Da Reset-Dialogues on Civilizations
Khaled Merheb mostra l’ultimo messaggio minatorio ricevuto su Facebook. Insulti e minacce di morte per una foto, piuttosto popolare sul Web, che ritrae una ragazza con il hijab che bacia un ragazzo. È quanto basta per scatenare l’ira di qualche rigoroso tradizionalista, spiega Khaled, avvocato libanese che vive e lavora a Tripoli: “I salafiti spadroneggiano per le strade, minacciano chi vende alcolici e hanno creato un clima di tensione tra la gente. Questa città è cambiata molto dall’inizio della guerra in Siria, ne subisce le conseguenze in maniera drammatica ed è lo stesso per le nostre vite. Chi come me vuole soltanto vivere in pace, libero di essere e di fare quello che vuole, si sente ostaggio della città, di violenti indottrinati che neanche praticano la loro religione ma pretendono di dire agli altri come devono vivere”.
La tensione è palpabile dietro la parvenza di calma della seconda città del Libano. La quiete è infranta ciclicamente dalla ripresa degli scontri tra gli alawiti del quartiere di Jabal Mohsen, tappezzato di ritratti del presidente siriano Bashar al Assad, anche lui alawita, e i sunniti di Bab al Tabbaneh vicini ai suoi oppositori tra le cui file si contano numerosi gruppi jihadisti. I due rioni di questo centro portuale, appartenuto alla Siria fino agli anni del mandato francese (1920), sono abbarbicati su due colline separate, ironia della sorte, da via Siria. È di almeno 14 morti l’ultimo bilancio di questa annosa faida che ha radici lontane, negli eccidi contro la popolazione sunnita negli anni Ottanta, durante l’occupazione siriana, e nella sindrome da accerchiamento degli abitanti di Jabal Mohsen. Su questo fuoco, acceso già dalla guerra civile (1975-1990), gettano benzina “gli stranieri”: i siriani, aiutati dal movimento sciita libanese Hezbollah, che finanziano e armano il clan alawita e i sauditi che fanno altrettanto con gli sceicchi salafiti. Entrambe le fazioni negano, ma da Tripoli passano le armi che vanno in Siria e qualcosa resta nelle loro mani. Inoltre, lo scorso 23 agosto, due giorni dopo l’attacco con armi chimiche a Ghoutta, a est di Damasco, la capitale del Nord ha subito il peggiore attentato in territorio libanese dalla guerra civile: due autobombe vicino alle moschee di al Taqwa e di Salam hanno fatto 42 morti e 500 feriti. E a metà novembre, dopo la chiamata alle armi dei ribelli jihadisti di Aleppo, città della Siria meridionali, contro l’avanzata dell’esercito di Assad che nelle ultime settimane sta riguadagnando posizioni, a Tripoli è stato assassinato il religioso sunnita sheikh Saadeddin Ghiyeh. Un omicidio mirato per punire il “tradimento” del sunnita Ghiyeh schieratosi con Assad ed Hezbollah.
Seduto al tavolino di un caffè in stile europeo su via Ashir Daye, Khaled, che si definisce agnostico, fa il conto delle moschee costruite negli ultimi anni: in questa strada ce ne sono cinque o sei, vicinissime, che sembrano incombere sui ristoranti e sui caffè. Quasi un monito per chi frequenta questi locali. La legge vieta la vendita di alcolici a meno di duecento metri dai luoghi di culto e le moschee spuntano come funghi, finanziate da chi vuole che Tripoli sia totalmente islamica nella sua accezione più intransigente. E questa pressione ha come effetto una lenta e silenziosa fuga dei cristiani. Si trasferiscono nel distretto di Koura, a maggioranza cristiana, o a Junieh, vicino a Beirut.
“È una situazione deprimente”, dice Sahar Minkara, proprietaria con il marito di un caffè su via Ashir Daye, un luogo di ritrovo per coloro che non si riconoscono nelle rivalità confessionali che monopolizzano l’immagine della capitale del Nord. Sahar viene da una famiglia sunnita ma è atea, non si cura della religione, è soltanto delusa da quello che sta diventando la sua città: “Tripoli sta cambiando volto, ha subito diverse trasformazioni: la guerra, l’arrivo dei palestinesi da Nahr el Bared nel 2007, quando il campo è stato bombardato, e oggi l’arrivo dei siriani, ma non vedo integrazione. Non è più la città in cui sono cresciuta: nel mio palazzo c’erano famiglie di diverse fedi e nessuno ci faceva caso. Adesso non è più così e vedo per strada molte più donne velate di quante ce ne fossero quando era bambina. Allora indossare il velo era considerata una cosa da persone anziane, legate alla tradizione. Le chiese sono vuote e tanti amici cristiani sono andati via. Un tempo metà degli abitanti era cristiana e metà musulmana, invece adesso la demografia è mutata molto”. Sahar è una donna forte e determinata. Quando è nata, nel 1975, stava scoppiando la guerra civile e ha vissuto tutta la sua infanzia spostandosi continuamente con la famiglia da un luogo all’altro per sfuggire alle violenze. È emigrata in Australia e al ritorno ha deciso con il marito di aprire questo grazioso caffè: “Quando sono tornata molti posti dove eravamo soliti incontrarci non c’erano più, così abbiamo pensato di aprirne noi uno. Però oggi Tripoli è chiusa e carica di tensioni, sono molto pessimista sul futuro, non voglio che i miei figli crescano in un campo di battaglia”.
Al caffè di Sahar si incontrano persone che amano la musica, l’arte, la cultura. Sulle pareti sono esposti i disegni di alcuni giovani artisti, mentre ai tavolini si sorseggia caffè e si parla, inevitabilmente, di Tripoli. Gli scontri confessionali, la paura degli attentati e di un contagio del conflitto siriano sono gli argomenti che scaldano gli animi degli avventori, avviliti e allo stesso tempo arrabbiati per l’immobilismo della città di fronte ai salafiti che prendono piede tra la gente, approfittando di povertà e ignoranza per reclutare miliziani anche tra ragazzi giovanissimi.
In questo luogo di ritrovo si esercita una sorta di resistenza allo sfacelo che minaccia la società civile di Tripoli. Tre giovani al primo anno di università parlano della loro passione per lo skateboard, per la musica e per i fumetti. Majo, 17 anni, suona la chitarra e va a Beirut ogni 15 giorni per allenarsi con lo skate: “Lì c’è più libertà, ci sono le rampe e una volta ho anche suonato per strada. Qui non è così, ma io continuo a suonare. Molti vanno via perché in Libano ci sono poche opportunità, ma io cercherò di restare”. Non ci sono molti posti dove suonare o fare skate a Tripoli, ma nel caffè nascono idee e iniziative: Khaled, che quando sveste i panni da avvocato suona in una rock band, organizza serate per fare esibire i musicisti locali, per dare ai ragazzi “la possibilità di fare le cose che gli piacciono”, perché “se i giovani vanno via, quale futuro ci sarà per Tripoli?”. E c’è anche chi lavora per dare un’immagine più positiva della città, non soltanto legata alla faida tra sunniti e alawiti. Hanin Siddik, 19 anni, ha aperto con alcuni amici una pagina Facebook che raccoglie le foto di Tripoli, dei suoi scorci più belli: “I media mostrano sempre una città in guerra, ma non è soltanto così. È innegabile che la situazione sia complicata, però c’è una Tripoli ottimista che vuole essere ascoltata. Sento una profonda nostalgia tra la gente per quella città che adesso è oscurata dalla violenza”.
“Il mio rapporto con Tripoli è di odio e amore. Quando sono qui vorrei andare via e quando vado via non vedo l’ora di ritornare”, dice Monà Hallab, cantante lirica di 30 anni che racconta delle minacce ricevute di recente, “Sono entrati in chat fingendosi miei conoscenti e quando mi sono insospettita e ho iniziato a fare domande, mi hanno insultata e mi hanno detto che mi avrebbero uccisa. Canto nelle chiese, è il mio lavoro, ho avuto la fortuna di avere questo talento e non smetterò, ma percepisco questo clima di odio che ormai ha travalicato i confini di Bab al Tabbaneh e Jabal Mohsen e sta investendo tutta la città”.
Alcuni parlano di una “cospirazione contro la citta”: un piano architettato con la complicità dei politici per fare della capitale del Nord una roccaforte sunnita, per dividere il Paese dei cedri in un Nord sunnita che si contrappone al Sud sciita controllato dal Partito di Dio. Un piano per rompere il fragile equilibrio di questa nazione alle prese con crisi economica e instabilità politica, che da 32 mesi subisce i contraccolpi della guerra in Siria e cerca di non farsi trascinare nel conflitto.
Per alcuni analisti è incredibile che non sia ancora accaduto, ma in realtà la guerra in Siria ha già attraversato i confini libanesi. Il gruppo jihadista delle Brigate Abdullah Azzam, vicino ai ribelli siriani, ha rivendicato il duplice attentato del 19 novembre nei pressi dell’ambasciata iraniana a Beirut, che ha fatto 25 morti e circa 150 feriti. È stato l’ennesimo messaggio a Hezbollah che manda i suoi miliziani a combattere a fianco alle truppe fedeli ad Assad, dopo le due autobombe della scorsa estate che hanno provocato decine di vittime nei rioni meridionali della capitale, controllati dal movimento sciita libanese: il 9 luglio a Bir el Abed e il 15 agosto a Rweiss. Un sostegno militare determinate in alcune battaglie e che il leader del Partito di Dio, Hassan Nasrallah, ha confermato in una sua rara apparizione durante le celebrazioni dell’Ashura, festività molto sentita dagli sciiti. Dal Paese dei cedri, però, partono anche molti combattenti dell’opposizione. Inoltre, nella Valle della Bekaa, zona di traffico di droga, di armi, di rapimenti e roccaforte di Hezbollah, arriva la maggior parte dei siriani in fuga dalle violenze e si sono registrati anche episodi di sconfinamento dei gruppi armati anti-Assad e di lanci di razzi dalla Siria, oltre a scontri tra miliziani del Partito di Dio e militanti sunniti. Il Sud, duramente colpito nel 2006 dai 34 giorni di invasione israeliana, è stato teatro di episodi altrettanto preoccupanti per la stabilità del Paese. Il lancio di alcuni razzi, il 22 agosto, dalla periferia di Tiro verso le aree settentrionali di Israele, attribuiti da Tel Aviv a “jihadisti internazionali”, e i due giorni di battaglia, a fine giugno, nella città portuale di Sidone, ad Abra e nel campo profughi palestinese di Ain el Helweh tra l’esercito libanese e miliziani sunniti legati allo sceicco Ahmad al Assir, nemico giurato di Assad e di Hezbollah. Il bilancio è stato di 38 morti, 18 soldati e venti miliziani.
Tripoli non è soltanto il fronte libanese del conflitto siriano e il teatro di una guerra per procura. È anche il terreno di una lotta interna al Libano, tra la coalizione 8 Marzo e quella del 14 Marzo, cioè tra Hezbollah e la coalizione capeggiata dall’ex premier Saad Hariri, figlio ed erede politico di Rafiq Hariri, una delle figure più controverse del panorama politico e imprenditoriale libanese assassinato a Beirut nel 2005. Ai suoi funerali seguirono una serie di manifestazioni di protesta contro la presenza militare della Siria, ritenuta responsabile dell’omicidio: la cosiddetta Rivoluzione dei cedri che portò in poche settimane al ritiro dei siriani dal Libano dopo 29 anni. Da sette mesi le due coalizioni non trovano un accordo per formare un nuovo governo lasciando il Paese in stallo, mentre la guerra siriana preme alle sue porte e ha costretto almeno 815.000 profughi a rifugiarsi proprio in Libano, il Paese dell’area che accoglie più siriani. Nessuno osa dirlo apertamente, ma nei due rioni rivali, tra i più poveri e sovraffollati della città, arrivano armi e sostegno logistico anche dalle forze di sicurezza libanesi, in cui le divisioni confessionali e politiche pesano.
I miliziani sunniti di Bab al Tabbaneh sarebbero riforniti dal servizio informazione della polizia libanese (Internal Security Forces-ISF). Un’unità speciale comandata fino a un anno fa dal generale Wissam al Hasan, ucciso in un attentato dinamitardo a Beirut il 19 ottobre dell’anno scorso. Mentre a dare man forte agli alawiti sarebbero gli uomini dell’intelligence militare (mukhabarat al-jaysh). Ed è recente la notizia, riportata dal quotidiano libanese Al Akbhar, vicino a Hezbollah, che l’ex capo dell’ISF, Ashraf Rifi, la cui mancata proroga dell’incarico lo scorso aprile è stata tra la cause della crisi di governo, stia organizzando una nuova formazione armata a difesa dei sunniti. Si chiamerà Ahrar Tripoli e, nelle intenzioni di Rifi, riunirà le diverse bande armate che imperversano in città. Secondo Al Akbhar, l’impresa è finanziata dai petrodollari dell’Arabia Saudita e ha destato qualche malumore nel Movimento per il Futuro di Hariri: alcuni non vedono di buon occhio lo strapotere in città dell’ex capo della polizia che pare ambire alla carica di premier.
“I primi a essere coinvolti nella faida in atto a Tripoli sono i politici”, dice un giornalista che vuole restare anonimo, “coprono i criminali e i cecchini e a volte li finanziano. Se non ci fosse una copertura politica questa storia sarebbe già risolta, invece l’odio tra sunniti e alawiti è fomentato. In questa città ci abitano 400.000 persone e quelli che si combattono saranno circa 200, non ci vorrebbe molto a isolarli e fermarli. Intanto, Tripoli sta cambiando identità, non è più la stessa. I giovani vanno via perché qui non c’è lavoro, non c’è vita sociale, non c’è futuro”.
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