«E’ il modello idraulico di censura a non funzionare sul web». Nigel Warburton chiarisce il concetto: «soprattutto in rete se reprimi un’opinione qua stai sicuro che quella uscirà magari anche più violenta da un’altra parte». Impossibile chiudere tutti i buchi di uno scolapasta sconfinato come il web, sarebbe un errore di fatto e di principio, come mostrano le repressioni della libertà di parole in paesi come la Cina o l’Iran.
Warburton è un filosofo sui generis. Ha insegnato fino a maggio alla Open University. Poi si è dimesso per continuare l’attività di divulgazione e di ricerca pressoché solo in rete. Su Twitter lo si trova con l’account @Philosophybites.
In questi giorni è arrivato anche da noi il suo Libertà di parola. Una breve introduzione (Raffaello Cortina) nel quale inquadra molte delle questioni più spinose intorno al free speech da un punto di vista storico e teorico spingendosi fino alla rivoluzione che la rete ha determinato nelle possibilità di espressione e alla libertà di poter dire quel che ci pare in pubblico e al pubblico, più o meno ampio.
Un groviglio di temi che non è ancora stato sciolto, anzi. L’equilibrio difficilissimo tra controllo e libertà di parola nell’epoca della rete è una questione che in questi ultimi tempi agita anche le acque del nostro stagno. Mentana abbandona Twitter, la presidente della Camera Laura Boldrini denuncia le campagne d’odio on line e organizza un convegno a Montecitorio, l’hate speech diviene argomento da tg uscendo dalle nicchie di discussione in rete.
I temi son grossi: quali regole nella nuova sfera pubblica? Lo spazio pubblico deve essere regolamentato? Innanzitutto, sono necessarie veramente nuove regole per circoscrivere la libertà di parola se attraverso nuove piattaforme di auto-pubblicazione è possibile raggiungere un pubblico per chiunque?
Chiediamo al “Virtual philosopher” – così lo definisce l’ultimo numero di “Philosopher Magazine” – se è preoccupato per la libertà di parola nel mondo.
«Difendere la libertà di parola raramente significa difendere la libertà in assoluto» dice Warburton. «Vogliamo la libertà, ma non il “vale tutto”. Vogliamo una discussione libera, ma non vogliamo i dettagli su Internet su come costruire una bomba sporca; potremmo tollerare la pornografia in generale, ma non la pornografia infantile, anche quando fosse realizzata senza l’uso di bambini, ma solo con tagliando e incollando immagini; vogliamo un popolo libero di esprimere opinioni forti, ma non fino al punto in cui si incita alla violenza, come ad esempio in Ruanda, quando le emittenti radiofoniche esortano gli ascoltatori a “tagliare gli alberi alti”».
D’accordo, ma chi decide dove tirare la linea tra quello che si può dire o scrivere e quello che è troppo?
In un mondo interconnesso va tollerato tutto ciò che non aizza la violenza. Un ambito difficile è quello del cosiddetto hate speech, per esmpio i discorsi che oltraggiano un gruppo, spesso un gruppo razziale. Alcuni pensano che questo equivalga alla diffamazione e dovrebbero essere messi fuori legge come capita in molti paesi europei, altri preferiscono il modello americano entro il quale il primo emendamento dà un’ampia protezione.
E lei da che parte sta?
La mia opinione è che la presunzione deve essere sempre a favore di un’ampia libertà di parola, anche perché l’etichetta hate speech viene utilizzata da coloro che vogliono censurare le opinioni contrarie e per i tipi più disgustosi di abuso. Inoltre, criminalizzando l’hate speech sarà molto probabile costringerlo sottoterra dove può diventare violenza. Molto meglio averlo visibile all’aperto dove può incontrare contro-discorsi e confutazioni, e dove può essere monitorato fino al punto in cui sembra probabile che diventi incitamento diretto alla violenza.
Nel suo libro lei cita un commento di Alan Dershowitz al negazionismo su Auschwitz di David Irving dove dice che «la migliore risposta a cattivo discorso è buon discorso, non censura». È sempre così?
Nel campo della libertà di parola è difficile generalizzare. Circostanze specifiche influenzano i nostri giudizi di dove dovrebbero applicarsi i principi. La censura tende a trasformare le persone spregevoli in martiri. Sono convinto del modello idraulico: se si elimina vista di qualcuno con la forza, è probabile che la bolla esca da qualche altra parte, forse in una forma più pericolosa.
Il noto giornalista italiano Enrico Mentana ha lasciato Twitter, e i suoi 310.000 follower, perché era stato insultato. È stata una scelta saggia? Come dovrebbero comportarsi personaggi che hanno ricevuto la loro visibilità altrove quando entrano in questo nuovo spazio pubblico?
Di recente in Gran Bretagna una professoressa di Cambridge che appare spesso in televisione, Mary Beard, è stata insultata su Twitter con parole misogine dopo aver fatto alcuni commenti controversi. Ecco, credo che la sua reazione sia stata esemplare. Ha controbattuto in pubblico su Twitter a chi l’ha insultata e ha guadagnato una quantità enorme di sostegno e simpatia. Non voleva che la legge li perseguisse. Molti molestatori si sono scusati con lei. La morale è che non sempre si ha il coraggio di confrontarsi con gli altri se ti insultano, ma spesso è più efficace questo atteggiamento che la censura.
Lei è molto attivo su Twitter, ha mai avuto esperienze negative?
Ho avuto un po’ di troll, ma di solito dopo un po’ spariscono. Sono stato fortunato finora in questo senso. Quello che ho notato è che se qualcuno mi attacca su Twitter, ci sono poche persone che mi seguono che si opporranno spontaneamente.
Nel suo libro uscito in Italia da pochi giorni, lei fa molto riferimento a John Stuart Mill e al suo celebre saggio On Liberty. È ancora utile leggere il filosofo inglese a un secolo e mezzo di distanza?
Il secondo capitolo di On Liberty è di gran lunga la migliore discussione circa il limite accettabile di libertà di parola. Pubblicato nel 1859, esso deve ancora essere superato ed è il punto di partenza per la maggior parte delle discussioni sulla censura. Sicuramente lo è all’interno della tradizione liberale. Mill sosteneva, tra le altre cose, che l’incitamento alla violenza è il punto in cui il discorso può essere legittimamente frenato. Non si può intervenire solo se c’è il reato. La società, sosteneva Mill, beneficia dello scambio di idee e i dissidenti contano molto perché costringono a pensare. E poi anche posizioni che sono fondamentalmente sbagliate possono contenere piccole quantità di verità che altrimenti non entrano nel dibattito. Detto questo, le cose sono cambiate dal 1859, esiste Internet e la possibilità di pubblicare da parte di chiunque possiede un computer e una connessione.
La risposta della politica italiana ai alle difficoltà che il nuovo scenario propone sembra essere più controllo e nuove leggi. Le sembra risposta adeguata?
L’articolo 10 della Convenzione europea dei Diritti Umani afferma: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiera». Penso che dovrebbe essere il punto di partenza per le discussioni circa la censura. Ci devono essere ottime ragioni per non tener conto di questo principio fondamentale. La libertà di parola è il cuore di ogni democrazia sana, senza di essa qualsiasi discussione critica è impossibile.