Da Reset-Dialogues on Civilizations
Domenica si terrà il referendum in Crimea. Inizialmente era stato convocato per il 25 maggio, lo stesso giorno in cui si terranno le presidenziali ucraine per nominare il successore di Viktor Yanukovich, fuggito in Russia. I cittadini della Crimea avrebbero dovuto scegliere se confermare l’attuale assetto della regione – un’autonomia abbastanza marcata – o se allargarne le prerogative amministrative, con un ritorno al modello dei primi anni ’90, quando la Crimea eleggeva un proprio presidente.
Poi le cose sono cambiate, in linea con il mutare dell’approccio russo alla questione ucraina, fattosi sempre più assertivo. Sempre più duro. Una vera e propria occupazione. Dapprima la consultazione è stata anticipata al 30 marzo, poi al 16. Con quest’ultimo slittamento all’indietro della data è cambiato anche il quesito: si tratterà di votare per una maggiore autonomia o per l’adesione formale alla Federazione russa. A favore della quale, nel frattempo, il parlamento di Simferopoli, il capoluogo della Crimea, s’è espresso.
L’esito della tornata appare abbastanza scontato. La Crimea sembra destinata a tornare sotto il controllo di Mosca. Lo era già stata fino al 1954, quando per volere dell’allora inquilino del Cremlino Nikita Krusciov fu trasferita all’Ucraina.
Era prevedibile, tutto sommato, che questa faccenda si sarebbe aperta in tutta la sua gravità. Intanto perché la Crimea è l’unica regione dell’Ucraina a maggioranza etnica russa. In secondo luogo perché già negli anni ’90 in Crimea emersero spinte centrifughe. In terza battuta perché nel porto di Sebastopoli ormeggia la flotta russa sul Mar Nero, in virtù di accordi sanciti al momento del crollo dell’Urss. Mosca, dice qualche osservatore, ha occupato la regione e giocato la carta referendaria perché teme che il nuovo potere di Kiev decida di imporre ai suoi ammiragli di togliere il disturbo. Un rischio strategico troppo grosso da correre.
La notte del 21 novembre
In attesa del responso delle urne, delle reazioni occidentali (potrebbero fioccare sanzioni) e delle prossime mosse dalla Russia, si può andare a ritroso nel tempo di qualche mese. Provando a rispondere a questa domanda: come si è arrivati fino a questo punto?
Tutto è cominciato in novembre, il 21 novembre per l’esattezza, quando Viktor Yanukovich ha rifiutato gli Accordi di associazione e una serie di misure sul libero scambio proposte dall’Unione Europea nell’ambito della Eastern Partnership, iniziativa finalizzata a rafforzare i rapporti tra Bruxelles e l’area post-sovietica e – scopo implicito – limare l’influenza russa nella regione. L’Ue aveva chiesto a Yanukovich, affinché l’accordo diventasse effettivo, di scarcerare Yulia Tymoshenko, mandata in cella nel 2011 al termine di un processo dal sapore molto politico. Yanukovich ha traccheggiato fino all’ultimo secondo, salvo poi mandare tutto a rotoli. Il suo no al pacchetto europeo, condito dalla mancata liberazione della Tymoshenko, ha scatenato la protesta popolare. Il 21 novembre piazza dell’Indipedenza, il grande slargo al centro di Kiev, è tornato a riempirsi come ai tempi della rivoluzione arancione, il movimento che nel 2004-2005 portò Viktor Yushchenko alla presidenza e Yulia Tymoshenko al premierato.
Dal 21 novembre la situazione si è evoluta progressivamente, fino a trasformare una protesta in rivoluzione e una richiesta di Europa in una rivalsa del nazionalismo ucraino sui gruppi filorussi.
La strategia fallimentare di Yanukovich
Prima di proseguire è necessario aprire un inciso, focalizzando l’attenzione su Yanukovich. Perché mai, visto che è stato sempre considerato come il rappresentante dei filorussi ucraini, avrebbe cercato la sponda europea? Due i motivi. Da una parte Yanukovich s’è accorto che Mosca, senza troppi complimenti, stava cercando di stringere Kiev in una morsa letale. Putin ha il pallino dell’Unione eurasiatica, progetto che punta a integrare maggiormente lo spazio post-sovietico, con Mosca a fare da motore. Verrà lanciato nel 2015. Intanto è già attiva un’Unione doganale a cui partecipano Russia, Bielorussia e Kazakhstan (prossimo l’ingresso dell’Armenia). Putin, facendo leva sul debito che Kiev sconta nei confronti di Mosca, aveva messo Yanukovich davanti al bivio: adesione all’Unione doganale o cessione dei gasdotti ucraini alla Russia. È così che l’ex presidente ucraino s’è volto verso l’Europa, cercando di portare avanti una politica dei due forni, senza spostare troppo il baricentro del paese.
Parallelamente ha cercato di sfruttare questo stare a cavallo tra Bruxelles e Mosca allo scopo di rastrellare soldi: quelli necessari a sventare la bancarotta verso cui Kiev stava incamminandosi, a causa di un’impalcatura economica fragile, dominata dagli oligarchi (cinquanta persone controllano il 50% del Pil nazionale), segnata dall’assenza di riforme e caratterizzata da tendenze predatorie, di cui l’ex presidente è stato tra l’altro protagonista in questi anni, perseguendo una sfacciata politica di arricchimento personale.
Questa strategia si è rivelata nefasta. Yanukovich, senza accorgersene, si è trovato in un vicolo cieco. Perché Putin non avrebbe mai tollerato la firma degli Accordi di associazione con l’Europa, giudicati del tutto incompatibili con il suo disegno eurasiatico, all’interno del quale l’Ucraina è – era? – un pilastro irrinunciabile. È non solo il cuscinetto da opporre ai piani di penetrazione a Est dell’Europa e della Nato, ma anche una fetta importante della civilizzazione russa. A Kiev nacque il primo stato russo della storia (la Rus’) e s’è compiuta la conversione dei russi al cristianesimo orientale. Alle necessità strategiche si affiancano dunque sensibilità culturali e storiche, che tanto il Cremlino quanto il patriarcato di Mosca non tardano mai a ricordare.
Le faglie ucraine
Tutto questo ha lacerato il paese, allargando progressivamente le fratture storiche che lo attraversano. L’Ucraina è una nazione complessa, sotto certi aspetti scissa. Volendo semplificare, i suoi territori nord-occidentali sono etnicamente e linguisticamente ucraini; coltivano l’dea dell’integrazione con l’area euro-atlantica, che sia vista come destino o come opportunità; sono il centro d’irradiazione di una cultura nazionalista ammantata di sentimenti russo-scettici che trova nella chiesa greco-cattolica e in quella ortodossa-patriarcato di Kiev, quest’ultima staccatasi dal patriarcato di Mosca all’indomani dell’indipendenza ucraina del 1991, ma mai riconosciuta a livello canonico, due dei suoi maggiori fari. Al contrario, le regioni sud-orientali propendono verso la Russia, alla quale sono legati storicamente, linguisticamente e in termini economici. Sono anche i distretti dove la chiesa ortodossa-patriarcato di Mosca ha più seguito, sebbene la sua proiezione sia nazionale. Tutto questo si è sempre riflettuto a livello elettorale, con i partiti nazionalisti a fare il pieno a ovest e quelli russi a est. La crisi apertasi il 21 novembre ha dilatato oltre ogni misura queste faglie, portando il paese alla deriva.
La proteste di Kiev, poi allargatesi a diversi altri territori del paese, specie nel versante occidentale, hanno cambiato mano a mano di segno. All’europeismo si è sostituito il nazionalismo, che ha fatto leva sia sulla protesta di piazza e sull’azione dei partiti, sia su un’attività di lotta violenta che è stata portata avanti da gruppi portatori di un verbo estremista, a cui s’è contrapposta la repressione, senza tanti complimenti, di Yanukovich.
La reazione di Mosca a tutto questo si è spalmata su due piani. Da una parte è stata lanciata una campagna tambureggiante volta a fare di tutta l’erba un fascio e a bollare i rivoluzionari di Kiev come una banda di neonazisti. Dall’altra Putin ha cercato di soccorrere Yanukovich, prestandogli 15 miliardi di dollari – questo a dicembre – e applicando una sostanziale riduzione della bolletta del gas, passata da 400 a 268 dollari per mille metri cubi. L’intenzione era dare ossigeno a Yanukovich (fondamentalmente un utile idiota dal punto di vista del Cremlino), permettendogli di evitare il crack e di iniziare a pensare alle presidenziali, che si sarebbero dovute tenere a febbraio del 2015.
Ma non ha funzionato. I nazionalisti hanno continuato a restare in piazza e tirare su barricate, oltre che a occupare palazzi governativi. Gli scontri si sono fatti più feroci. Sul campo sono rimaste circa cento vittime.
La fuga
La svolta è arrivata il 21 febbraio, quando i ministri degli esteri di Francia, Polonia e Germania sono arrivati a Kiev e hanno negoziato un’intesa tra Yanukovich e le opposizioni strutturata su tre punti: riforma costituzionale parlamentarista, governo di unità nazionale e voto presidenziale anticipato rispetto al febbraio 2015. Mosca non ha sottoscritto l’accordo. Mai entrato in vigore, comunque. Vuoi perché le frange violente della rivolta non si sono schiodate dalle barricate (i partiti di opposizione non sono mai sembrati in grado di controllarle), vuoi perché Yanukovich ha lasciato Kiev.
S’è creato un vuoto di potere, occupato da due dei partiti che, con gradazioni diverse, incarnano il nazionalismo ucraino: Patria (la formazione della Tymoshenko) e Svoboda (ultranazionalista). Sono loro che formato l’attuale governo, presieduto da Arseniy Yatseniuk. Dalla coalizione è rimasto fuori Udar, il partito centrista del pugile Vitali Klitschko. La conferma delle divisioni dell’opposizione e della competizione interna che si scatenerà in vista delle presidenziali, ora fissate al 25 di maggio.
Intanto, l’Europa ha stanziato un massiccio piano d’aiuti per l’Ucraina. Arriveranno 15 miliardi di dollari, gli stessi che Putin aveva scucito (è chiaro che questi soldi non verranno più erogati). Altri ne fornirà il Fondo monetario internazionale.
La Russia, forse già prevedendo questo esito, forse pilotandolo (non è da escludere che la fuga di Yanukovich e il suo arrivo in Russia siano stati pianificati), ha proceduto con l’occupazione della Crimea e con l’opzione secessionista, manovrando inoltre affinché si creasse uno stato di tensione anche nelle aree orientali del paese, principalmente nelle città di Donetsk, Kharkhiv, Lugansk, ma anche a Odessa, nel sud.
Le sviste europee
Torniamo così all’inizio della storia. Alla Crimea, al voto di domenica. Con la certezza che la partita ucraina non si chiuderà di certo a Simferopoli e che il registro tenuto dall’Ue in questa vicenda non è immune da riserve. Sebbene la Eastern Partnership avesse un senso e non presupponesse l’adesione ucraina all’Europa, Bruxelles l’ha portata avanti senza tenere in debita considerazione gli interessi di Mosca in Ucraina. Interessi sicuramente imperiali, ma oggettivamente esistenti.
Recentemente anche Henry Kissinger, intervenendo sul Washington Post, ha ammesso che Mosca, benché debba smetterla di considerare l’Ucraina come uno stato satellite, non può considerare Kiev come una nazione straniera. Suggerendo inoltre che la soluzione alla questione ucraina starebbe in un’«insoddisfazione bilanciata», in cui sia gli occidentali e che i russi rinuncino ai propri obiettivi assoluti. È troppo tardi per percorrere questa strada?
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Matteo Tacconi, giornalista, è il coordinatore del sito Rassegna Est. Su Twitter @mat_tacconi