La distanza maggiore tra i contendenti alla guida del Pd riguarda, prima e più delle persone e delle politiche, l’idea stessa del partito. Lo si capisce dai documenti congressuali e ancora meglio dalle battute: «Non vogliamo diventare un comitato elettorale», «Non vogliamo un primattore come leader», «Aprire le primarie alla destra è come far scegliere l’amministratore di un condominio a quelli di un altro condominio». Sono parole che indicano la sofferenza e il rigetto di quel che sarebbe indispensabile in un sistema bipolare: l’uso del partito come mezzo per vincere le elezioni, la centralità personale del leader-premier, la necessità di prender voti fuori dal recinto ereditato e di «rubarli» agli avversari. Le distanze tra Renzi e gli altri sono abissali e descrivono una forma politica che sta attraversando una profonda crisi, che sarà evolutiva nel caso migliore, e autodistruttiva in quello peggiore. Si tratta della evoluzione, tardiva per il Pd (doveva cominciare nel 2007, con il discorso di Veltroni al Lingotto, se non prima), che va dal partito organizzativo di massa, nella sua forma classica, europea, novecentesca, al partito elettorale (pure di massa) e pigliatutto; evoluzione complicata e aggravata dal passaggio fallito, tutto italiano, da un quarantennio proporzionalista a un incompiuto e disfunzionante bipolarismo.
Quelle che si fronteggiano in modo più o meno esplicito sono ambizioni di candidati leader che interpretano, tutti, un desiderio di rinnovamento, che non sempre fa però i conti con il tempo e il contesto in cui si svolgerà la battaglia. Vero che le prossime regole elettorali sono ancora ignote, e ignota è soprattutto la quantità di proporzionalismo che rimarrà in campo, ma quelle ambizioni di rigenerazione (intellettuale, morale e persino «cognitiva») sono smisurate, a meno che non si ritorni senza riserve alla Prima Repubblica, un’epoca in cui il Pci, cui era comunque preclusa la conquista della maggioranza, poteva coltivare in grande la sua «autonomia» ideologica insieme alla vocazione pedagogica. Parlare oggi, come si fa, di «autonomia» e di «condomini» elettorali è un nonsense, se si vuole, come si dovrebbe, un partito capace di «prender voti in tutte le direzioni» (Renzi), obiettivo che è, ed era, invece un nonsense in una elezione proporzionale pura.
Altro che disprezzare i partiti-comitati elettorali, come se questa funzione fosse un optional. Forse andava detto subito, nel 2007, che decidere di fare un partito a vocazione maggioritaria in un sistema bipolare significava adottare mentalmente l’art. 1, sez 1, della Carta fondamentale dei Dems americani: «Il partito nomina e sostiene i suoi candidati per la elezione di Presidente e Vicepresidente degli Stati Uniti». È l’essenza della cosa, circondata poi da molti importanti dettagli, certo. Ma nella attuale battaglia dentro il Pd è tuttora corrente il rifiuto della leadership personale come arma decisiva per la vittoria elettorale. Come analizza con il linguaggio affilato delle scienze politiche, Mauro Calise, nel suo (Fuorigioco, La sinistra contro i suoi leader, Laterza, 2013), il Pd si è popolato di in questi anni di «microleader» attraverso le logiche elettorali dei vecchi partiti, attraverso il notabilato delle preferenze e poi le fusioni, e ha sviluppato una straordinaria resistenza contro le «macroleadership», come se la personalizzazione delle grandi battaglie politiche fosse in Italia un dato facoltativo, come se fosse un vizio ascrivibile alla destra di Berlusconi.
Neanche l’«assalto al cielo» della leadership dei «netcitizens» da parte di Beppe Grillo è bastato a suonare l’allarme. Il Pd è rimasto «l’unico partito impersonale» sulla scena (come ha scritto qui Ilvo Diamanti) e continua, in diversi suoi dirigenti, a piacersi così, anche se è ormai prova provata che spalmare la leadership sulla «collegialità» dei microleader, magari nel nome della «ditta», è una scelta perdente. Gli elettori da conquistare sono tutti evidentemente fuori della ditta. Non lo decide una ragione morale o politica qualsivoglia, ma la natura stessa della competizione bipolare, in cui la leadership non si manifesta nell’influenza interna, ma soprattutto in quella esterna. I voti sono potenzialmente dell’avversario, se il mio leader non ingaggia il duello per la loro conquista in campo aperto, e assumendosi personalmente tutto il rischio della contesa.
Anche nelle visioni più accorte e sofisticate, come in quella di Fabrizio Barca, che rifiutano legittimamente un «partito liquido» in favore di un «partito palestra», capace di bene organizzare la discussione, di mettere in atto lo sperimentalismo democratico come pratica di confronto e controllo delle politiche, si immagina un partito «interfaccia tra società e governo», capace di agire e integrare la funzione di una pluralità di associazioni: fisionomia intellettuale e omogeneità di intenti molto ambiziose e non del tutto realistiche, nella competizione bipolare. Il partito elettorale di massa, sotto una guida determinata e personale, può anche avere un corpo relativamente articolato e con un mosaico di componenti diverse. Correnti e gruppi di pressione ci sono anche nei partiti americani, come in quelli inglesi o tedeschi, di destra e sinistra. Ma funzionano e vincono, come contenitori elettorali (espressione non offensiva, vero?) se riescono anche ad apparire agli elettori da conquistare come una scelta comunque preferibile a quella degli avversari.
Nelle mozioni congressuali del Pd c’è molto comprensibile orgoglio e desiderio di recuperare «la nostra autonomia culturale», e c’è anche molta difesa dai «modelli stranieri». Non è difficile vedere dietro tutto questo il rischio di giocare una partita elettorale fondamentalmente «a due» con strumenti sbagliati, oppure il non detto di uno sfrenato desiderio di tornare alla scacchiera proporzionale della prima Repubblica.
Articolo uscito su La Repubblica il 28 ottobre 2013