Da Reset-Dialogues on Civilizations
L’anno nuovo si è aperto all’insegna del sangue in Iraq. L’ondata di violenza montata durante tutto il 2013, nelle prime settimane di gennaio si è trasformata in un maremoto che ha sommerso la provincia occidentale di Anbar. Gli scontri tra le forze governative, i gruppi legati ad al Qaeda e le milizie locali e tribali sunnite hanno fatto decine di morti. Secondo la Mezzaluna rossa irachena, tredicimila persone hanno abbandonato le loro case per sfuggire ai bombardamenti e alle sparatorie. La violenza dilaga anche oltre i confini della regione e uno stillicidio quotidiano di morti e feriti rischia di trascinare il paese sull’orlo di una nuova guerra civile. Gli attentati, le esplosioni e gli omicidi mirati si susseguono ovunque. La settimana scorsa una serie di autobombe a Baghdad ha ucciso almeno 37 persone, mentre a sud della città un uomo armato ha attaccato un posto di blocco e ha ucciso tre poliziotti. Altre sedici persone sono morte in un attacco a un funerale in un villaggio a sud di Baquba, la capitale della provincia orientale di Diyala. A Mosul, nel nord, una bomba è stata fatta detonare nel campus dell’università.
Trascorsi quasi undici anni dall’invasione guidata dagli Stati Uniti e dalla caduta del regime di Saddam Hussein, l’aumento delle tensioni etniche e religiose mina la fragile stabilità irachena. L’ostilità settaria, dovuta in gran parte al malcontento della comunità sunnita per la gestione del potere del primo ministro sciita Nouri al-Maliki, è alimentata dal conflitto nella vicina Siria, che ha inasprito lo scontro tra i due gruppi in tutta la regione. Il paese in guerra è diventato la base delle attività dei militanti estremisti e i gruppi terroristici legati ad al Qaeda si sono rafforzati e hanno intensificato le azioni in Iraq.
“La guerra in Siria ha una grande rilevanza per comprendere le recenti evoluzioni in Iraq. Sebbene abbia assunto un ruolo formalmente neutrale, l’Iraq è stato usato come passaggio per i miliziani e gli armamenti provenienti dall’Iran”, ha spiegato Andrea Plebani, ricercatore dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi) e tra i redattori del dossier “L’Iraq in fiamme: verso una nuova guerra civile?”. La degenerazione del conflitto siriano in uno scontro dai contorni sempre più settari ha avuto come conseguenza l’ulteriore polarizzazione tra le comunità sunnita e sciita in Iraq. “Bisogna tenere conto del fatto che il confine tra i due paesi esiste sulla carta, ma le comunità ai due lati della frontiera hanno legami molto forti. Al Qaeda ha iniziato ad avere un ruolo centrale nella guerra in Siria a partire dal 2012. Da allora ha ricostituito le proprie file e si è riproposta con forza in Iraq sia con basi operative sia con gli attentati”, ha proseguito Plebani.
Gli scontri degli ultimi mesi hanno prodotto un bilancio di morti e feriti che non si registrava dal 2008, quando le forze statunitensi e irachene completarono una campagna contro le milizie qaediste che avevano preso il controllo di ampie aree del centro e del nord del paese. Secondo l’Iraq Body Count, nel 2013 sono morti 9.475 civili iracheni, la maggioranza dei quali negli ultimi mesi dell’anno. Un netto aumento rispetto ai 2012, quando i morti furono 4.500.
La violenza in Iraq ha iniziato a dilagare a partire da aprile, quando al-Maliki ha ordinato alle truppe governative di smobilitare con la forza un campo di protesta allestito dai sunniti nella città settentrionale di Hawija, nella provincia di Kirkuk. Nell’operazione furono uccise cinquanta persone e 110 rimasero ferite. Un simile attacco contro un altro campo di protesta dei sunniti presente da un anno a Ramadi, durante il quale sono morte 13 persone, ha dato il via agli scontri delle ultime settimane. Nel giro di pochi giorni la provincia desertica di Anbar, vasta un terzo del territorio iracheno, e che condivide con la Siria il poroso confine lungo 650 chilometri, è diventata teatro di una battaglia che sta facendo tremare il governo di al Maliki.
I sunniti, che rappresentano il 20 per cento della popolazione, accusano Baghdad di aver attuato una politica discriminatoria nei loro confronti negli anni successivi alla caduta di Saddam Hussein. La campagna di debaathificazione, promossa dagli Stati Uniti e messa in pratica dal governo con lo scopo di escludere dal sistema politico tutti coloro che erano compromessi con il vecchio regime, ha colpito centinaia di migliaia di burocrati e militari in grande maggioranza sunniti. Con il ritiro delle truppe statunitensi a dicembre del 2011, il premier ha intensificato il giro di vite, prendendo di mira alcune figure politiche sunnite all’interno del governo e del parlamento, fino alla condanna a morte in contumacia dell’ex vice Presidente della Repubblica Tariq al-Hashimi e alle dimissioni dell’ex ministro delle finanze Rafi al-Issawi.
Il malcontento dei sunniti è stato sfruttato dalle formazioni di al Qaeda, in particolare dal gruppo dello Stato Islamico dell’Iraq e della Siria, che hanno trovato terreno fertile per riprendere le loro attività nella regione. La comunità sunnita ha un rapporto complesso con gli estremisti, con cui in passato aveva collaborato a da cui si era poi allontanata per allearsi con Baghdad e con gli Stati Uniti per liberare il territorio dalla minaccia qaedista nel 2006. “I gruppi tribali sunniti non hanno un comportamento univoco e quella con al Qaeda è una storia di conti da regolare, perché a ogni offesa fatta a un membro della tribù corrisponde una risposta dell’intera comunità”, ha detto ancora Plebani, “quindi alcuni gruppi sostengono gli estremisti, mentre altri si pongono a metà strada, né con il governo, né con i miliziani e cercano di preservare la loro autonomia”.
Le truppe mandate da al Maliki per sradicare definitivamente al Qaeda dalla provincia di Anbar si trovano dunque a operare su un terreno scivoloso, dove ostilità settarie irrisolte si legano alle aspirazioni di creare un fronte qaedista transnazionale. I combattimenti si svolgono in un territorio urbano, tra la popolazione civile e le prime vittime degli scontri sono proprio gli abitanti della regione, come sottolinea un documento di Human Rights Watch. Grazie alle testimonianze dei residenti, l’organizzazione ha denunciato che l’utilizzo di metodi di combattimento illegali da parte di tutte le fazioni in lotta “ha causato vittime civili e gravi danni alle proprietà. Il blocco governativo su Falluja e Ramadi ha limitato l’accesso della popolazione al cibo, all’acqua e al carburante”. Nelle due settimane di scontri sono morte almeno 60 persone, tra cui molti civili.
Dopo decenni di sanzioni, guerre e invasioni, la popolazione irachena deve fare ancora i conti con la violenza, la distruzione e la povertà, nonostante la crescita economica sostenuta dalla produzione petrolifera. Il paese però è ancora in tempo per fermare la discesa verso una guerra civile come quella che tra il 2004 e il 2008 fece oltre 85mila morti, secondo i dati del ministero iracheno per i Diritti Umani. Ne è convinto Andrea Plebani: “Le condizioni sul territorio sono diverse, così come lo sono gli attori in campo. In passato c’erano gli Stati Uniti che avevano raccolto l’ostilità delle ali più estreme della componente sciita e di quella sunnita. E poi gli iracheni hanno ben impresse nella memoria le migliaia di vittime del conflitto e non vogliono che ciò si ripeta. Una guerra civile si può ancora evitare, ma non attraverso i soli strumenti militari, bensì con il processo politico”. Le elezioni fissate per aprile, in cui al Maliki vorrebbe proporsi per un terzo mandato, rappresentano dunque l’occasione per avviare un processo di riconciliazione nazionale, troppo a lungo rimandato. Il riassestamento degli equilibri interni è l’unico modo per ricomporre le fratture tra le varie anime dell’Iraq.
Vai a www.resetdoc.org