«Reset» con questo numero interrompe la pubblicazione della rivista bimestrale a stampa iniziata nel dicembre del 1993 (all’inizio era un mensile) e continua la sua vita in un altro modo, innanzi tutto sul web dove darà vita a un sito, Reset.it. Questo esisteva già, ma aveva una funzione di servizio subalterna alla versione cartacea della rivista, riportava gli indici, qualche articolo e gli indirizzi dei 400 punti vendita di «Reset», che erano sempre troppo pochi per i lettori che non ci trovavano e sempre troppi per il costo della copertura di copie da garantire. Il che già contiene una spiegazione delle ragioni per cui abbiamo deciso di fare il gran passo: l’equilibrio costi-ricavi era diventato insostenibile con quella formula per una piccola struttura indipendente quale siamo, indipendente da sostegni politici, indipendente dai partiti e dai loro lussureggianti finanziamenti, e desiderosa di rimanere tale, nella fedeltà all’impegno iniziale di mantenere sempre la necessaria distanza dalla politica, indispensabile per potere continuare a giudicarla. E a criticarla come sembra indispensabile ora come e più del 1993.
Si cambia e si continua
Il sito, che sarà per una fase iniziale completamente gratuito (poi si vedrà), diventerà ora la sede principale della vita della rivista, con le sue rassegne quotidiane, con i suoi articoli, con le interviste e le recensioni, e con i suoi dossier, che usciranno mensilmente come numeri della rivista, che continua… dunque a tutti gli effetti e si rinnova. Ci ritroveremo qui probabilmente più numerosi, più frequentemente, con una maggiore tempestività rispetto agli eventi e con qualche dotazione in più nel senso della «community», vale a dire della presenza sui social network, dei blog, degli scambi più frequenti di idee che potremo avere, anche con l’aiuto di audio e di video. Confluiranno qui anche quanti hanno seguito in questi anni la rivista web «Caffeeuropa.it» che molti già conoscono e che diventerà una parte di «Reset.it».
Con un clic
Ma non abbandoneremo la carta. No. Continueremo a pubblicare la nostra collana di libri. E vi aggiungeremo quante più volte potremo i nostri dossier monografici: dei volumi a più firme che affronteranno un singolo tema. Siamo in debito con i nostri abbonati, che da qualche tempo non abbiamo sollecitato a rinnovare la sottoscrizione. Restituiremo loro il denaro e riceveranno istruzioni precise sulle opzioni a disposizione nel caso accettassero i nostri volumi in misura tale da compensare il loro esborso o nel caso proponessero di sottoscrivere l’importo loro spettante a favore del sito. Anche la nuova fase, per quanto più leggera nei costi, avrà bisogno di sostegni e quanti più ne avrà tanto più potrà migliorare la sua qualità.
I nostri temi
Qualche altra parola sul sito, che quando avrete tra le mani questa copia di «Reset», sarà già a vostra disposizione con un clic. Esso continuerà a occuparsi dell’area di temi che era nel repertorio della rivista fin dall’inizio: la politica italiana, l’Europa e il mondo, i mutamenti dell’area mediterranea e del Medio Oriente, le comunicazioni di massa, i media digitali e la società della rete, la filosofia e le scienze sociali, la democrazia deliberativa, i mutamenti sociali ed economici, il pluralismo culturale, il dialogo interculturale. Confluiranno su Reset.it anche tante iniziative collegate all’Associazione internazionale, Reset-Dialogues on Civilizations, nata accanto a «Reset» e che della rivista condivide il direttore, cioè chi vi scrive. ResetDoC, che non ha scopo di lucro, ha un diverso comitato promotore, un diverso comitato scientifico, una diversa ragione sociale e uno scopo specifico, che è quello di promuovere il dialogo interculturale, ma condivide numerosi collaboratori ed ha anche molte affinità con «Reset». (trovate tutte le informazioni sul sito www.resetdoc.org, cliccando «chi siamo»). Lo scambio di contenuti tra «Resetdoc.org», che è un sito multilingue e prevalentemente in inglese, sarà frequente.
Qualche riflessione si impone
Il cambio di fase merita qualche riflessione su un ciclo, quello della rivista, cominciato nel dicembre del 1993, con l’appoggio determinante di due grandi vecchi, allora vivi, vitalissimi e partecipi delle scelte di «Reset»: Norberto Bobbio e Vittorio Foa, due nomi che sono anche indicatori di un marchio di fabbrica, di un carattere di origine che è difficile da confondere con altri. Per quanto chi vi scrive possa avere commesso errori, «Reset» ha cercato di tener fede alla sua ispirazione liberale e sociale. Potremmo definirla «azionista» o «socialista liberale», attributi che hanno una storia gloriosa e che, a richiesta, «Reset» assume con orgoglio, se io non avessi il timore, così facendo, di delimitare una identità in modo o presuntuoso o troppo ristretto ed esclusivo; e se non temessi soprattutto di volgere lo sguardo indietro, buttando sul presente la luce di infinite discussioni e frazioni e dissezioni, in cui la cultura e la politica della sinistra italiana si sono esercitate a dismisura in questi anni.
Quel che ho cercato di sfuggire è sempre stata questa forma di «invecchiamento» che impedisce di affrontare con la curiosità necessaria le domande nuove senza spedirle immediatamente dentro i collaudati canali del déjà vu, delle battaglie già fatte, già perse o qualche volta – Dio non voglia – già vinte. E tuttavia l’ispirazione di un pensiero libero, liberale e forte di una ispirazione sociale e solidale c’è, è ancora forte in questa rivista, nei suoi soci fondatori, numerosi, vivi e in buona salute, che ancora ci seguono, chi più at large, chi più da vicino, e nei suoi collaboratori, che hanno in comune proprio questo e non altro, non scelte militanti, non attività di partito o di corrente (sulle quali in sé nessuno di noi ha da obiettare), ma semplicemente un’area di affinità liberamente condivise.
Ma non troppe
Qualche riflessione dunque sì, ma non è il momento dei consuntivi d’epoca, almeno per chi vi scrive, anche perché il momento in cui cambiamo fase non corrisponde a scansioni d’epoca, si poteva forse fare già qualche anno fa, o tra qualche tempo. Da una parte il passaggio ha una casualità amministrativa, costi-ricavi, che non coincide necessariamente con la scansione di fasi storiche, dall’altra la maturazione e diffusione anche in Italia di condizioni tecnologiche nuove consente di guardare al passaggio sul web non come un impoverimento ma come uno sviluppo. E tuttavia se gettiamo uno sguardo ai tempi della politica dal 1993 a oggi, viene facilmente da ricordare che siamo nati – «Reset» – diciotto anni fa durante la stagione più promettente dei sindaci del centrosinistra, che vincevano ovunque le elezioni e spinsero Berlusconi ad accelerare il suo progetto politico.
La fase iniziale della nostra vita è stata subito caratterizzata dall’anomalia berlusconiana e in generale dall’«anomalia italiana», come la battezzò Bobbio, auspicando la realizzazione del sogno di una «Italia normale», con una «destra normale» e una «sinistra normale». Sembrò per un certo periodo che la seconda Repubblica, dopo Mani pulite, potesse rappresentare un passaggio verso questa normalità, ma le riserve su questa aspettativa si manifestarono ben presto, e crebbero nel tempo nonostante le promettenti parentesi uliviste nel lungo ciclo berlusconiano.
La tv naturaliter di destra
«Reset» non ha mai rappresentato un progetto politico, è stata però portatrice di una ispirazione riformista, critica ovviamente verso il mostruoso conflitto di interessi di Berlusconi, verso la televisione commerciale «naturaliter di destra» (ricordate Bobbio?). Siamo in certo senso coevi con il peccato originale della scesa in campo del monopolista della tv, per il quale abbiamo invocato persino il ripristino della tripartizione indoeuropea dei poteri, scomodando Dumézil. A Fini abbiamo in verità aperto il credito molto presto (con Vittorio Foa, nonostante le resistenze di Furio Colombo, ricordate il libretto Il sogno di una destra normale?) e penso che in fin dei conti facemmo bene, anche se Fini ce ne mise di tempo per separarsi dal monopolista. La nostra ispirazione liberal-socialista, inquadrata in una prospettiva internazionale, è stata ben rappresentata dal volume realizzato in collaborazione con «Esprit», da Nadia Urbinati e Monique Canto-Sperber, Socialisti liberali. Ma non rifaremo qui noiosamente tutta la storia.
E qualche cavallo di battaglia
Ricordo solo di sfuggita i grandi temi sui quali «Reset» ha cercato di farsi sentire in questi 19 anni: la globalizzazione e le trasformazioni economiche che hanno sconvolto il paesaggio industriale, la «fine del lavoro salariato» (che cominciammo a chiamare molto presto così con i contributi di André Gorz, di Robert Castel, di Alfredo Salsano), la modernità riflessiva di Beck e Giddens, le nebbie mediatiche, ancora, che hanno affumicato la democrazia (dal nostro Popper della Cattiva maestra televisione – è la versione italiana di «Reset» che è stata poi tradotta anche in inglese, francese e altre lingue) e messo in crisi il discorso pubblico, la democrazia deliberativa da Habermas a Rawls, dalla riflessione filosofica fino alla messa in atto di esperimenti pratici di tecniche deliberative con Fishkin, le battaglie europee, le riflessioni filosofiche sul relativismo, il pragmatismo, il pluralismo, accompagnate da molti contributi dei nostri fondatori, di cui sono particolarmente fiero, insieme a quelli di Rorty e Walzer che ci hanno seguito per un buon tratto di strada.
Abbiamo sostenuto la terza via di Blair e Giddens e non ne sono per niente pentito, anche perché della strategia del New Labour abbiamo sottolineato non solo le virtù propagandistiche e la capacità di conquistare il centro elettorale, ma anche gli aspetti, che essa aveva, di appello alla responsabilità morale del cittadino, che imponeva una nuova considerazione per i processi in corso di «rimoralizzazione» della politica e insieme una riconsiderazione della crisi fiscale degli Stati europei e dei regimi di welfare, nella impossibilità di perseguire una indefinita crescita dei benefici sociali. Blair ha poi dilapidato il capitale di consenso con la guerra in Iraq, come ha sostenuto sulle nostre pagine Will Hutton.
La lettera di Napolitano
Abbiamo certo guardato con simpatia l’avventura dell’Ulivo e le promesse che conteneva, specialmente il primo governo Prodi, e abbiamo seguito con crescente distacco e scetticismo le evoluzioni e le crisi dei partiti italiani di destra e sinistra protagonisti di un ciclo sostanzialmente fallimentare, che è giunto oggi fino alla consegna delle chiavi del governo, per forza di necessità e per merito di Napolitano (e per fortuna), a un governo, quello di Mario Monti, che è espressione inevitabile, utile, provvidenziale, del loro temporaneo allontanamento.
Registro, per contrasto, con una certa soddisfazione il fatto che una delle nostre pagine più significative di quest’ultima fase sia stata la lettera del presidente Napolitano sulla crisi delle leadership europee, della politica italiana e sull’attualità della lezione politica e morale del liberale Einaudi. È una pagina in sintonia con il nostro profilo liberal-sociale fin dall’inizio, nel ’93, quando andavamo a caccia di idee liberali con cui rinnovare, resettare, il bagaglio della sinistra italiana, rivolgendoci a Isaiah Berlin, a Popper, a Rawls, a Sen, a Walzer con i quali riempimmo i nostri primi numeri.
Il resettaggio ancora da fare
L’opera di «resettaggio» non è dunque per niente finita. Se al momento sembra indispensabile la prosecuzione di questa stagione stranamente virtuosa di operoso governo tecnico, è anche vero che questa conformazione tecnica, indirettamente e lateralmente sostenuta dai partiti, sembra riscuotere consensi. La novità fa apparire raccapricciante ogni ipotesi di ritorno alla conflittualità tra una destra e una sinistra palesemente incapaci di esprimere, da se stessi, un prospettiva di governo e programmi di rinnovamento. Il «resettaggio» della politica nazionale oggi avrebbe bisogno di una preliminare fase di smontaggio delle resistenze conservatrici da parte di una classe politica in declino, priva di futuro, ma ancora capace di ostruire gli ingressi a una nuova generazione. Un grappolo di vecchi leader, seguiti da nugoli di seguaci sul piano locale, sono riusciti nella sola impresa in cui abbiano mostrato efficienza, quella di prolungare la loro permanenza alla guida di apparati che riproducono l’amministrazione di se stessi.
Un’agenda del pluralismo
A fatica si riesce a introdurre nel discorso pubblico nazionale una serie di nuovi temi. «Reset» si è impegnata a sviluppare ragionamenti sul pluralismo, sul pluralismo liberale in senso forte, quello delle differenze culturali, della molteplicità dei valori, dell’integrazione e coesione sociale nelle nostre società multietniche. I contributi iniziali alla vita della rivista che sono venuti da Isaiah Berlin, quando, ancora vivo, era possibile incontrarlo a Oxford o a Santa Margherita Ligure, sono stati per me di particolare significato. Mi hanno spinto a individuare e criticare la sordità, di tipo «monista», che caratterizza il pensiero di una buona parte dello stesso pensiero liberale e laico, sensibile e reattivo di fronte alla minaccia clericale, ma spesso sordo rispetto al monoculturalismo, latente, non dichiarato, e per questo forse anche più oppressivo per le minoranze, diverse, che caratterizza la nostra ordinaria vita pubblica. C’è un’agenda del pluralismo culturale, confessionale, etico da aprire e su cui lavorare sul piano politico, sociologico, filosofico. Credo che sia uno dei compiti della nostra rivista. La prospettiva di un pluralismo forte non era chiara nella concezione standard del riformismo, che era fondamentalmente iscritta in un perimetro nazionale e propensa a ragionare su società essenzialmente omogenee.
Il rifiuto del modernismo occidentale nel mondo arabo-islamico
Il senso della storia, la proiezione retrospettiva, la memoria del passato, il culto delle proprie origini come tasselli indispensabili per comprendere il presente, sono prerogative attive e produttive del mondo arabo, in tutta la sua estensione. Il solido legame con il retroterra ancestrale, ricco delle esperienze trascorse, consente il mantenimento in vita di quel cordone ombelicale che ogni arabo non ha mai reciso; l’affermazione più corrente che si può ascoltare da un arabo è quella di sentirsi legato, quasi prigioniero, alle sue radici. L’arabo è un membro di una famiglia o di una tribù di perenni nomadi, che vivono, da sempre, nello stesso deserto, grande quanto il mondo. Come nomadi per cultura vivono in un’oasi che sono pronti ad abbandonare quando l’erba si secca, ma portano dentro di loro il passato che non si cancella. E’ questa la loro soggettività sociale, il loro individualismo di popolo. La visione della vita acquista valore e profondità solo se osservata retrospettivamente: il presente come ineluttabile prosieguo del passato, propedeutico al futuro. Il passato acquista, così, la stessa valenza che hanno le fondazioni per un orgoglioso grattacielo, del quale possiamo intuire il futuro solo se ne conosciamo il passato, le basi su cui è edificato. L’attualità, il presente dimostrano la nostra esistenza, ma la nostra vita è dimostrata solo guardando indietro; lo sguardo verso il passato consente di tornare a vedere il nucleo stesso nel quale si è vissuto: la famiglia, la tribù, il clan, il villaggio, la patria. Per questa ragione la “civiltà della famiglia” è così sentita nei popoli arabi, in quanto nella famiglia si concretizza la proiezione del passato; l’evoluzione di tale civiltà ingloba, quindi, il villaggio, la città, la nazione e infine il mondo arabo nella sahmajrjia, la fratellanza araba.
E’ la ragione per la quale molti contenuti del modernismo occidentale vengono respinti dal mondo arabo. Si consuma un dramma esistenziale che non può trovare una soluzione se non si comprende la portata reale di quella cultura così radicata nel passato. L’Occidente-America, modernista e tecnologico, non è in grado di comprendere, per la sola ragione che non dispone di un proprio autonomo e antico passato che possa aver tracciato l’itinerario verso il futuro. Vige la regola dell’improvvisazione e delle scelte estemporanee, dettate da esigenze immediate, prive di programmazione, perché prive di una storia che li supporti. Il nemico di ieri diventa l’alleato di oggi e viceversa; gli eventi degli ultimi 50 anni dimostrano come la mancanza di una tradizione conduce ad un presente senza coerenza, stimolato solo dall’immediatezza delle scelte di comodo: dall’alleanza con lo scià di Persia alla sua destituzione, con l’accettazione dell’ayatollah Komeini, quindi la guerra contro Komeini per la quale fu incaricato, armato e protetto Saddam Hussein, all’alleanza con i talebani dell’Afganistan per contrastare le mire espansionistiche della Russia, tramite i buoni e ben remunerati uffici dello sceicco del terrore Bin Laden e del suo luogotenente il mullah Omar, quindi la cacciata dei talebani divenuti nemici distruggendo l’Afganistan e poi ancora la cacciata dell’ex-alleato Saddam, distruggendo l’Iraq e la nuova minaccia di un’altra azione bellica conto l’Iran e la Siria, quindi la caccia senza esito allo stesso Bin Laden che continua a gestire la strategia del terrore, favorendo e giustificando le reazioni, rendendo agli USA il miglior servizio.
Chi sono gli ayatollah, chi sono gli sciiti che, in pratica, hanno vinto la guerra contro gli USA, trasformando gli occupanti in ostaggi ? La risposta è molto semplice: sono gli attuali alleati degli anglo-americani, contro i quali ben presto gli stessi anglo-americani si ritroveranno a dovere combattere, perché estromessi da ogni potere decisionale e dall’uso della forza nello scacchiere del petrolio. Riedizione degli errori commessi con i Talebani dell’Afganistan. L’Occidente-Europa potrebbe rappresentare un viatico verso un nuovo modello di reciproca comprensione; la storia, le tradizioni dell’Europa si mescolano con quelle del mondo arabo. Ma l’Europa è, ancora, troppo distante per potere sperare in una integrazione con il mondo arabo senza la pretesa di volerlo europeizzare, ma nello stesso tempo è troppo vicina allo stesso mondo perché questi possa dimenticarsi dell’Europa e sviluppare un proprio modello di vita. L’accettazione del modernismo, con tutto ciò che comporta sia in termini socio-economici che etici, comporterebbe l’accettazione di un modello che contrasta con le tradizioni antiche; da qui nasce la sconfitta araba davanti al progresso. La sconfitta fa parte integrante della cultura araba; gli eroi arabi sono spesso dei perdenti, da Annibale in poi. Accadde così anche nel Medio Evo, quando gli arabi conquistarono l’Africa, buona parte dell’Asia Minore e i paesi del Mediterraneo; successivamente alle conquiste arabe, l’Occidente, grazie alle scoperte che gli arabi non furono capaci di fare e, più tardi, grazie all’industrializzazione e alle conquiste coloniali, relegò il mondo arabo in un angolo della storia. La modernità e il modernismo, nell’immaginario collettivo del mondo arabo, divenne l’emanazione “del nemico”; se il progresso rappresenta l’emanazione del nemico, non resta loro altro che il passato e la tradizione, che si ergono come una torre d’avorio dove rinchiudersi.
Rosario Amico Roxas
La figura dell’Imam. RAR
Da quello che si legge in taluni commenti emerge una interpretazione dell’Islam e del Corano che sembra proprio suggerita dall’apostata Magdi Allam. Non basta dire “è scritto chiaramente nel Corano” senza citare la Sura e il versetto. L’idea di un Islam aggressivo, battagliero, vendicativo appartiene alle minoranze wahabite, hasciscin, e altre piccole comunità gestite dagli stessi capi politici; si tratta di vere deviazioni di fanatismo, spesso sfruttate dai potenti in chiave politica, ma nulla hanno a che vedere con l’originalità del messaggio musulmano.
L’immagine dell’hayatollah, capo politico e religioso, è stata una invenzione del secolo scorso, da parte del pianeta occidentale. Il primo hayatollah fu Khomeini che gestì la rivolta contro Reza Palhevi, dall’esilio parigino, inviando messaggi rivoluzionari registrati su audiocassette.
Nelle more Reza Palhevi si era ritirato negli USA per curare un tumore; Khomeini, diventato capo politico e religioso, chiese l’estradizione per evitare accordi interventisti USA in Iran; gli USA rifiutarono e iniziò la rivolta anti-USA. Il 4 novembre 1979 alcune centinaia di studenti, ignorando le prerogative diplomatiche, penetrarono nell’ambasciata americana a Tehran e presero in ostaggio 52 diplomatici e funzionari. Il 25 aprile 1980 il presidente americano Carter ordinò un’azzardata operazione di salvataggio, che però si concluse disastrosamente con la morte di otto militari statunitensi. La vicenda si concluse nel gennaio 1981 con la liberazione degli ostaggi in cambio della fornitura di armi da parte della nuova amministrazione Reagan al regime iraniano impegnato nella guerra contro l’Iraq, anch’esso finanziato e armato dagli USA. Questa guerra tenne impegnati i due paesi dal settembre 1980 fino all’agosto 1988.
Così la guerra Iran-Iraq era, in pratica gestita dagli USA, che armava i due, decidendo a chi inviare
i mezzi militari più efficaci. Quella guerra la vinse l’Iraq, diventando la nazione di punta della politica americana in quel teatro immerso nel petrolio. Le armi americane hanno, da sempre rappresentato l’ago della bilancia anche nelle guerre locali, dove, però c’era da speculate a vantaggio delle lobby delle armi e del petrolio.
La vittoria dell’Iraq fu possibile per l’intervento deciso della marina USA.
Nel luglio del 1998 un aereo di linea iraniano, con dentro quasi trecento passeggeri civili, venne abbattuto da un missile partito da un incrociatore americano. Non vi furono superstiti. Komeini capì che si trattava di un chiaro avvertimento americano e accettò una risoluzione di pace, senza condizioni. Gli USA diventarono i padroni tanto dell’Iran che dell’Iraq. Saddam venne nominato cittadino onorario di Detroit, capitale delle automobili, nonché uomo di fiducia degli USA.
Il comando statunitense si scusò, attribuendo il tragico evento ad un improbabile errore dei (sofisticatissimi) sistemi di puntamento. La storia prosegue con l’invasione da parte dell’Iraq del Kuwait, peraltro autorizzata dall’ambasciatrice USA Aprile Glaspie a Baghdad; ma fu l’occasione per l’invio di forze di terra in Kuwait e ricacciare Saddam entro i suoi confini, controllati dalla VI flotta, ormai di casa nel Golfo Persico.
Ma non è l’argomento che ci interessa in questo momento, bensì la figura degli Imam, distorta dalla nuova presenza degli Hyatollà.
Il Corano non indica nessuna ipotesi di un esercizio di potere religioso in campo laico. Nella tradizione coranica l’imam non è l’uomo forte che i media ci hanno mostrato; quello è il frutto della disinformazione e dell’arroganza del potere che l’ occidente ha contagiato ai popoli musulmani. L’imam sunnita è un leader vulnerabile, sfidabile, contestabile; elementi questi che spesso ne hanno causato la morte. Si concretizza una figura nuova di imam, è l’imam dei media, come ce lo presentano le fonti di informazione che necessitano di un avallo credibile; forniscono, quindi, all’imam una credibilità e un’autorità che non ha mai avuto. L’imam della tradizione vive della sua autorevolezza, ma non ha autorità; esercita il suo ministero di guida della comunità, perché dalla stessa comunità ha ricevuto il “consenso”. Ma il consenso non è un riconoscimento ab aeternum, può essere revocato se la guida non si manifesta più all’altezza del compito. Ma questo accade nei paesi musulmani sunniti, dove vige una sorta di “democrazia” interpretativa del Corano, nelle nazioni a prevalenza sciita il discorso è diverso. L’imam sciita trae autorità dall’essere considerato discendente del profeta e, quindi, in diretto rapporto con Dio; la sua parola ha ben altro peso. Non per nulla la figura dell’ayatollah è emersa tra gli sciiti; una figura anomala, una invenzione del XX secolo.
Non risulta né facile né possibile valutare l’identità musulmana in quanto taluni basano la loro legittimità sul passato, sulla tradizione, altri cercano l’adeguamento alla evoluzione della storia, pur limitatamente a ciò che è ammissibile secondo “l’analogia” interpretativa. Lo studio della storia, idoneo a capire il presente, non è certamente incoraggiata, se non addirittura scoraggiata. La storia musulmana che conosciamo è quella ordinata dai visir per soddisfare le esigenze di potere, per cui spesso il politico dava a se stesso l’attribuzione di imam, per raccogliere l’autorità necessaria ad esercitare una maggiore severità e negare al popolo quei diritti che contrastano con gli interessi del potere. Scaturisce da ciò la doppia paura dell’imam; la paura che riesce ad incutere e la paura che deve subire; molte sette minoritarie sostengono che l’imam che viola taluni limiti può e deve essere ucciso, sconvolgendo l’idea tutta occidentale di un imam onnipotente. Oggi l’imam viene presentato in Occidente come un baluardo della religione e anche del dispotismo, perché c’è l’urgenza di fornire spiegazioni e improvvisare chiarimenti da parte dei media occidentali, che non intendono scendere nei particolari che la storia ci fornisce. La differenziazione del potere degli imam ha origini antiche, che coincidono con la stessa nascita dell’islam. Fa riferimento allo scontro tra Mu’taziliti e Kharigiti I primi aperti al confronto e alle idee che provengono anche da altre culture e per questo condannati con l’accusa di essere al servizio degli stranieri. Fu innanzitutto la condanna dello spirito umanistico che i Mu’taziliti volevano introdurre nel complesso mondo musulmano; una condanna che continua ancora adesso. Ma la cultura occidentale non intende aiutare questa larga parte del mondo musulmano, preferisce ascoltare i Khagiriti per poterli criticare e combattere, assimilando in questa categoria l’intero Islam.
Secondo i Khagiriti “il potere appartiene solo a Dio”, per cui diventa doveroso ribellarsi all’imam che non protegge i diritti del credente; questo slogan, portato alle estreme conseguenze, ha causato nei secoli la condanna e spesso la morte di imam e uomini di potere. Lo stesso Anwar Sadat subì una condanna a morte, che l’Occidente liquidò come attentato terroristico, evitando di capire e intervenire con forme diverse di dialogo, incontrando e dialogando con i Mu’taziliti, che invece furono ignorati. La tradizione ribelle dei Khagiriti è quella che coniuga la dissidenza al terrorismo. Si spiegano così gli attentati in Iraq contro gli stessi iracheni; è la dissidenza alla politica di connivenza con le forze straniere che stimola attentati terroristici; in questo modo la violenza diventa un corollario della ribellione e della dissidenza. L’uso della forza per stroncare gli atti terroristici alimenta una spirale contraria; non c’è margine per la paura, ma si accentua quello della dissidenza che esclude ogni dialogo: all’uso della forza si risponde con il terrorismo, che diventa anche un messaggio contro i popoli, non contro i governi che hanno deciso l’uso della forza. Anche gli imam si devono adeguare per non essere inclusi tra i dissidenti interni e subire la condanna. La chiusura al dialogo e al confronto, provocata dall’uso indiscriminato della forza, non genera quella paura che l’Occidente si dichiara soddisfatto di provocare, ma alimenta il dissenso e la reazione, e svilisce ogni ipotesi differente, poiché non trova alcun sostegno. L’opposizione intellettuale alla violenza reattiva è stata repressa e messa a tacere dallo stesso Occidente, così la ribellione politica, che si concretizza nel nazionalismo, si è fusa con la ribellione religiosa, rappresentata dal fondamentalismo; questa simbiosi ha formato una miscela di enorme potere distruttivo.
Le paure dell’Islam: la democrazia. RAR
Hollande: “L’Islam è compatibile con la democrazia”
Lo ha detto Francois Hollande durante un discorso all’Istituto del mondo arabo aParigi per ribadire come non vi sia connessione tra religione e gli attentati che hanno colpito la capitale francese nelle ultime settimane.
Si tratta di una affermazione di comodo che nulla ha a che vedere con l’islam e con la democrazia; dimostra solamente di non aver capito nulla del mondo arabo-islamico, ma di volerne parlare, tranciando giudizi che non poggiano su nessuna analisi seria.
Credo che si tratti di una speranza, più che una certezza; una speranza che assolve le contraddizioni che turbano l’Occidente nei confronti del mondo arabo-islamico.
La democrazia è frutto di cultura umanistica, che esalta la centralità dell’uomo negando gli individualismi.
Neanche il mondo occidentale p riuscito a perfezionare e applicare i principi etici della democrazia, permettendo ai detentori del potere di legiferare secondo interessi che non guardano al Bene Comune, bensì a quello privato e/o privatissimo.
Una analisi approfondita della cultura islamica, pur nella brevità indispensabile per una veloce lettura, farebbe comprendere i limiti attuali della cultura islamico-araba, limiti che potranno essere superati, con una modernizzazione della cultura, evitando la pretesa di una esportazione della democrazia effettuata con le armi in pugno.
L’Islam tutto intero, senza voler fare distinzioni tra moderati e fondamentalisti, teme la democrazia; anzi, è una delle paure dell’Islam. Nessuno osa prendere atto del divario culturale che viene abusivamente mantenuto tale, per imporre una cultura come quella che investe la democrazia, che non si coniuga, almeno per ora, con le tradizioni ancestrali che formano la loro cultura.
Vige ancora la cultura tribale che, nella sua possibile evoluzione, potrà anche arrivare a maturare i concetti fondamentali della democrazia, ma senza imposizioni né pretese di “esportare la democrazia”, ma occorrerebbero, almeno, due generazioni e la collaborazione frl mondo occidentale.
Dovrebbe evidenziarsi con estrema chiarezza che nei fatti in corso di ulteriore sviluppo non emerge nessuna domanda di democrazia, almeno per come la intendiamo in Occidente.
Il rapporto tra Occidente e medio e vicino oriente, cioè con i popoli arabo-islamici, è stato di sopraffazione da parte dell’Occidente, prima sotto forma di colonialismo militare, quindi sempre di colonialismo, ma economico; l’occidente ha avanzato tali impostazioni sostenendo trattarsi di legittima difesa, come le “guerre preventive” della banda B/3: Bush, Blair, Berlusconi; quest’ultimo poi, ha definito la partecipazione italiana nelle guerre di Bush come “missione di pace”, pur se il contingente era sottomesso al codice militare di guerra e sottoposto al comando inglese, dichiaratamente in guerra.
L’Occidente ha acuito queste forme difensive, insistendo con la logica della supremazia, così anche quella parte del mondo arabo aperto alla possibilità di integrazione con l’Occidente ha trovato nello stesso occidente il maggior ostacolo, avallando, così, le posizioni estremiste del nazionalismo e dell’integralismo, favorendo, addirittura, la loro fusione; in tal caso, quando il nazionalismo arabo si fonde con l’integralismo religioso, scaturisce una miscela altamente esplosiva, poiché l’esigenza sociale di indipendenza dallo straniero finisce con il servirsi dell’intolleranza integralista della religione per armare le più crudeli rappresaglie. Il mondo arabo si ritrovò nella impossibilità di costruirsi una evoluzione ad indirizzo umanistico, in quanto avrebbe dovuto mediare la propria storia con il patrimonio culturale del colonizzatore, a rischio di perdere la propria unità ed entità; così l’esigenza di unità della cultura araba si ritrova, ancora oggi, a dover rispettare le diversità fra le sue variegate differenze, che tentare una strada di integrazione, per non restare soffocata dalla sua storia e dalle sue tradizioni, che sono poi i loro hudud (timori) culturali, con i quali vengono esorcizzate le violenze coloniali dell’Occidente. Praticamente venne contestata la “libertà di pensiero” propugnata dai colonizzatori, in forza del proprio patrimonio razionalista, a vantaggio della “libertà di essere diversi”, come frutto del rifugiarsi nella propria storia.
Quello che i governanti arabi non compresero fu che, escludendo la “libertà di pensiero”, cioè la razionalità in costante sviluppo, il popolo si sarebbe indebolito sempre più, fino a diventare quella massa disabile e impotente che le due guerre del Golfo hanno mostrato in diretta TV. E’ per questa ragione che le guerre contro i popoli arabi hanno sempre due fasi; la prima quando l’Occidente scatena la sua tecnologia bellica contro eserciti in fuga e popolazioni indifese; la seconda quando l’arroganza dei vincitori della prima fase della guerra stimola la fusione tra nazionalismo storico e integralismo religioso, allora esplode quella miscela che lo stesso Occidente ha innescato. Questa seconda fase è una guerra che la tecnologia occidentale non potrà mai vincere, perché condotta ai limiti ultimi della esasperazione, al punto di trasformare gli uomini in bombe umane !
Sempre più, così, l’ideale democratico diventa diramazione dell’Occidente, di quell’Occidente che da solo si è dichiarato “il nemico”. Il mondo arabo non ha avuto alcuna possibilità di istruirsi su punti essenziali, come la sovranità dell’individuo svincolato dalla massa e la libertà di opinione, che costituiscono la base culturale dello sviluppo umanistico; né l’Occidente ha mai cercato di fornire elementi di istruzione, mandando sempre avanti le proprie pretese colonialiste o neo-colonialiste.
Non per nulla i popoli arabi, e nella stessa dimensione anche i popoli del terzo mondo, hanno trovato sempre governi militari o sostenuti dai militari. Gli intellettuali, che avrebbero potuto modificare l’itinerario verso una diversa composizione sociale, sono sempre stati trascurati dall’Occidente e trattati come agenti del nemico all’interno, in quanto portatori di nuove ideologie, come l’esigenza di tenere separate le sfere sociali del nazionalismo con le quelle religiose dell’integralismo. Così non avvenuta la rottura con quel passato medioevale che usava il sacro per legittimare e mascherare anche governi arbitrari o dittatoriali come nel caso di Saddam in Iraq. L’Occidente aveva tutto l’interesse ad ostacolare lo sviluppo in senso culturale, perché così sarebbe rimasta quella massa indebolita e impotente, tenuta sotto controllo da una sola persona, più facilmente manovrabile e ricattabile, altrimenti facilmente removibile con la forza, in quanto non avrebbe mai avuto il sostegno del suo popolo. La guerra civile che si è scatenata in Iraq non fu una guerra di religione tra sciiti e sunniti; non fu una guerra tra sostenitori di Saddam e suoi avversari; fu una guerra tra una minoranza che accettava la presenza americana perché inglobata nel sistema emergente di pubblici latrocini e la maggioranza che voleva l’indipendenza e il rispetto della propria sovranità nazionale. Quello che l’Occidente non ha saputo prendere in considerazione è stata la conseguenza che ha generato e provocato, e, cioè, proprio quella fusione tra nazionalismo e integralismo che non è promosso dalle masse popolari, ma può riuscire a coinvolgerle in quella che è diventata una shari’a, una guerra santa contro l’invasore e chi lo sostiene.
La democrazia è diventata così una diramazione del nemico e non esiste neanche un termine arabo che la identifichi, così come altri prodotti occidentali non hanno un corrispettivo arabo. Democrazia in arabo si chiama dimuqratiyya, ma ciò non va visto come accettazione di quel nome a preferenza del corrispettivo arabo che pure i glottologi si sono sforzati di creare, ma come accettazione di quell’oggetto che è entrato nell’uso comune, cosa che non è accaduto per la democrazia, respinta, secondo la loro ottica, perché metodo politico occidentale, foriero solo di guerre, di aggressioni e di colonialismo.
Rosario Amico Roxas