La sfida maggiore che oggi i partiti politici di tutto il mondo si trovano ad affrontare è quella di trovare un modo per rinnovare le proprie idee in materia di crescita economica: si tratta di individuare un modello di sviluppo che sia sostenibile, inclusivo e idoneo a un contesto di competizione globale sempre più intensa. Le possibili soluzioni dovranno riuscire a dare una spiegazione del perché questa crisi si sia verificata e stabilire cosa va fatto per rimettere le cose a posto. Bisognerà rimandare a opzioni politiche che siano adottabili nella pratica dalle istituzioni nazionali, regionali e cittadine e rispondere alle ansie che scaturiscono per l’opinione pubblica dal constatare che l’economia non solo non sta più riuscendo a generare ricchezza e posti di lavoro ma non ha più neanche molto senso.
Il mio nuovo saggio La locusta e l’ape tenta di fornire alcune risposte che vanno ben al di là delle ormai diffuse teorie concernenti la politica monetaria e gli incentivi fiscali. Esso prende spunto da una tesi fondamentale. Gran parte delle argomentazioni di carattere politico del Ventesimo secolo sono state contraddistinte dalla dicotomia tra una prospettiva che considerava i mercati per loro stessa natura virtuosi e un’altra che li concepiva come entità intrinsecamente corrosive: Margaret Thatcher da una parte, Occupy dall’altra. Una percentuale significativamente alta delle analisi attuali ripropone queste due visioni contrapposte. Ma gli intellettuali migliori, compreso l’Adam Smith di due secoli fa, vedono le cose in maniera radicalmente diversa.
Le economie di mercato incentivano sia i comportamenti creativi che quelli predatori. Si possono fare i soldi attraverso la vendita di beni utili a consumatori consapevoli, ma è anche possibile guadagnare approfittando di clienti a cui mancano competenze, potere o facoltà di scelta. Il capitalismo nella sua espressione migliore premia quei creatori e produttori che generano beni di valore per il prossimo, che si tratti di tecnologie ingegnose, cibo di qualità, automobili o farmaci: sono l’equivalente umano delle api industriose. Incanalando la loro energia il capitalismo può migliorare le condizioni di vita di tutti, più di qualsiasi altro sistema economico nella storia dell’umanità. Ma in altri casi il capitalismo premia anche predatori e rapaci, personaggi e aziende che traggono valore dal prossimo senza dar molto in cambio. L’atteggiamento predatorio fa parte della quotidianità del capitalismo, in comparti fondamentali come il settore farmaceutico, informatico e petrolifero in cui ci si appropria abitualmente del denaro, dei dati sensibili, del tempo e dell’attenzione delle persone in un contesto di scambi fondamentalmente asimmetrici.
Comprendere la natura ambivalente del capitalismo è importante per tre ragioni, che vanno al cuore della politica contemporanea. Prima di tutto è cruciale per individuare le cause della crisi, che è stata innescata da un boom di attività predatorie, specialmente nel settore della finanza, che hanno finito per sottrarre valore al resto dell’economia in dosi colossali. Il ritorno economico degli atteggiamenti predatori è aumentato, mentre quello dell’innovazione è calato: ecco perché così tante aziende intorno al 2000 hanno scelto di accumulare contante invece di investire.
In secondo luogo, cogliere con chiarezza la natura ambivalente del capitalismo è cruciale per formulare strategie plausibili. Le ricette ideali dovranno coniugare misure atte a tenere a freno gli atteggiamenti predatori – specialmente nei settori della finanza e dell’ambiente – incentivando al contempo le attitudini creative, spaziando dall’imprenditorialità alle università. Terzo punto, la comprensione sarà fondamentale ai fini politici. L’opinione pubblica di sicuro non presterà fede a partiti politici incapaci di distinguere l’imprenditorialità buona da quella cattiva, l’innovazione valida da quella non meritevole, le buone pratiche aziendali dai cattivi esempi. A posteriori, sembra che parte del centrosinistra abbia letteralmente perso la capacità di operare distinzioni, abbandonandosi a uno sconsiderato entusiasmo per il mercato che ha gettato i semi delle problematiche che ci troviamo ad affrontare oggi. Secondo Jeff Immelt, presidente e direttore esecutivo della General Electric, che è probabilmente l’impresa capitalista più di successo dei nostri giorni, la crisi va ascritta alla “meschinità e avidità” dei capi d’azienda: “la maggior parte degli sbagli è stata commessa dai più ricchi senza la minima assunzione di responsabilità”. E il fatto che sia poi toccato ad altri pagare il prezzo di quegli errori ben rispecchia la politica di questi tempi.
Ma allora che bisogna fare? La soluzione non sta negli interminabili summit che aspirano a resuscitare l’economia pre-2007, e nemmeno in ulteriori iniezioni di incentivi o austerity. Dovremmo piuttosto delineare una mappa concettuale di come effettivamente si configurerà il futuro dell’economia e di come potrebbe e dovrebbe essere. Nel mio saggio elenco parecchi degli elementi necessari a frenare gli atteggiamenti predatori e massimizzare quelli creativi. Tra i mezzi per raggiungere il primo obiettivo ci sono i nuovi requisiti di reporting, nuove norme fiscali e opzioni radicali di riorganizzazione bancaria, strumenti volti a trasformare la finanza da padrona a serva dell’economia reale. I modi per raggiungere il secondo obiettivo spaziano invece dai modelli innovativi di istruzione agli acceleratori aziendali, dagli incentivi alle università di prossima generazione. Sono mezzi che implicano da una parte l’ampliamento e la ridefinizione degli investimenti nel settore R&S, dall’altra l’incoraggiamento di una cultura in cui ognuno abbia il potenziale per creare e innovare, in cui si favorisca lo spirito di settori dinamici come il movimento dei maker e l’imprenditoria sociale. Altri argomenti che affronto sono quelli relativi a ciò che dovrebbe accadere nel welfare e nei consumi e alcune opzioni radicali per la tassazione della ricchezza che aiuterebbero a ridurre gli sprechi cronici nei consumi della fascia dell’1% di reddito più elevato.
Le crisi possono rivelarsi fruttuose o sterili. L’ultima grande crisi finanziaria, negli anni Trenta, ha dato origine al protezionismo e alla guerra. Ma ha anche innescato una creatività sociale straordinaria, che ha portato in vaste aree del pianeta il welfare e le economie keynesiane, l’ONU e la difesa dei diritti umani. Paesi assolutamente distanti come la Svezia e la Nuova Zelanda hanno reagito alla crisi con programmi radicali di rinnovamento del contesto sociale. È stato uno dei tanti momenti in cui il capitalismo è stato riplasmato e le sue energie sono state ricanalizzate in modi nuovi, che si trattasse di innovazione scientifica e istituzione di sistemi sanitari pubblici, di leggi che vietassero il commercio di una qualsiasi cosa (dai farmaci agli alimenti non certificati) o del riconoscimento di nuovi diritti.
Non è ancora chiaro se e quando l’attuale crisi potrà dare i suoi frutti. Per ora tutte le ricette politiche sono rivolte al passato. I leader si stanno limitando a cercare di ristabilire lo status quo. È difficile individuare un qualsiasi partito politico in un qualsiasi Paese che sia capace di presentare una visione plausibile e illuminante di un’economia del futuro in grado sia di gestire quanto di sbagliato c’è nel capitalismo che di ottimizzare il suo impareggiabile potenziale creativo. Uno dei motivi è che malgrado i vecchi modelli abbiano perso ogni credito le nuove alternative sono di gran lunga troppo deboli per rimpiazzarli. Non mancano oasi di economia alternativa – dalle piattaforme di consumo collaborativo alle attività manifatturiere con materiali riciclati, dalla finanza peer to peer ai cibi a chilometro zero, dalle valute complementari alle reti sociali a supporto degli anziani. E non è difficile intuire le modalità radicalmente diverse con cui i vari sistemi del Ventunesimo secolo – dall’energia alla sanità alla finanza – potrebbero essere riorganizzati. Ma per ora la crisi ha ristretto gli orizzonti e smorzato ogni senso di possibilità alternative radicali.
La storia ci insegna che questa situazione non andrà avanti a lungo. La gente andrà alla ricerca non solo di soluzioni pratiche ma anche di un rinvigorimento dei valori, perché la crisi del capitalismo non è solo una crisi che investe lo sviluppo e le opportunità di lavoro: è anche una crisi della morale. Il capitalismo è incorso ripetutamente in crisi di redditività, ma è anche incappato in periodiche crisi di perdita di significato. In ogni economia capitalista esistono movimenti, attivisti e addirittura partiti politici anticapitalisti, che operano con modalità che non li configurano più come movimenti, attivisti e partiti politici antidemocratici. Ci sono centinaia di milioni di scettici e di cinici, che guardano con disgusto alle blande rassicurazioni offerte dalle aziende nella pubblicità, dissentendo nella propria testa quando non lo fanno addirittura nelle strade. A dispetto dei traguardi raggiunti nell’innalzamento degli standard di vita, il capitalismo ha pressoché del tutto fallito nel trovare un senso adeguato, non solo per gli sconfitti di questa partita, ma spesso anche per i vincitori. Ecco perché questioni come l’evasione o i bonus fiscali suscitano così tanti veleni.
Ne deriva che la sfida della ripresa economica va ben al di là di quanto la maggior parte degli analisti economici sia disposta ad ammettere. Le risposte alla situazione che stiamo vivendo dovranno spiegarci non solo come si fa a far funzionare il capitalismo, ma anche a cosa effettivamente serve.
(Traduzione di Chiara Rizzo)