Nel corso della storia, la pratica e le istituzioni della politica sono dipese in larga misura dai processi di informazione e comunicazione. Il motivo è semplice: le persone prendono decisioni, in tutti gli ambiti della loro vita, in funzione degli stimoli e dei diversi tipi di informazione che arrivano alle loro menti a partire dal loro ambiente comunicativo. E il modus operandi di questo ambiente dipende a sua volta dalla tecnologia e dall’organizzazione del processo della comunicazione.
Che si parli delle cerimonie sacro-politiche dell’antichità, dei sermoni dal pulpito, della comunicazione scritta a partire dall’invenzione della stampa, della radio, della televisione o di internet: i mass media, nel senso più lato del termine, costituiscono lo spazio pubblico, lo spazio in cui vi sono punti di vista contrastanti, in cui vengono formate opinioni, in cui i comportamenti vengono influenzati; dove, infine, viene deciso il futuro delle élite che aspirano a governare e conseguentemente il destino dei governati. Benché questa stretta relazione tra comunicazione e politica si produca in tutti i sistemi di governo, in democrazia essa gioca un ruolo ancora più decisivo nella misura in cui i cittadini decidono liberamente da chi, come e quando saranno governati, sulla base di un giudizio informato intorno a ciò che è meglio per loro e per il paese. Per questo a volte si è parlato di quarto potere, in riferimento al potere dei media e alla loro influenza sull’opinione pubblica.
In realtà, però, questa caratterizzazione è inesatta. Perché sono i politici coloro che detengono il potere politico, i finanzieri coloro che esercitano quello economico, e i ministeri intellettuali e religiosi quelli che si arrogano il potere morale e culturale. Accanto a loro, sono molte altre le dimensioni del potere che costituiscono le proprie élite, in modo tale che la totalità del potere nella società sia di fatto costruita intorno a reti di relazioni tra élite dominanti in ciascuno dei settori del potere. Non vi è una élite unificata del potere, ma una rete di élite locali, nazionali, internazionali e globali in dimensioni differenziate, le quali, nelle loro alleanze e nei conflitti che scaturiscono da interessi condivisi o divergenti, compongono quella rete cangiante di relazioni asimmetriche che, in ultima istanza, costituisce la cornice della vita quotidiana dei cittadini.
Il vecchio spazio pubblico
Tuttavia, tutti i processi di formazione del potere avvengono nel medesimo spazio: lo spazio della comunicazione socializzata, ovvero della comunicazione che potenzialmente arriva all’intera società. Questo non significa che i media sono i detentori del potere, ma un qualcosa di ancora più importante: essi sono lo spazio nel quale il potere è costituito, dal momento che solo le opzioni personali o programmatiche che accedono a questo spazio arrivano alla conoscenza dei cittadini. E il modo in cui vi accedono, l’intensità, il formato e la narrazione con cui lo fanno sono tutti elementi decisivi nella percezione delle persone e, in ultima istanza, anche nella loro partecipazione e capacità di prendere decisioni all’interno del processo politico. Eppure, questo non è uno spazio neutro. È condizionato dagli interessi economici e politici delle imprese mediatiche e dei governi, nonché dalla mediazione, dalle preferenze e dalle diverse opzioni di professionisti della comunicazione.
Per questo, in democrazia, sono state create delle regole di accesso ai media di massa con l’obiettivo, in via di principio, di garantire una certa uguaglianza delle opportunità rispetto alle diverse opzioni. Tuttavia, un’analisi comparativa delle legislazioni in materia ci induce a dubitare dell’efficienza democratica di queste regolamentazioni. Nel contesto dello Stato spagnolo, la norma essenziale è la possibilità di accedere ai media pubblici per un tempo proporzionale al successo ottenuto nelle elezioni precedenti e questo tende a privilegiare l’inerzia del passato rispetto alla possibilità di un futuro diverso. Inoltre, tenuto conto del fatto che l’interesse dell’audience per la propaganda elettorale ufficiale è minimo, l’impatto di quest’ultima sull’opinione pubblica è molto scarso. Più efficaci sono le campagne subliminali di promozione politica, ivi inclusi gli articoli d’opinione scritti su commissione e l’informazione giornalistica tendenziosa. E poiché questo tipo di politica mediatica è caro, la sua pratica generalizzata incoraggia il finanziamento illegale delle campagne politiche in quasi tutto il mondo.
La regolamentazione dei contributi economici non è una soluzione, perché una volta approvata la legge, il trucco è fatto. La soluzione alternativa, di recente sancita dalla Corte Suprema degli Stati Uniti, sarebbe la possibilità di un finanziamento illimitato delle attività politiche: questo, ovviamente, favorirebbe le opzioni che il mondo del business predilige. Pertanto, la politica mediatica distorce e vizia il processo democratico. Ma distorce anche il dibattito politico, poiché utilizza come arma principale la politica dello scandalo, ovvero la produzione (più o meno accurata) di informazioni che denigrano l’avversario. I messaggi negativi infatti vengono registrati dalla mente in maniera molto più intensa che i messaggi positivi. Benché lo scandalo non funzioni sempre – poiché esso stanca l’opinione pubblica – quando viene utilizzato direttamente o indirettamente da tutte le forze politiche esso contribuisce in maniera decisiva a screditare l’intera classe politica, aggravando la crisi di legittimità delle istituzioni democratiche, e in particolare dei partiti politici. I sondaggi, sia nazionali che internazionali, rivelano la sfiducia crescente dei cittadini di quasi tutto il mondo nei partiti, nei politici, e in misura minore, nelle classi di governo. Così, nelle nostre società la politica è una politica mediatica esercitata attraverso lo spazio della comunicazione ed è generalmente parziale e messa in atto facendo ricorso alla politica dello scandalo. Lo spettacolo di una politica dell’attacco ad hominem e dei messaggi ridotti a spot pubblicitari contribuisce in larga misura non solo a fomentare una disaffezione generalizzata dei cittadini nei confronti dei loro rappresentanti, ma anche a minare le fondamenta del sostegno per i compiti del governo, fatto particolarmente grave in un contesto di crisi.
Proprio in questa situazione risiede l’importanza della trasformazione dello spazio di comunicazione attraverso lo sviluppo di internet e delle reti di comunicazione mobile. Da noi, quasi tre quarti delle persone hanno accesso a internet, mentre la diffusione della telefonia mobile è praticamente universale. Inoltre, la rapida espansione della banda larga costituisce la piattaforma multimodale di comunicazione in cui viviamo. Non «guardiamo» internet come guardiamo la televisione. Noi viviamo con la Rete e dentro di essa, in tutti gli ambiti della nostra vita quotidiana. Le nuove generazioni continuano a guardare la televisione in maniera selettiva, ma attraverso internet. E, seppur in forma frammentaria, attraverso internet continuano a leggere i giornali, come mai prima d’ora. Hanno costruito i propri spazi di relazione, informazione, interazione e dibattito nei cosiddetti social media – le reti sociali multimodali di internet – accedendo, nello stesso tempo, ai contenuti più disparati a partire dalle tecnologie portatili. Ricordiamo che, nella comunicazione mobile, ciò che importa non è tanto la mobilità – visto che quasi tutte le chiamate vengono comunque effettuate da luoghi «fissi», come la propria abitazione, il luogo di lavoro o la scuola – ma lo stato di connettività permanente. È la connettività e non la mobilità che sta modificando radicalmente il modello sociale della comunicazione.
Ci troviamo alle soglie di una trasformazione essenziale del sistema di comunicazione, caratterizzata di massdallo sviluppo di quella che io chiamo l’autocomunicazione di massa: «di massa» perché è in grado di arrivare a tutta la società, nonché alle reti di comunicazione globali; «auto» perché i messaggi vengono prodotti, ricevuti, selezionati e combinati da individui o gruppi interrelazionati tra loro e con la banca dati della Rete nella sua totalità.
Generalmente, la comunicazione in internet è libera. È monitorata, questo è vero, e la privacy ha cessato di esistere nel web. Tuttavia, ci sono così tante informazioni da processare e i motori di ricerca imprecisi sono così numerosi, che le sole vittime sono i soliti noti. Per l’immensa maggioranza della gente, internet è un vasto oceano di comunicazione solcato andata e ritorno dai velieri dei loro messaggi, verso porti che devono ancora essere scoperti. Se questa situazione sia un bene o un male è una questione aliena all’indagine del ricercatore, poiché esso cerca di analizzare per comprendere e non per giudicare. Diciamo pure che il punto fondamentale è rappresentato dal fatto che la libertà non garantisce gli usi della libertà. Più una società è libera, più essa dipende dalla qualità etica dei suoi membri e delle sue istituzioni. internet riflette ciò che siamo, individualmente e collettivamente.
Politica e internet: cosa cambia
Invece, ciò che sappiamo è che internet sta trasformando il processo politico, perché ha già trasformato lo spazio della comunicazione. Il monopolio informativo dei media di massa controllati da aziende e governi è terminato. Perché, anche se la stessa infrastruttura di internet ha dei proprietari, essi non possono proibire l’accesso alla circolazione dei suoi messaggi, dal momento che internet è una rete globale di computer i cui server, in caso di chiusura autoritaria, possono essere rimpiazzati da server collocati in altri paesi: proprio come è accaduto nelle proteste iraniane del 2010, quando la comunicazione via Twitter ha tenuto in vita la rivolta e la sua relazione con il mondo esterno.
I media sociali di comunicazione includono i blog, che nascono a centinaia di migliaia e continuamente in tutto il pianeta – per ogni persona un blog, se necessario – siti come YouTube e molti altri ancora, che diventano un deposito permanentemente aggiornato di immagini e suoni di tutte le società. Il citizen journalism arriva dove i giornalisti professionisti non arrivano, mentre per i professionisti vi è un chiaro interesse nell’alleanza con i non professionisti per difendersi dagli ostacoli che l’industria della comunicazione oppone alla loro indipendenza. Come si può censurare ciò che è già stato messo in rete? Per quanto riguarda la credibilità dell’informazione, tutto dipende dall’abilità dell’informato nel separare il grano dal loglio; in altre parole, tutto dipende dal livello di educazione e dalla qualità culturale dei cittadini. Ormai, la credibilità non sta più solo dalla parte di chi emette l’informazione, ma anche nella capacità di filtraggio di chi la riceve.
L’effetto più immediato di questa esplosione di reti orizzontali di comunicazione sulla politica è che i governi e i politici devono stare molto attenti a quello che fanno. Non ci sono più segreti, a meno che uno non conduca una vita monastica. Qualunque cosa può finire su YouTube, perché tutti hanno un telefono cellulare con telecamera e tutti sanno come mettere in linea delle foto. La menzogna come modo di governare ha un prezzo molto alto. Si provi a chiedere ad Aznar degli attacchi terroristici che colpirono Madrid il 14 marzo 2004. Per i vari Machiavelli che operano nell’ombra la situazione si fa difficile: in politica, la trasparenza adesso non è più solo una virtù auspicabile, ma anche un imperativo tattico per tenere alla larga la cattiva reputazione.
I cittadini utilizzano internet e i telefoni cellulari per informarsi, per discutere, per organizzarsi e, se necessario, per mobilitarsi. Però la classe politica, in generale, non ha ancora colto il potenziale di internet. Essa si limita a gesti simbolici con scarso contenuto pratico. Tutti i politici hanno una pagina web, tutti utilizzano YouTube o scrivono sui blog, ma tendono a confondere tutto questo con una sorta di bacheca annunci elettronica. Inoltre, i governi forniscono informazioni su internet, ma pochi di loro hanno il coraggio di aumentare la trasparenza della propria gestione attraverso sistemi interattivi e user-friendly che rendano possibile la partecipazione dei cittadini a partire dal libero accesso a tutte le banche dati contenenti le informazioni che avremmo il diritto di conoscere.
È questa la chiave: l’auto-organizzazione. I politici che vogliono veramente mettere a frutto tutto il potenziale di internet devono avere il coraggio di avvicinarsi a un nuovo modo di fare politica. Una politica in cui siano gli elettori, e non gli apparati, a prendere l’iniziativa; una politica in cui i politici imparino attraverso delle consultazioni popolari di massa, entrando in dibattito con la società, e non solo con delle minoranze di attivisti, ma con l’intera cittadinanza. Se i politici non cominceranno a praticare la politica di internet, i cittadini cominceranno a praticarla contro i politici. Di fatto, è quello che sta già accadendo. Ed è chiaro che in questo vi sono dei pericoli. Lo si chieda a Obama. Dopo i tentennamenti del suo primo anno di mandato, il movimento populista di estrema destra dei Tea Parties che osteggia le sue riforme è venuto generandosi in buona parte proprio grazie a internet. Quando si aprono i compartimenti stagni che bloccano la partecipazione dei cittadini e si libera l’accesso alle reti di comunicazione, si alimentano tutti i venti che soffiano all’interno di una società: si deve quindi navigare con essi e, talvolta, contro di essi. Per far questo sono necessari coraggio politico, leadership e, soprattutto, convinzione democratica. Non sarà più possibile trincerarsi dietro gli apparati di partito e la manipolazione mediatica, nascondendosi dietro la minaccia che c’è sempre di peggio. Forse così si conquista o si conserva il potere, ma si perde il contatto con una cittadinanza sempre più informata e auto-organizzata che chiederà conto di tutto in ogni momento, fino ad arrivare alla frattura o alla riforma delle istituzioni democratiche. La democrazia nell’era di internet non è la democrazia dei partiti. È la democrazia dei cittadini, fatta dai cittadini e per i cittadini. Con, senza o contro i partiti, essa è un derivato della capacità che partiti hanno di rigenerarsi.
(Traduzione di Nicola Missaglia)
Questo articolo è stato pubblicato in catalano nel numero 12 di «Via» e in inglese nel numero 6 di «Transfer».
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