Da Reset-Dialogues on Civilizations
La Libia torna in balia delle milizie armate. E i primi obiettivi dei movimenti radicali sono le sedi diplomatiche. L’ambasciata italiana a Tripoli ha subito un nuovo tentativo di attacco martedì scorso. Un ordigno esplosivo è stato scoperto sotto una vettura in dotazione di questa ambasciata. La polizia diplomatica libica ha fatto brillare la bomba e non ci sono state vittime.
Le sedi diplomatiche nel mirino dei jihadisti
Questo è stato l’ennesimo episodio che ha coinvolto una sede diplomatica di un Paese che ha direttamente o indirettamente fiancheggiato un attacco militare contro il regime del colonnello Gheddafi, fino alla sua deposizione nel 2011. Nel gennaio scorso, un attentato aveva colpito il console italiano Guido De Sanctis. In quell’occasione la vettura del diplomatico venne colpita da numerosi colpi di pistola. L’auto blindata evitò che il console e le altre persone a bordo rimanessero ferite. Subito dopo si parlò anche di una prima probabile rappresaglia all’attacco francese in Mali, avviato poche settimane prima.
Nello scorso aprile venne colpita l’ambasciata francese a Tripoli. Un’autobomba ferì tre persone, due addetti alla sicurezza francesi e una ragazza libica. Nel settembre scorso, un grave attentato è costato la vita all’ambasciatore americano Chris Stevens e ad altre tre persone. Secondo l’Intelligence americana, responsabile dell’attacco fu il gruppo radicale Ansar al-Sharia, legato al terrorismo internazionale di Qaeda. Ma l’ambasciatore degli Stati uniti alle Nazioni unite, Susan Rice, raccontò in una prima ricostruzione, come Stevens fosse rimasto vittima della reazione della popolazione di un film blasfemo che stava diffondendo reazioni violente in tutto il mondo arabo. Sono ancora in corso indagini per la mancata evacuazione dell’edificio. I jihadisti sfruttano l’assenza dello stato per seminare di nuovo terrore.
Lybian Shield e gli scontri di Bengasi
Le violenze erano iniziate lo scorso sabato quando violenti scontri a Bengasi avevano causato trentuno morti. È immediatamente caduta la testa del capo di Stato maggiore libico, il generale Yusef al-Mangoush che ha annunciato le sue dimissioni. Le dimissioni sono venute in seguito ad alcune nomine che prevedono di designare un magistrato responsabile di investigare sulle responsabilità delle milizie e aprono ad un piano per il passaggio di poteri dalle brigate alle forze di sicurezza, anche se nei documenti ufficiali non si fa chiaramente riferimento ad uno «smantellamento» di questi gruppi armati. Gli scontri dello scorso sabato sono scoppiati quando un gruppo di manifestanti si è riunito alle porte della milizia «Scudo della Libia» o «Lybian Shield», chiedendone il bando.
La questione delle milizie resta la prima causa di instabilità sin dall’uccisione del colonnello Gheddafi nel 2011. La brigata è in realtà una sigla “ombrello” all’interno della quale hanno operato durante il conflitto decine di brigate. Questo gruppo sarebbe anche responsabile dell’ultimo assedio a Bani Walid dello scorso novembre. Esiste ancora un complesso sistema urbano di milizie nella capitale libica. Sono composte da ribelli che provengono da diverse parti del Paese, disoccupati, ex detenuti rilasciati durante la guerra, e forze temporanee formate dal ministero dell’Interno, conosciute come Comitati supremi di sicurezza (Css). A questi gruppi si aggiungono le milizie salafite, ostracizzate dagli altri raggruppamenti e additate come responsabili di violenze dagli altri gruppi. L’assenza di una politica univoca nei confronti delle milizie che operano sul territorio libico chiarisce la debolezza delle istituzioni post-Gheddafi e i limiti del governo di transizione. Centinaia di persone sono scese in piazza proprio per protestare contro l’assenza di diritto. Le urla della folla stigmatizzavano azioni di gruppi armati fuori legge.
Qataib: uno stato nello stato
Le qataib sono milizie armate che hanno giocato un ruolo fondamentale nella lotta contro Muammar Gheddafi. Sono state protagoniste della presa di Tripoli nel 2011 e mantengono ancora un vasto controllo territoriale. Come ci spiega il ricercatore dell’Università di Londra Igor Cherstich: «In seguito alla disintegrazione dell’apparato di sicurezza messo in piedi dal colonnello, le brigate armate sono emerse come unico sistema di polizia e di esercito funzionante all’interno del paese. In alcune zone del paese le qataib pattugliano le strade, arrestano (e a volte detengono) presunti criminali, organizzano posti di blocco per il controllo dei documenti, e spesso dirigono persino il traffico».
Le brigate costituiscono un panorama differenziato e complesso. Alcune milizie hanno giurato fedeltà al governo libico e si descrivono come una “polizia provvisoria”, in attesa che il paese possa tornare ad avere delle forze dell’ordine regolari e operative. Le milizie hanno una gerarchia interna che spesso rispecchia quella dell’esercito regolare, ma nella maggior parte dei casi le brigate non hanno centri di addestramento o dinamiche di appartenenza ben precise. Molte qataib appaiono come organizzazioni informali. Le loro sedi sembrano spesso dei “centri sociali” armati: baracche o case dove i ragazzi vanno a passare il tempo.
«Gli scontri tra milizie e manifestanti avvenuti a Bengasi testimoniano il paradosso delle milizie», prosegue Cherstich. «Questi gruppi nati come espressione popolare di rivolta contro il regime iniziano ad essere mal tollerati dal popolo libico. La vicenda testimonia anche il senso di identità nazionale nella Libia del post-Gheddafi. Il fatto che l’incidente sia avvenuto in Cirenaica, la regione orientale del paese, è particolarmente rilevante – prosegue il ricercatore – La Libia orientale ha dato i natali a molti di questi gruppi armati irregolari, ma ora sono proprio i cirenaici a esprimere il loro dissenso verso le brigate. Incidenti come questi sembrano suggerire una certa disgregazione sociale, ma in realtà, a ben guardare, testimoniano le aspirazioni nazionali del popolo libico. Per questo, pur riconoscendo il ruolo importante giocato dalle milizie nella rivoluzione, molti libici chiedono una regolarizzazione delle forze di polizia», conclude.
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