«L’informazione non può essere precaria». È il tema degli Stati Generali dell’Informazione che si riuniscono l’11 e 12 luglio 2013 alla Federazione nazionale della stampa in corso Vittorio Emanuele 349 a Roma (ore 10.30 – 17.30). Nell’occasione, iniziamo la pubblicazione di una serie di articoli sull’argomento.
«Tengo in piedi e in vita un sito, aggiornato quotidianamente, non del tutto “anonimo”, con un suo onorevole bacino di utenza, non grande ma neppure piccolo, faccio tutto da solo, coordinandomi con il responsabile, un italiano che vive in Cina. Quanto faccio al mese? Seicento euro, al netto delle ritenute d’acconto».
Paolo T. ha 36 anni, una laurea in Scienze politiche, 110 cum laude, un Master in Diritto internazionale a La Sapienza di Roma con Maria Rita Saulle, giudice della Corte Costituzionale, e un secondo Master in giornalismo, con accesso tramite concorso, alla Fondazione Basso di Roma. Stagista a 27 anni, a 31 il primo contratto giornalistico a termine: prima con un art. 1 del contratto nazionale di lavoro, poi derubricato ad art. 2, in qualità di collaboratore per altra testata: «Il praticantato – racconta Paolo T. – l’ho avuto d’ufficio dopo tre anni di lavoro nella più totale illegalità».
È una delle tante storie di precariato giornalistico da “anni Duemila”, in pieno sviluppo dell’ “era internet”. Perché il prepotente ingresso del new medium digitale sulla scena editoriale ha davvero sconvolto e mutato radicalmente le regole della professione. A tal punto, da aver fatto del precariato la vera e principale emergenza di un mestiere – quello del giornalista – che vive e vegeta ormai alla mercé della più totale deregulation. E dove, a farla da padroni, sono soprattutto gli editori, sotto l’occhio spesso poco vigile, se non addirittura benevolo e compiacente – quando non complice – di molti direttori, che dalla antica funzione di “garanti dei diritti (e dei doveri) delle redazioni” si sono invece trasformati in distratti vigili di un traffico caotico, privo di qualsiasi regola e dove gli obblighi prevalgono di gran lunga sui diritti. «O così o Pomì», secondo la vecchia logica che o mangi questa minestra o salti dalla finestra. Anche di diritti che un tempo si davano per acquisiti, non negoziabili, indiscutibili, irrinunciabili.
Oggi nelle redazioni “passa” invece di tutto. E senza il benché minimo sussurro. Derubricazioni di contratti, tagli agli stipendi del 20 o anche del 30%, cancellazione dei buoni pasto con intimazione di restituire i blocchetti all’amministrazione in una certa data e fino a dove son stati consumati (è il caso de La7). E questo per i “garantiti”, come si sarebbe detto un tempo, cioè i contrattualizzati. Che stanno per diventare merce rara.
In altri tempi sarebbero state innalzate le barricate, oggi invece non si fiata nemmeno. Si tace e si acconsente. Al più si mugugna, si tiene il broncio, ci si fa il sangue amaro e il fegato grosso. Non un comunicato, non una protesta, non uno sciopero. Se così reagiscono i garantiti, figuratevi come se la passano i “reietti”, i precari, i non contrattualizzati, i collaboratori “a pezzo”, una tanto a riga, la cosiddetta generazione “mille euro” – se va davvero bene –, quando gli euro sono invece di gran lunga meno. Un esempio? C’è chi viene pagato 2 euro per una notizia, se questa però raggiunge almeno duemila visualizzazioni, cioè viene cliccata sul sito almeno duemila volte. Ma se la notizia è al di sotto delle 800 battute non viene pagata. Il compenso scatta dalla 801esima riga in su. Al di sotto il lavoro viene di fatto regalato all’editore. Se invece si tratta di un “pezzo” vero e proprio, il compenso può salire anche a 15 euro, sempre che raggiunga le duemila visualizzazioni web. Altrimenti non si vede una lira. Come se andassimo dal medico e gli dicessimo: ti pago solo se mi guarisci. Non esiste proprio. Nel giornalismo orami è così. «Tanto ti cliccano, tanto ti pago». Più o meno come andare a scaricare cassette ai Mercati Generali della frutta. Cottimo puro e semplice. Il punto è che ormai “il lavoro non vale più nulla”, per usare il felice titolo di un bel libro di Marco Panara uscito l’anno scorso per i tipi Laterza a proposito della malattia che sta divorando l’Occidente. Non che questo manchi, sia chiaro, purché non si pretenda di essere pure pagati.
Come il caso di Diego, 33 anni, che collabora con un sito online di un giornale che si fregia di una storica testata romana degli anni Settanta: 5 euro lordi a pezzo. Oppure il caso del laureato che da anni collabora con Radiorai, programma di approfondimento musicale, con pezzi scritti e seguendo gli avvenimenti in prima persona, dalle conferenze stampa degli artisti, all’intervista: guadagno netto, 50 centesimi togliendo i biglietti dell’autobus per gli spostamenti che si rendono necessari per raggiungere i luoghi d’interesse delle notizie.
I casi si sprecano. Le notizie e le denunce si inseguono sulla Rete. Nei dibattiti e nelle informazioni attraverso i social network, sui siti di gruppi sindacali o para tali, i blog di associazioni, di singoli o gruppi più o meno spontanei ma anche organizzati, i cosiddetti “indignados” del mestiere e delle sue nuove regole tacite ma non scritte né sottoscritte. C’è Erroridistampa.it, Valigiablu.it, Ossigenoinformazione.it, solo per citarne alcuni. Il punto è che non c’è più scampo per nessuno.
Neppure per i “garantiti” oggi, che ora infatti temono il peggio, dopo che da alcuni anni si susseguono e ripetono periodiche aperture, chiusure e nuove riaperture di stati di crisi aziendale. Un giornale che pareva destinato al sicuro successo, come i free press svedese Metro – nato in Italia il 3 luglio 2000 sull’onda del successo delle edizioni di Stoccolma Malmo e altre città europee – dal 2009 ad oggi è passato da 28 a 12 redattori e si avvia a varare l’ennesimo stato di crisi periodico. Ma nel 2011, secondo i dati di Lsdi.it, Libertà di stampa diritto all’informazione, nei tre principali gruppi editoriali – Rcs, L’Espresso, Mondadori – «sono stati tagliati quasi 3.300 posti, il 21% del totale».
Dopo il recente default della Rcs si è riaperto un nuovo fronte di crisi annunciata. Il Corriere e la Repubblica si apprestano a prepensionare un’altra cinquantina di giornalisti ciascuno, non appena il governo rifinanzierà la legge n. 416 per l’editoria, che per il momento ha esaurito i fondi, per poter venire incontro alle esigenze degli esuberi che si rendono necessari. Ma così anche Il Messaggero, La Stampa e via di questo passo. Una generazione, quella dei sessantenni classe ’51, ‘52, è già fuori. Ora tocca a quella successiva. Un po’ di anni di scivolo – cinque in genere – e via a casa. Pensione anticipata. E largo alla generazione “mille euro”, quella dei “giovani non più giovanissimi”, in verità già attempati anche loro, che però non entra, resta giusto sull’uscio a far di tutto un po’, in presa diretta, copiando, prendendo dai siti e quant’altro. Insomma, lavoro random.
Racconta Pierpaolo D.: «Mi sono trovato a lavorare per due anni, più un terzo che s’è aggiunto alla fine, a tempo determinato dopo una lunga stagione di lotte sindacali all’interno di una testata che su 8 giornalisti ne aveva 7 Td (Tempo determinato). Dopo un periodo di 4/5 mesi di arretrati di stipendio, la redazione chiede la stabilizzazione dei contratti precari dopo aver trascorso un anno e mezzo “in solidarietà con l’editore”, per altro foraggiata dall’Inpgi per la metà».
Si inserisce Paolo: «La cosa davvero stravagante è che il giornale in questione, all’epoca godeva persino di 2 milioni e mezzo di contributo pubblico per tre anni, che in totale fa 7 e mezzo nel triennio. Ottenuta la stabilizzazione, la testata è entrata in crisi e ha applicato la cassa integrazione al cento per cento e la nostra vita è precipitata in fondo al baratro. Il minimo sindacale sono 1.500 euro al mese, non molte, ma chi ha un contratto ad art. 1 oggi è comunque un privilegiato. Di quella testata ora siamo tutti a spasso e devo dire che l’unico a cui finora è andata meglio sono io: 600 euro al mese con ritenuta, più altri 150 euro di collaborazioni varie. Penso che quello che ha permesso al sistema editoriale nel suo complesso di reggere per così tanti anni – conclude Paolo – sia stato in definitiva il meccanismo delle sovvenzioni pubbliche, dei sostegni all’editoria, anche se così alla fine il giornalismo ha finito per diventare solamente l’hobby di chi se lo può permettere. La realtà è che il mercato editoriale, senza contributi, agevolazioni, rimborsi, sconti eccetera, non ha mercato».
Aziende come la Rcs-Corriere della sera si potrebbero definire persino «tecnicamente fallite». E se di fatto non ci fosse stata la rinegoziazione del debito, la parziale ricapitalizzazione e l’iniezione di 100 milioni di euro da parte degli Agnelli-Ellkan attraverso la propria accomandita Exor, cioè la cassaforte della famiglia Fiat, il gruppo sarebbe davvero in cattive acque. Anche se il peggio, a dire il vero, non è affatto passato.
La crisi, infatti, non risparmia nessuno. Non solo i grandi gruppi come Rcs, ma va in tutte le direzioni. Nel rapporto sull’industria dei quotidiani realizzato dall’Associazione Stampatori Giornali con l’Osservatorio tecnico “Carlo Lombardi”, si può leggere ad esempio che il numero degli stabilimenti che stampano quotidiani, e che oggi conta 155 testate in mano a 116 società editrici, «è passato tra il 2011 e il 2012 da 92 a 77, con una riduzione di 15 complessi tipografici che hanno chiuso i battenti. Ma anche il numero dei poligrafici è in discesa, con una diminuzione di 424 unità da un anno all’altro». E non manca chi polemicamente – come il sito Dagospia – chiosa: «Quando si parla della crisi di Rcs bisognerebbe ricordarsi anche di queste realtà e delle 147 agenzie di informazione che attraversano un momento di grande sofferenza». Già, se il vettore principale sta messo male, l’indotto se la passa ancora peggio.
I dati, del resto, non sono in generale incoraggianti. Se ci riferiamo ai giornalisti in quanto iscritti all’Ordine di categoria, troviamo che complessivamente in Italia sono oltre 112 mila (dati ricerca Lsdi, 2012 su dati 2011, la più recente), cioè il triplo di quanti sono in Francia (37.286), il doppio della Gran Bretagna, ma solo il 45% sono quelli ufficialmente attivi e solo uno su 5 ha un regolare contratto di lavoro dipendente «guadagnando però 5 volte più di un freelance e 6,4 volte più di un co.co.co.». Sessantamila sono negli Usa, la metà dell’Italia.
E mentre in gran parte dei paesi occidentali il numero dei giornalisti decresce, «in Italia i giornalisti continuano ad aumentare», sia come iscritti all’Ordine di categoria sia nella professione vera e propria. Un vero paradosso in tempi di crisi acuta, perché il mercato anziché assorbire espelle. E così la macchina dei praticantati, degli esami, dei corsi, delle scuole di giornalismo e dei corsi di Scienza della comunicazione rischia di diventare e produrre una “fabbrica di disoccupazione”.
Il panorama lavorativo offre di tutto e per tutti i gusti: c’è il free lance che versa con fatica i contributi all’Inpgi, l’istituto di previdenza della categoria, gestione principale o gestione separata; c’è l’ex art. 1 che otto anni fa guadagnava 3.000-3.500 euro al mese e che l’estate scorsa è riuscito a mettere insieme appena 500 euro; ci sono gli over 55 che si ritrovano a fare i free lance perché improvvisamente gli hanno chiuso la redazione e, smarriti, non sanno proprio come muoversi nel mare magnum della collaborazione; poi c’è anche una fascia media che riesce a mettere insieme 32 mila euro lordi l’anno, «ma la stragrande maggioranza degli autonomi guadagnano meno di 10 mila euro l’anno» spiega Maurizio Bekar, responsabile della Commissione lavoro autonomo della Federstampa. In pratica sono il 75% ma il 62 guadagna meno di 5 mila euro l’anno e appena il 10% sta intorno ai 25 mila lordi.
«Poi c’è il lavoro fintamente autonomo – sottolinea Bekar – in cui il 95% dovrebbe e potrebbe chiedere la stabilizzazione perché si tratta di redattori a tutti gli effetti, è il caso del Friuli-Venezia Giulia, dove stanno seduti davanti al computer in redazione a 500 euro al mese.
O anche art. 2 o ex art. 2 tutti nella condizione di poter avviare una causa di lavoro, ma è chiaro che nessuno se la sente di farla. Ci sono poi posti in cui viene richiesta la scrittura di un minimo di 400 articoli l’anno fino a un massimo di 1.200 per un totale di 1.000 euro al mese (co.co.co). Ma come può scrivere un articolo in queste condizioni? Al più si cambia una virgola del comunicato stampa e via…».
[1. Continua, qui la seconda e ultima parte]
A La Nazione pagano i collaboratori 6 euro lordi a pezzo (minimo un modulo, una breve per intenderci non viene conteggiata); 3 euro lordi a foto.
Ci vorrebbero più inchieste del genere, anche se poi ci si chiede se serviranno a qualcosa. Io ho lavorato come freelance per una Grande Testata di Moda per quasi 3 anni, niente contratto ma presenza in ufficio dalle 9 alle 18, stipendio di 900 euro al mese, mai aumentato né regolarizzato. Dopo quasi tre anni ho preferito mollare il colpo e abbandonare completamente il settore. Se devo scrivere (quasi) gratuitamente, ora lo faccio con i miei tempi e con il mio spazio online, ma che tristezza.
ti consiglio questo sito:
http://www.elaborazione.org e la ricerca sull’editoria condotta da Ires Emilia Romagna in uscita a breve