Era l’ultimo giorno delle superiori. Avevamo fatto una festa a scuola, ormai giunta agli sgoccioli di una profumata sera d’estate a Gerusalemme. Stavo per andarmene, quando mi sono imbattuto in un professore per cui nutrivo una profonda ammirazione. “Stai per entrare nell’esercito”, mi disse. “Prima di partire leggi Il nudo e il morto di Norman Mailer”.
“Mailer”, proseguì, “ti insegnerà una lezione importantissima: ti farà capire che sia Mussolini che Gandhi potrebbero essere tuoi commilitoni. Non appartengono a due schieramenti opposti come Napoleone e Kutuzov in Guerra e pace”.
A casa nostra Tolstoj era un semidio e Guerra e pace il suo testo sacro. Citare nella stessa frase un autore americano sconosciuto e il grande Tolstoj era già abbastanza grave. Esprimere degli apprezzamenti, poi, era blasfemia pura. Blasfema o no, la lezione morale che mi si voleva impartire era chiara: non proiettare mai il male sul fronte opposto al tuo, prima guardati intorno.
A Thomas Mann era capitato di avere Hitler nel suo stesso reggimento. Ne aveva tratto ispirazione per un saggio provocatorio il cui titolo originale è Der Bruder, poi tradotto in Quell’uomo è mio fratello e successivamente nel più vibrante titolo dell’Esquire Fratello Hitler. Nel saggio, Mann non colloca il Führer in una sorta di quarantena morale, isolandolo dal presunto decoro che contraddistingue gli altri tedeschi. Per lui Hitler è un’incarnazione della Germania al pari di Goethe, e nell’utilizzare il vocabolo che allude alla forma di affetto più caro, “fratello”, non esita ad applicarglielo. E questa non è, per lui, l’unica croce da portare; il Mann artista non può infatti dissociarsi dall’artista Hitler, artista fallito ma pur sempre artista. Così scrive: “Un fratello, un fratello piuttosto scomodo e mortificante. Mi rende nervoso, e il nostro rapporto è in un certo senso per me fonte di dolore. Ma non lo rinnegherò” (Esquire 11, No 3, 1939).
Per quanto l’uomo Hitler abbia fallito e commesso errori, ciò nonostante egli resta un fratello di Thomas Mann sotto due punti di vista: in quanto tedesco e in quanto artista. L’efficace trovata retorica di inserire il termine “fratello” in quello che suona come un ossimoro morale – “fratello Hitler” – sottolinea un concetto importantissimo sul piano etico. Il punto non è quello di giustificare per associazione una colpa imperdonabile, quanto piuttosto quello di motivare una pretesa di comune responsabilità. Non siamo colpevoli del male fatto dai nostri fratelli e sorelle, che si tratti di nostri fratelli o sorelle in senso letterale o in un’accezione metaforica come nel caso dei nostri connazionali, ma siamo responsabili delle azioni che compiono. Siamo noi i custodi dei nostri fratelli.
Le moderne teorie sul male funzionano come un pendolo. Il male oscilla infatti tra due poli: il meschino e il sublime, ovvero il “satanico maestoso”, ciò che va oltre misura, oltre ogni possibilità di calcolo e imitazione. Questa oscillazione tra i due poli della malvagità non ha tregua, non trova l’equilibrio. La tesi è che ci sia qualcosa di profondamente sbagliato nel rimanere ancorati a uno dei due poli. È sbagliato sul piano descrittivo, perché non è così che si comportano gli esseri umani, ma anche su quello normativo, perché non è così che dovrebbero comportarsi. La mia teoria è che i due poli, meschino e sublime, possano spiegare la divisione dei compiti riscontrabile in riferimento alla malvagità collettiva e sistematica. Si tratta però di due poli impostati erroneamente a livello retorico: quello della meschinità è viziato dal fatto di abbrutire il male, mentre quello del sublime dall’opposto difetto di glorificarlo.
Partiamo dalla spiegazione della divisione dei ruoli.
Per prima cosa bisogna operare una distinzione cruciale tra chi istiga al male e chi se ne rende complice. I complici sono meschini. La banalità del male corrisponde alla banalità dei complici. Gli istigatori invece sono tutt’altro che meschini: malvagi, di sicuro, ma assolutamente non banali. Non c’era nulla di banale in Reinhard Heydrich, il principale interprete dell’Olocausto. Quello di Adolf Eichmann è forse un caso un po’ più ambiguo ma anche lui, tra le menti principali ad aver architettato quello sterminio, non è stato affatto l’oscuro burocrate che l’Arendt ha deciso di rappresentare.
Per Arendt l’aggettivo “banale” va ascritto alle motivazioni: il desiderio di un innalzamento di grado è un motivo banale. L’idea di fondo è che la gente faccia del male per ragioni ordinarie piuttosto che per intenti diabolici. Individui assolutamente normali, che in altri contesti rispetterebbero le regole, sono capaci di compiere mostruosità senza essere in alcun modo dei mostri, ovvero senza agire in quel modo per il semplice gusto di fare del male. Scrive Arendt: “Eichmann non era uno Iago né un Macbeth, e nulla sarebbe stato più lontano dalla sua indole – come per Riccardo III – che mostrarsi malvagio per fredda determinazione”. Eichmann – il “carnefice da scrivania”, come lo chiama lei – era spinto dal banale desiderio di una promozione nei ranghi delle SS naziste. Beh, lo stesso Shakespeare non ha certo avuto bisogno di Jaspers o Ardent perché gli insegnassero qualcosa in materia di motivazioni meschine. Dopotutto, la prima ragione della malvagità di Iago è la voglia di vendetta per essere stato scavalcato in una promozione (Cassio lo aveva superato di grado).
Tuttavia, né Iago né Eichmann appaiono banali in virtù della banalità delle loro motivazioni. Le ragioni che stanno alla base della malvagità sono generalmente di carattere eterogeneo e nella maggior parte dei casi sovradeterminate; alcune sono più banali di altre. Quel che è meno scontato è l’atteggiamento mostrato nei confronti del male fatto: alcuni se ne rallegrano come Iago, altri ne soffrono come Macbeth, ma la reazione più comune non è né di gioia né di tormento interiore.
A questo punto bisogna fare una distinzione tra due diverse accezioni del termine “banale”: banale nel senso di ordinario e banale nel senso di superficiale. Al banale nell’accezione di ordinario si contrappone il sentimento di grandiosità, mentre il superficiale si contrasta con la profondità, come nell’espressione “psicologia profonda”. L’ambizione a essere promosso all’interno di un ordine gerarchico coinvolge un processo di psicologia superficiale, mentre la ricostruzione che Freud fa dei motivi contraddittori che spingono Macbeth a fare del male – il desiderio di stabilire una dinastia reale pur essendo irrevocabilmente senza figli – pertiene piuttosto alla psicologia profonda.
A prescindere però dalla “profondità” o “superficialità” di Macbeth, è Lady Macbeth l’istigatrice del male: Macbeth prende il controllo solo una volta divenuto re.
Affrontiamo ora il tema della retorica che riguarda la “banalità del male”.
La banalità del male è un artificio retorico che punta a contrastare la convenzione che attribuisce alla malvagità un che di sublime maestosità e allettante vitalità. Il timore – peraltro assolutamente giustificato – è che rappresentare il male in termini di diabolica magnificenza possa trasformarlo in una categoria estetica e conseguentemente neutralizzarne la forza morale. Il male implica una straordinaria sofferenza e un’esagerata angoscia inflitte ad alcuni esseri umani da altri loro simili senza alcuna giustificazione. Abbellire il concetto di malvagità relega in secondo piano il dolore a esso collegato.
Ricordo bene quanto mi abbia sconvolto il racconto di una testimone oculare nel processo contro Eichmann, che descriveva il Dottor Mengele come un uomo straordinariamente affascinante nel suo fulgido cappotto bianco mentre in piedi su una piattaforma giocava a fare Dio scegliendo chi dovesse vivere e chi morire.
L’aggettivo “bello” nella definizione dello stereotipo “diavolo bello” ha quindi un effetto sedativo dal punto di vista morale, che il termine “banale” intende contrastare.
Anche l’aggettivo “banale” però ha le sue pecche, perché sminuisce l’enormità del male. Tra l’estremo del male come mediocrità e quello del male come apoteosi del sublime è difficile trovare un punto di equilibrio.
Ma quali che siano le insidie che si celano nei contrapposti poli dello squallore e del sublime connaturato agli eroi negativi, bisogna ricordare che c’è un rischio nella logica seduttiva del male ma anche in quella induttiva, ovvero nel ridurre la malvagità a un fenomeno sociale empirico. Per quel che riguarda una ricostruzione empirica del regime nazista entrambi i poli hanno una funzione esplicativa.
Ma torniamo alla funzione esplicativa del concetto di banale.
Noi non giudichiamo gli imprenditori sulla base delle loro motivazioni. La motivazione più diffusa – quella di fare soldi – è di per sé una banalità. Anche gli imprenditori del male sono imprenditori come gli altri. Il male se operato in modo sistematico richiede un’eccellente organizzazione, capacità di prendere l’iniziativa, doti d’immaginazione per escogitare sempre nuovi metodi atti a infliggere sofferenze e umiliazioni, destrezza nelle tecniche di manipolazione e intimidazione così da far in modo che la macchina della malvagità possa funzionare senza intoppi.
Tra gli imprenditori del male sistematico e strutturalmente complesso va sicuramente annoverato Eichmann. Se guardiamo a Eichmann attraverso la finestra della sua cella di Gerusalemme è in effetti così che lo vediamo: squallido e fuori moda, noiosamente pedante, letteralmente un automa idiota. Eppure non era niente affatto lo scontato “carnefice da scrivania” senza cervello che Arendt ci ha dipinto. Riguardando al Piano Madagascar del Diciannovesimo secolo per sterminare gli ebrei in Europa e successivamente al Piano Lublino, è bene tener presente che sono stati entrambi condotti sotto la guida di Eichmann. Il che allude a un ingegno furbo, a una perfida immaginazione e, quel che è più importante, a una forte intraprendenza.
Ma per quanto Arendt si sbagliasse su Eichmann in quanto personaggio specifico, ritengo che avesse ragione rispetto al quadro più ampio, ovvero nello stabilire che la maggior parte dei malvagi è composta da individui squallidi e banali, sia per motivazioni che per iniziative. Nella maggior parte dei casi si tratta di semplici complici del male: chi per identificazione con gli obiettivi del regime del male, chi in virtù di una mera apatia. Che si pongano come tali per identificazione o per indifferenza, i complici non sono istigatori. Il regime nazista ha agito come una forbice che per tagliare necessita di due lame, istigatori e complici. Una lama sola, in assenza dell’altra, non avrebbe potuto ferire né spiegare quanto è accaduto.
La distinzione a cui sto facendo riferimento tra istigatori e complici non va confusa con un’altra: quella tra chi fa del male e chi ne trae vantaggio. Nel Sudafrica dell’Apartheid i diretti responsabili sono stati relativamente pochi, ma molti esponenti della comunità bianca hanno tratto vantaggi dal male che è stato fatto. In Ruanda invece ci sono stati parecchi responsabili, ma vantaggi per pochi. Non mi sorprenderebbe se venisse fuori che più organizzato e sistematico è il regime del male, più basso è il rapporto tra chi compie il male e chi ne trae beneficio, e viceversa.
La distinzione tra chi fa il male e chi ne ricava vantaggio può avere una qualche relazione con quella tra istigatori e complici, ma tale relazione, ammesso che esista, è assolutamente indiretta.
Quasi alla fine della mia esposizione lasciate che faccia una precisazione assolutamente necessaria. Per “istigatori”, “complici”, “artefici” e “beneficiari” del male non intendo stereotipi umani o tratti stabili del carattere. Sono categorie che dipendono dalla situazione contingente. Non ho alcuna difficoltà a immaginare Radovan Karadžić, il criminale di guerra serbo, tra i suoi pazienti dell’ospedale Koševo a scrivere poesie e dirigere il reparto di psichiatria con grandissimi benefici per i malati. Se non fosse stato per il suo amico Dobrica Ćosić, che lo incoraggiò a intraprendere la carriera politica, sarebbe rimasto in ambito medico a rendere un servizio umanitario e a fare il bene dei suoi simili. Non c’è dubbio che Karadžić si sia reso colpevole di crimini orribili, ma il suo cosiddetto “carattere” ha ben poco a che fare con tutto ciò.
Ma torniamo all’aspetto retorico in modo che io possa riassumere la mia posizione. L’idea di “male” ha in sé, io credo, una buona dose di malizia. Neutralizza la moralità rendendo la malvagità attraente e bella oltre ogni misura. Perché il male riesca a mettere in atto il suo inganno non può essere brutto e causa di repulsione, dal momento che Satana non è solo il nemico del bene ma anche dell’innocenza. Non può permettersi di essere brutto perché deve mostrarsi attraente e seduttore: il “dolce Mefistofele”, per dirla come Marlowe. Per questo a preoccuparmi è più la beatificazione del male che non la banalizzazione della sua meschinità.
Traduzione di Chiara Rizzo