanei e i vissuti di chi li attraversa – sia migranti che autoctoni, sia figli di genitori migranti che figli di genitori autoctoni – è in realtà costituita dall’intersezione di una molteplicità di aspetti (e in alcuni casi dall’intersezione di una molteplicità di stigmi).
Il riferimento è qui, certamente, ai difficili percorsi migratori e di “cittadinanza” degli allievi e delle allieve, e naturalmente anche ai loro “vissuti culturali”, ma – nello stesso tempo – anche ad altri aspetti fondamentali, come il genere, l’età, la classe sociale: tutti aspetti che si intersecano in modi spesso diversi, sempre situati e che il più delle volte non coincidono con le contrapposizioni a cui vorremmo ridurli. A questo proposito si parla oggi, non a caso soprattutto a partire da una prospettiva di genere, di “intersezionalità” (McCall, 2005).
Si tratta, soprattutto, di evitare che approcci solo culturalisti ci inducano a letture che enfatizzano solo le “altrui” debolezze (secondo versioni che ricordano antiche letture ispirate al paradigma della “deprivazione culturale”). E si tratta di favorire invece un’attenzione critica e autocritica da parte della scuola: un’attenzione che sappia focalizzarsi sui molti modi in cui la scuola stessa fatica a modificarsi per poter recepire le istanze delle differenze (e non solo quelle culturali…).
Si tratta, inoltre – soprattutto per quanto attiene allo specifico dell’analisi delle cosiddette “culture” – di dotarsi in quanto scuola di atteggiamenti e strumenti in grado di leggere in profondità non tanto le presunte “culture altre”, ma le effettive “pratiche culturali”, ovvero i modi concreti e quotidiani con cui le persone che attraversano e abitano la scuola danno significato alla loro vita scolastica ed extrascolastica (de Certeau, 1980).
Da questo punto dovremmo fare riferimento ad almeno due fondamentali aspetti.
Da un lato, il riferimento dovrebbe essere alle pratiche culturali significative nella vita scolastica ed extrascolastica degli allievi e delle allieve tutti (migranti, postmigranti, autoctoni): si pensi ai repertori linguistici e culturali delle famiglie (tutte) e degli allievi (tutti), ma anche alle cosiddette “culture dei pari”, sia scolastiche che extrascolastiche (cfr. per esempio: Moll, Amanti, Neff, Gonzalez 1992; Corsaro, 1997; Gutierrez, Rogoff, 2003).
Dall’altro lato, un riferimento fondamentale dovrebbe essere fatto anche – vorrei dire, forse, soprattutto – alle pratiche culturali di cui è fatta la nostra quotidianità di professionisti della scuola, che spesso (come ci ricordano antropologi e scrittori) ci sono invisibili come lo è l’acqua per i pesci… (Kluckhohn, 1949, cit. in Rogoff 2003: 11; ma cfr. anche Wallace 2009). In questa prospettiva, come ha ben sintetizzato l’antropologa dell’educazione Mica Pollock potremmo allenarci, per esempio, a cogliere quanto possano essere diversi – anche all’interno di uno stesso gruppo di allievi, allieve e famiglie (migranti, post-migranti o autoctoni) – i modi effettivi di interagire entro e con il contesto scolastico (Pollock 2008: 370-371). E si tratterebbe, poi, di provare a tenere conto di questa diversità quando organizziamo quotidianamente i contesti e i modi di apprendimento e insegnamento a scuola.
Potremmo, forse, così facendo, imparare a vedere come allievi, allieve e famiglie (tutti: migranti, post-migranti e autoctoni) costruiscano i loro modi di relazionarsi alla scuola non solo a partire dai loro diversi repertori culturali, ma anche attraverso l’interazione quotidiana con altre persone (per esempio: con i diversi professionisti che operano nella scuola stessa…) (Pollock 2008: 371-373). Ragione per cui non dovrebbe mai essere possibile, per esempio, leggere il cosiddetto “insuccesso scolastico” di molti allievi migranti e post-migranti riducendolo solo alle loro (ovvero di migranti e post-migranti) presunte caratteristiche socio-culturali o linguistiche. (Anche il termine “insuccesso scolastico” dovrebbe peraltro essere analizzato nel suo funzionamento entro i nostri modi di pensare e costruire il “pluralismo culturale” a scuola…).
Dovremmo dunque provare ad allenarci a un esercizio di descrizione e analisi non superficiale della pluralità di pratiche e relazioni che distinguono, ma anche accomunano (Erickson, 1995) – e non solo da un punto di vista delle culture – tutti coloro che abitano (migranti, post-migranti e autoctoni…) le sempre diverse e concrete scuole in cui oggi si impara e si insegna…
E dovremmo provare ad allenarci anche a un ulteriore esercizio di descrizione e analisi non superficiale dei territori su cui queste scuole insistono, con le altrettanto diverse modalità con le quali persone e gruppi possono accedere o meno, entro quei dati territori, a una pluralità di risorse, simboliche e non.
Pur nella loro difficoltà, potrebbero forse essere anche questi due fra i molti modi possibili per provare a costruire dal basso un pluralismo (non solo) culturale a scuola.
Riferimenti
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