Questa rivista è nata contemporaneamente ai primi vagiti di Forza Italia. Era l’autunno del ’93, la sinistra vinceva a piene mani le elezioni dei sindaci: Rutelli, Bassolino, Orlando trionfavano sugli avversari della destra, qualche mese prima a Torino si erano addirittura contesi la carica due candidati della sinistra: Castellani aveva battuto Novelli.
La destra rotolava verso l’insignificanza. In quei mesi Berlusconi si rese conto di un vuoto, grazie al quale qualunque sinistra avrebbe, in apparenza, sbaragliato una destra inesistente. Nei primi numeri di «Reset» si auspicava, con la spinta dei vecchi autorevoli amici Bobbio e Foa, quel che purtroppo non si fece, e cioè che la sinistra preparasse una candidatura Ciampi, con la quale il centrosinistra italiano avrebbe potuto vincere le elezioni nazionali come era avvenuto nelle grandi città. Negli stessi mesi Berlusconi preparava da Arcore, con Urbani, Dell’Utri, Letta e tutti gli altri, la famosa «scesa in campo» e l’inizio di una storia fatta di conflitto di interesse, di conflitti con la giustizia, di divisioni radicali dell’opinione pubblica. Andò come si sa, Berlusconi batté i «progressisti» di Occhetto e dette inizio a un ciclo di cui stiamo vedendo le scene finali. Quello fu solo il primo di una serie di errori, a causa dei quali, il centrosinistra italiano si è dimostrato incapace di venire a capo del problema, come sarebbe stato invece possibile. Da allora è cominciata anche una storia sofferta dell’opinione italiana, per tanti aspetti ancora non bene capita all’estero: una parte degli elettori, ostili alla sinistra e conquistati dalla prospettiva offerta dal Cavaliere e dalle sue coalizioni, ha fin dal principio ritenuto il suo leader, in una misura stimata poco sotto il 40 per centro, una forte minoranza, un perseguitato dalla giustizia. Un’altra parte, di consistenza analoga, ha continuato a giudicarlo un soggetto irregolare, che basa il suo potere sul denaro e su una condotta illegale.
Con la sentenza della Cassazione succede una cosa importante: per la prima volta giunge a conclusione un procedimento penale che condanna in via definitiva e al di là di ogni ragionevole dubbio colui che di questa sofferta storia è stato il protagonista. Non c’è strillo che possa cancellare questa verità di fatto, non c’è esibizione, protesta o provocazione che possa rovesciare il senso di questo evento: l’avventura politica di Silvio Berlusconi, nonostante vent’anni di guerre legali, di ricusazioni, di legittimi e non legittimi impedimenti, si è schiantata contro il muro della giustizia. Nonostante migliaia di editoriali che invocavano la necessità di sconfiggere politicamente il tycoon delle tv, di non sottilizzare sul suo potere mediatico, di non cercare surrogati «giustizialisti», di capire il suo messaggio politico e imparare a batterlo sul suo terreno, nonostante tutto questo, la parola «fine» sopra questa sfortunata avventura la mette una sentenza di tribunale, un potere indipendente dello stato. Chi vuole può anche aggiungere un «purtroppo», ma non fa gran differenza. Non è dunque una vittoria politica dei suoi avversari (che fino all’ultimo si sono sforzati di perdere le elezioni e che ancora sembrano impegnati a precludersi questa possibilità in futuro), ma proprio una sentenza. Può non piacere a molti, ma è un fatto, ormai accaduto.
La prima delle due grandi minoranze, quella che nel Cavaliere aveva fiducia riceve un colpo molto duro: aveva concepito il confronto con la giustizia come un match tra parti politiche, senza dare il minimo credito alla terzietà del giudizio, come un braccio di ferro o un derby. E come tale lo ha perso e forse così continuerà a viverlo, a prescindere dai contenuti della sentenza. La durezza del colpo è inferiore solo a quella che ha colpito personalmente Berlusconi: la definitività della condanna, la incandidabilità, la inevitabile uscita dal Parlamento, la impossibilità di giocare le prossime campagne elettorali equivalgono a una condanna a morte politica. Si capisce lo sgomento suo e della cerchia dei fedeli che non hanno finora neppure immaginato di separare le sorti della loro parte politica da quelle di una persona. È la stessa incredulità che segue a un lutto improvviso. Sembra impossibile, eppure è accaduto. Col tempo capiranno.
L’altra grande minoranza vede invece riconosciuto il fondamento dei suoi sospetti circa l’illegale condotta del suo avversario, vede finalmente sancita una messa fuori gioco che avrebbe potuto e forse dovuto scattare venti anni prima. E nello stesso tempo si vede sottratto un avversario che avrebbe dovuto e potuto sconfiggere una volta per sempre, non temporaneamente come nel 96 e nel 2006, ma definitivamente: incandidabile e prossimamente interdetto dai pubblici uffici. Quella partita è finita, le altre si giocheranno senza di lui.
Molte riflessioni seguiranno, intanto la crudezza dei fatti è agli atti. La condanna per frode fiscale, al terzo grado di giudizio, riguarda una materia economica e criminosa specifica, tecnicamente molto complessa e poco spettacolare – iperbolica sovrafatturazione allo scopo di costituire fondi neri e di disporre di denaro per operazioni in nero – tocca al cuore il sistema di potere di Berlusconi, ne rappresenta il punto di forza capace di coagulare, attraverso il controllo sulle persone, grazie a quella massa di denaro, gruppi di esecutori politici intorno ai progetti del proprietario e leader. Dunque la condanna non si riferisce a dettagli pur rilevanti ma laterali rispetto al Berlusconi capo di governo, capo dell’opposizione, rappresentante italiano nei consessi europei e mondiali, non riguarda valutazioni morali sul suo stile di vita o giudizi intorno alla qualità ed efficacia della sua esperienza di governo. No, essa riguarda la sostanza del potere attraverso li quale ha potuto costruire la macchina di consenso, e la disponibilità di liquidi attraverso i quali ha potuto alimentarsi come politico, «acquistando» per esempio parlamentari dell’opposizione e determinando la caduta del governo Prodi.
Le riflessioni sulle conseguenze della condanna dovranno dunque seguire quelle sulla sua sostanza. Ben vengano, perché le sorti politiche del governo sono un tema interessante per tutti noi, e anche il cui prodest e il cui nocet, ma non possiamo permetterci di sorvolare sulla sostanza, la quale consiste nella certificazione che la materia con cui è stato promosso un potere politico, che ha dominato la scena così a lungo in Italia, era illegale. E che la conclusione abbia qualche somiglianza con la svolta di Mani Pulite, venti anni fa, quando fu, anche allora, la magistratura a scrivere la parola fine sopra le sorti di un gruppo dirigente politico, dovrebbe spingerci a individuare varie fragilità strutturali della democrazia italiana e della classe dirigente che l’ha guidata.
Quanto al governo in carica, non sembra debba necessariamente cadere come conseguenza dei postumi della catastrofe berlusconiana. I mercati hanno reagito con relativa noncuranza, come se l’uscita di scena fosse ormai un dato di fatto acquisito con le dimissioni del 2011. «Cala il sipario sul buffone di Roma», ha scritto il Financial Times, spiegando che «dopo il verdetto il Senato dovrebbe cacciare Berlusconi» che ha accusato i magistrati di parzialità politica nei suoi confronti, ma non è riuscito «a produrre alcuna prova a sostegno delle sue affermazioni». «Se avesse un briciolo d’onore, ora darebbe le dimissioni. Risparmierebbe ai suoi colleghi senatori l’imbarazzo di dover espellere un ex primo ministro».
Il vero finale in certo senso per gli osservatori internazionali si era già consumato nelle più drammatiche scene dell’abbandono forzato del governo e nella chiamata d’emergenza di Monti. Tante domande si addensano sul futuro della politica italiana, della destra e della sinistra. Ma le risposte non riguardano più Berlusconi: per la cerchia dei suoi cari, come in certo senso per la cerchia degli avversari occorrerà qualche tempo perché se ne rendano conto. I fuochi artificiali di questi giorni saranno presto dimenticati, sono diversivi per rendere meno amaro l’annuncio della fine di una storia durata davvero anche troppo.
La durata del governo, oltre che necessaria, per evitare il precipizio in un ciclo di instabilità, può essere anche il terreno favorevole perché la destra si cimenti nell’esercizio di pensare al dopo, facendo emergere i candidati alla successione, all’insegna, prima di tutto, della loro capacità di contenere le pulsioni sovversive che ammorbano la destra berlusconiana.
“E le non pruove divennero pruove”, di Giuseppe Brescia. A quanto è dato cogliere da notizie di stampa, i magistrati che in Cassazione hanno confermato la condanna per frode fiscale all’ex Premier, hanno negato d’aver seguito il teorema del “non poteva non sapere” ( come già accadde nella prima “controrivoluzione preventiva” di Tangentopoli a carico di Bettino Craxi ), ma non hanno tuttavia citato né un messaggio né un ordine di servizio né una comunicazione né una lettera di intenti né una registrazione telefonica né veruna altra prova del diretto impegno del condannato a supporto della “frode fiscale”. Ci viene in mente il nobile trattato di Mario Pagano ( finito sul patibolo della Repubblica Partenopea nel !799 ), a proposito della Teoria dei diritto penale e della Teoria generale delle prove, onde le “Non prove divennero prove”, aprendo così la strada al “sorgente occulto dispotismo”. Certo, il terzo grado di giudizio è defintivo, nel sistema costituzionale repubblicano. Ma esiste sempre una ermeneutica del diritto, da Emilio Betti a don Italo Mancini, come dire dalla “Teoria dell’interpretazione” del 1960 alla “Filosofia della prassi” del dotto teologo urbinate del 1984, per il quale – si badi -; “Per il diritto le campane suonano a morto”: Italo Mancini si riferiva eminentemente al “formalismo” giuridico e alla dottrina del diritto come fatto “Manipolativo”: perciò, alle leggi non scritte di Antigone verso le leggi scritte da Creonte ( sul piano della risposta etica e filosofica ). Come nel principio d’indeterminazione della fisica quantistica ( Heisenberg ), l’osservatore influenza la realtà osservata ( così: posizione / velocità della particelle ) . In perfetta scienza e coscienza, la suprema Corte ha tempestivamente emesso il proprio verdetto. La coscienza morale e civile esige, allora, la medesima, o simile, formalizzazione giuridica per i casi di Missione Arcobaleno, MPS, Operazione Re Nero di San Marino, Province di Milano e Bologna e quant’altro ( costituzione di fondi derivati, fondi neri, riciclaggio di fondi alla sede della Banca d’Italia di San Marino, acquisto di Antonveneta, operazione Recoletos, e via ). Resto convinto che “la storia non si ripete”. Il disegno organicistico neo-gramsciano o meglio neo-togliattiano difficilmente riuscirà più- I tre poli sono consolidati nella opinione pubblica; e l’allenza trasversa di movimentismo e organicismo sarebbe “incestuosa” ( oltre che smentita ripetutamente dagli interessati e dai soggetti virtualmente coinvolti ). La via d’uscita è il “vero” ‘diritto mite’; la dolcezza del giudizio; il recupero della temperie umanistica. Non può stare nella “corretta brutalità” di cui parla Arthur Koestler in ‘Buio a Mezzogiorno’ ( Darkness at Noon: morto suicida nel 1983, cioè trent’anni fa, dimenticato oggi da tutti, pur essendo stato il ‘maestro’ di George Orwell, per – almeno – “1984 “). In ultimo: se il Governo Letta vuol mettersi a sicuro dai cosiddetti “calci sotto il tavolo” ( es. le gravi strumentalizzazioni per la vicenda familiare del cosiddetto dissidente kazako, o altro ), faccia subito la riforma costituzionale per l’abolizione delle Province o per il contenimento delle lobbies ( strada su cui ha mostrato di volersi correttamente e lodevolmente incamminare ). Altrimenti, si rischia il “logoramento”: ma nel senso che, come ogni volta che si è discusso di abolizione delle Province ( v. governo Monti ) il governo stesso è imploso o caduto, così questa matassa di giochi e controgiochi potrebbe proseguire in maniera – essa sì – esiziale per il Paese, fino a trovare ennesimo pretesto per far “saltare il tavolo”. Giuseppe Brescia