Articolo originariamente pubblicato sul sito YaleGlobal, rivista online dell’Università di Yale negli Stati Uniti, dove Joseph LaPalombara è professore emerito Arnold Wolfers di Scienze politiche e Management.
In Italia è ampiamente – seppur tacitamente – risaputo come Niccolò Machiavelli abbia avuto una parte nella nascita dell’esecutivo nazionale appena insediato, guidato dal giovane Matteo Renzi. Come la maggior parte dei toscani, e come milioni di altre persone in tutto il mondo, Renzi avrà sicuramente letto Il Principe di Machiavelli, il celebre trattato del XVI secolo contenente precise indicazioni su come raggiungere, conservare e ampliare il potere politico. L’avvento a Roma di un nuovo Machiavelli, il cui telegenico carisma richiama il paragone con l’ex leader laburista britannico Tony Blair, ha innescato la speranza, nelle capitali straniere, che si riesca a porre un freno alla spirale economica discendente e alla stagnazione politica dell’Italia. Il timore, però, è che Renzi abbia da offrire meno di quanto sembra.
Se la rinascita italiana promessa da Renzi dovesse rivelarsi in gran parte retorica, priva di fondamento, il disagio dell’Italia, soprattutto per quanto concerne la sfera economica, finirebbe inevitabilmente per riverberarsi in maniera negativa in tutta Europa e anche altrove. L’Italia è la terza maggiore economia dell’eurozona, oltre a rappresentare il più importante partner commerciale della Germania in quell’area del pianeta. Angela Merkel e gli altri leader europei non sono i soli a fare affidamento sulla riuscita di Renzi. Ci contano anche gli investitori, le cui aspettative positive si sono tradotte concretamente nella netta riduzione dello “spread”, il differenziale tra i tassi d’interesse dei titoli di debito italiani e gli omologhi tedeschi.
Machiavelli sarebbe rimasto ammirato dall’abilità con cui l’ex relativamente scialbo sindaco di Firenze sia riuscito a sfruttare il proprio carisma meramente populista per farla franca nella sua manovra di smantellamento della fragile coalizione nazionale valorosamente tenuta insieme da Enrico Letta, uno dei leader del Partito Democratico, lo stesso partito di centrosinistra a cui appartiene Renzi. Ulteriore sottotesto latente di tale opera di conquista: Letta è originario di Pisa, altra città toscana la cui tuttora accesa rivalità con la Firenze di Renzi affonda le radici nei secoli.
Nel suo seguire Machiavelli alla lettera, Renzi pare non gravato dal peso dell’ideologia. È un esperto nello sparare dichiarazioni altisonanti, perlopiù senza alcuna sostanza. Per i giornalisti – e non solo per loro – è pressoché impossibile farlo pronunciare in qualcosa di più rispetto alle vaghe preferenze sulle politiche pubbliche o alle promesse di un imminente Rinascimento italiano.
Come dimostrazione del suo machiavellico cinismo, ha raggiunto un accordo con un Silvio Berlusconi ormai politicamente in disgrazia, allo scopo di produrre il cambiamento necessario nel sistema elettorale italiano. Al contempo, per assicurare alla sua coalizione una maggioranza in grado di lavorare, Renzi ha stretto un patto anche con Angelino Alfano, il leader del Nuovo Centro Destra di recente costituzione, garantendogli come ricompensa politica una posizione chiave nell’attuale esecutivo.
Da semplice populista privo di un suo programma specifico, Renzi ha abilmente approfittato dei mass media come strumento per instillare l’idea che la sua leadership giovane e carismatica fosse da preferire all’antiquato approccio bizantino alla politica che da tempo contraddistingue l’Italia. Nessuno dei principali quotidiani italiani ha accolto con entusiasmo il nuovo governo. Tale reazione in qualche misura dolente può ancora cambiare, ma solo se Matteo riuscirà nelle riforme di base che ha a più riprese promesso nei discorsi e nei tweet che hanno determinato la sua ascesa al potere.
A 39 anni, Renzi è il più giovane primo ministro dai tempi in cui Benito Mussolini salì al potere all’inizio del secolo scorso. Ciò, di per sé, potrebbe rappresentare un sano cambiamento rispetto alla tanto criticata gerontocrazia politica italiana.
Il governo Renzi è composto da 16 ministeri, altra netta frattura rispetto alle pratiche di lunga data che l’hanno preceduto. Tre dei ministri sono, come il premier, trentenni. L’età media dei membri dell’esecutivo è 62 anni, la più bassa nella storia della Repubblica. Oltre a ciò, per la prima volta, il governo rispecchia una parità di genere.
Lo stesso approccio, fondamentalmente machiavellico, ha indotto Renzi a creare un governo composto non solo da esponenti politici di destra e di sinistra, una tattica a cui più di un suo predecessore si era trovato costretto. I media hanno manifestato reazioni contrastanti a questa leadership giovanile. È pur vero che l’esecutivo comprende personalità politicamente navigate, come Angelino Alfano al ministero degli Interni e Piercarlo Padoan, risorsa preziosa al Tesoro in virtù della sua esperienza al Fondo Monetario Internazionale e nell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico. Tuttavia, di alcuni ministeri politicamente sensibili – come gli Affari Esteri, lo Sviluppo Economico, la Difesa e la Pubblica Amministrazione – sono oggi titolari alcuni membri del governo che mai prima d’ora si erano cimentati con simili responsabilità, e qualche margine di rischio è implicito.
Ora che Renzi si è assicurato i poteri di un’alta carica, Machiavelli avrebbe per lui molti consigli su come comportarsi. Renzi ha promesso che il suo governo procederà rapidamente – alcuni temono precipitosamente – al varo delle riforme. La legge elettorale, unanimemente ritenuta la prima causa della persistente paralisi governativa – e motivo d’allarme tra i partner europei – è in cima alla lista.
Il significativo accordo di Renzi con Berlusconi stabilisce che quest’ultimo, pur se costretto a restare fuori dal Parlamento, mantenga il controllo assoluto del partito Forza Italia. Senza l’appoggio di Berlusconi, è improbabile che la riforma elettorale si concretizzi. Stando alla proposta di legge, ai piccoli partiti che hanno compromesso la stabilità parlamentare dovrebbe essere negata la rappresentanza in Parlamento, a meno che non raggiungano, da soli o in coalizione con altri partiti, almeno il 4.5 per cento dei voti espressi in sede di elezioni nazionali.
La tempistica di questa riforma disperatamente necessaria è vincolata a un altro patto stretto da Renzi, quello con l’NCD di Alfano, in base al quale ogni nuova legge elettorale resterebbe in sospeso e non operativa finché un emendamento costituzionale non modificherà l’attuale cosiddetto “bicameralismo perfetto” in questo modo: il Senato non dovrà più essere a composizione elettiva, i suoi membri dovrebbero diventare i presidenti delle 18 amministrazioni regionali italiane più alcuni sindaci, e i suoi poteri legislativi, al momento simili a quelli del Senato americano, dovrebbero essere in gran parte aboliti.
Emendamenti costituzionali del genere impongono quattro distinti voti di maggioranza in Parlamento, un processo che potrebbe durare 18 mesi. Nella migliore delle ipotesi, queste due riforme fondamentali potrebbero non materializzarsi fino agli sgoccioli dell’attuale legislatura, che scade nel 2018.
Renzi ha promesso un nuovo “Piano per il Lavoro”, volto a gestire il problema dell’elevata disoccupazione, soprattutto tra le fasce di cittadini italiani più giovani. La sua agenda di riforme prevede anche cambiamenti sostanziali nel sistema fiscale italiano che, insieme alla normativa vigente che rende quasi impossibili i licenziamenti, anche per giusta causa, resta la principale causa di un afflusso di investimenti esteri diretti relativamente basso.
Per decenni, malgrado le enormi differenze tra i due Paesi – l’Italia ha una popolazione di 61 milioni di abitanti e un PIL pari a oltre 1.800 miliardi di dollari, mentre la Svezia ha 9,6 milioni di abitanti e un PIL pari a 385 miliardi di dollari – la prima ha attirato pochi più capitali esteri della seconda. Il recente brusco calo degli investimenti esteri diretti, anche rispetto a quel livello già significativamente esiguo, è stato comprensibilmente percepito come un campanello d’allarme di cui nei circoli della politica italiana si sentiva il bisogno.
Renzi ha anche promesso una riforma della burocrazia, che implicherà una drastica riduzione delle procedure che oggi vengono imposte, paralizzandole, alle imprese commerciali che operano in Italia. Cambiamenti del genere aiuteranno l’Italia a risollevarsi dalla stagnazione economica che ha finito per affossare la decima economia al mondo in un tasso di crescita che è il più basso tra quelli delle principali economie dell’Unione Europea.
Realizzare questo ambizioso programma sarà un’ardua impresa. Le possibilità di successo sono minate dai cinici metodi antidemocratici che hanno accompagnato l’ascesa di Renzi al potere. Tutto questo gli sarà perdonato, soprattutto in Europa, se riuscirà a dar vita a un nuovo “miracolo” economico italiano, da cui tutti potranno trarre vantaggio. Se la sua vaga agenda politica dovesse fallire la propria missione, ciò favorirà un’ulteriore acutizzarsi del populismo radicale di destra in tutta Europa.
Traduzione di Chiara Rizzo
Come sempre,gli Usa vedono lontano..e bene..la deriva populista è ormai alle porte..da chiunque venga rappresentata,è ormai un fiume inarestabile..qui da noi come altrove..l’Unità Nazionale è destinata a vacillare quantomeno..ma ciò che più preoccupa è la tendenza ormai dilagante (pure questa) a marciare diritti verso scenari di conflitti sociali prima,extranazionali poi..