Quando Simone Weil criticava i partiti

Habent sua fata libelli. Il breve scritto “Note sur la suppression générale de partis politiques” elaborato da Simone Weil probabilmente nei primi mesi del 1943, poco prima della sua morte, ha conosciuto nel tempo alterne fortune e oggi, dopo oltre cinquant’anni di oblio, è prepotentemente tornato alla ribalta con la sua flagrante attualità. La riedizione proposta dalle Edizioni Vita-Feltrinelli con il titolo Senza partito. Obbligo e Diritto per una nuova pratica politica, comprende anche altri due testi della Weil, Obbligo e DirittoStudio per una dichiarazione degli obblighi nei confronti dell’essere umano. Il volumetto, tradotto e curato da Marco Dotti, reca una premessa di Marco Revelli e una postfazione di Andrea Simoncini.

Pubblicata per la prima volta sulla rivista “La Table ronde” nel febbraio del 1950, la “Nota sulla soppressione dei partiti politici” apparve l’anno successivo, in Italia, in forma di editoriale, sul n. 10 di Comunità, con traduzione di Franco Ferrarotti. Ben lontano dalle critiche antipartitiche della destra così come dall’accettare il binomio democrazia-partiti di massa, Adriano Olivetti, editore e direttore della rivista Comunità e dell’omonimo movimento politico, si è ispirato alla riflessione della Weil per elaborare la sua proposta alternativa di “una democrazia senza partiti”.

Una tesi che lo stesso Olivetti proporrà, nel novembre del 1951, suscitando un certo scalpore, al Quadrangle Club dell’Università di Chicago, di fronte a Leo Strauss, Hermann Pritchett, David Easton, Edward A. Shils, Ernst W. Burgess e a un sorpreso Friedrich von Hayek. Ma qual è l’intuizione rivoluzionaria della Weil? E perché oggi, dopo le tragedie del secolo breve, la sua spietata critica alla forma partito pare così attuale, da divenire ineludibile punto di riferimento sia per gli studiosi che si interrogano sulla crisi della democrazia rappresentativa, sia per i leader che promuovono nuovi movimenti?

“i partiti sono organismi costituiti pubblicamente, ufficialmente in modo da uccidere nelle anime il senso della verità e delle giustizia”. Secondo la Weil il partito, per sua natura, espropriando l’individuo della sua libertà e razionalità, rappresenta la negazione del bene. Si tratta di una sorta di macchina infernale a vocazione totalitaria, intollerante allo stesso tempo con i propri sostenitori e con i propri nemici. Tre, in particolare, sono i caratteri essenziali: “un partito politico è una macchina per fabbricare una passione collettiva; un partito politico è un’organizzazione costituita in modo da esercitare una oppressione collettiva sul pensiero di ciascuno degli esseri umani che ne sono membri; fine primo e ultimo di ogni partito politico è il suo potenziamento senza limite alcuno”.

Il peccato originale dei partiti, sempre secondo la Weil, è il totalitarismo maturato fra il Club dei Giacobini – da principio uno spazio di libere discussioni – sotto la pressione della guerra e della ghigliottina. Del resto, la democrazia e il potere della maggioranza, dal quale ci mise in guardia per primo Alexis de Tocqueville, non rappresentano in sé un bene. “Sono mezzi a torto o a ragione ritenuti efficaci in vista di un fine. Se anziché con Hitler, la Repubblica di Weimar avesse deciso attraverso vie più rigorosamente legali e parlamentari di mettere gli ebrei nei campi di concentramento torturandoli con raffinatezza sino alla morte, questi “mezzi” non avrebbero avuto un atomo di legittimità più di quanto non ne abbiano attualmente. Una cosa del genere non è affatto inconcepibile. Solo ciò che è giusto è legittimo”.

La radicalità della posizione della Weil, pur maturata in un contesto storico d’eccezione, pone non pochi interrogativi a chi oggi riflette sulla crisi della rappresentanza sostanziata nella liquefazione dei partiti tradizionali e nell’emergere di nuovi soggetti politici di tipo partecipativo. In tale contesto le attualissime considerazioni “inattuali” della filosofa francese rivelano una portata profetica, laddove alla cristallizzazione artificiale in partiti viene contrapposto un “ambiente di affinità” allo stato fluido che consente agli individui di confrontarsi ed esprimersi liberamente.

Un “ambiente di affinità” che la Weil assimila al mondo delle riviste ma che, a ben vedere, potrebbe essere oggi individuato in un blog o una piattaforma online, sempre che siano aperti e non coercitivi. Una rivista, infatti, ammonisce la Weil, se impedisse ai suoi collaboratori di scrivere anche su altre riviste dovrebbe essere soppressa, proprio come i partiti.

Il breve scritto si chiude, infine, con una critica antropologica al concetto stesso di partito inteso come rinuncia al pensiero e dogmatica presa di posizione pro o contro. “Quasi ovunque – e spesso anche a proposito di problemi puramente tecnici – l’operazione del prendere partito, del prendere posizione a favore o contro , si è sostituita all’operazione del pensiero. Si tratta di una lebbra che ha avuto origine negli ambienti politici e si è allargata a tutto il Paese fino a intaccare quasi la totalità del pensiero. Dubito sia possibile rimediare a questa lebbra che ci uccide, se non cominciando dalla soppressione dei partiti politici”. Una posizione – quella della Weil – che poco ha in comune con tanta corriva retorica dell’antipolitica ma che colpisce al cuore numerose certezze sul rapporto fra individuo e democrazia, riproponendo la centralità dell’essere umano inteso nella sua irrinunciabile sacralità.

Titolo: Senza Partito. Obbligo e diritto per una nuova pratica politica

Autore: Simone Weil

Editore: Edizioni Vita-Feltrinelli

Pagine: 87

Prezzo: 8 €

Anno di pubblicazione: 2013



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